Ventun organizzazioni del Nord e del Sud del mondo (in Italia Fairwatch), in rappresentanza di oltre 200 milioni di persone, hanno sottoscritto un appello in 10 punti che indica le misure per evitare che i cambiamenti climatici in corso raggiungano un punto di non ritorno. È un appello alla mobilitazione contro la convocazione da parte del segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon di un Vertice sul clima il 23 settembre a cui ha invitato solo leader politici e manager del big business, con una scarsa e compiacente delegazione di associazioni ambientali, per avallare uno «scippo» della lotta ai cambiamenti climatici da parte di chi vuole usare questa emergenza planetaria per fare business, con misure e politiche non vincolanti, a carattere privatistico, che mirano solo al profitto e sono sicuramente inefficaci.
Se i dieci punti della dichiarazione programmatica di Alexis Tsipras, integrati e specificati in un work in progress tutt’ora in corso, hanno offerto ai promotori, ai sostenitori e agli elettori della lista L’altra Europa – ma anche a chi ha guardato a questo progetto con interesse, anche se non l’ha votato – un punto di riferimento per collocare in un contesto europeo l’iniziativa delle forze antagoniste alle politiche di austerity, questi nuovi «dieci punti» possono ora permettere a tutti di riconoscersi e di partecipare a uno schieramento di ampiezza e di respiro planetari.
Ritroviamo in questo appello molti dei punti sinteticamente presenti nel «manifesto» da cui è nata la Lista L’altra Europa; oltre a promuovere e sostenere una mobilitazione su un tema di vitale importanza per il futuro di tutti e quasi scomparso dall’agenda dell’establishment italiano, europeo e mondiale, occorre ricondurre e far vivere quegli obiettivi di carattere globale nel vivo dell’iniziativa politica locale e quotidiana. Le rivendicazioni di questo appello sono state definite sulla base delle acquisizioni dell’IPCC, la commissione scientifica dell’Onu che studia i cambiamenti climatici, ma in essi troviamo intrecciati temi ambientali, economici, sociali e istituzionali, che è l’approccio che caratterizza il progetto L’altra Europa.
I primi tre punti dell’appello rivendicano impegni vincolanti (cioè sanzionati): 1) a contenere le emissioni annue climalteranti a 38 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2 entro il 2020, per impedire che la temperatura del pianeta aumenti di più di 1,5 gradi; 2) a lasciare sotto terra o sotto il fondo dei mari almeno l’80% delle riserve fossili conosciute; 3) a mettere al bando tutte le nuove esplorazioni ed estrazioni di combustibili fossili (e di uranio), comprese, a maggior ragione, quelle effettuate con il fracking e il trattamento delle sabbie bituminose; a soprassedere alla costruzione di nuovi impianti di trattamento e trasporto dei fossili, compresi i gasdotti. Si tratta di rivendicazioni agli antipodi delle politiche energetiche dell’Ue e della Strategia energetica nazionale (Sen) italiana.
Sono obiettivi impegnativi anche per un movimento come la lista L’altra Europa, che ha fatto della conversione ecologica un pilastro del suo programma e ha candidato un esponente di punta del movimento NoTriv. Non c’è molto da discutere, insomma, per fare un esempio, su progetti come quello estrattivo di Tempa Rossa (in Basilicata) e il suo complemento nel raddoppio della raffineria Eni di Taranto; o come il gasdotto transadriatico (Tap) che, dopo l’approdo in Puglia, dovrebbe attraversare tutta la penisola. C’è piuttosto da discutere su come presentare questo obiettivo al pubblico (cosa non facile, dato il silenzio che circonda i cambiamenti climatici), su come organizzare la mobilitazione, su come inquadrarlo in un programma generale di riconversione energetica.
Il quarto punto 4) riguarda la promozione delle fonti energetiche rinnovabili (Fer) in forme sottoposte a un controllo pubblico o comunitario (cioè «partecipato»). Occorre ricordare che circa l’80% della potenza fotovoltaica installata in Italia è stata assegnata a grandi impianti e che i relativi incentivi – i più alti del mondo – sono andati quasi solo a beneficio di un’alta finanza che nulla ha a che fare con la generazione energetica diffusa. Ma lo stesso vale per altre Fer. La politica energetica va rivoltata «come un calzino».
Il quinto il sesto punto impegnano: 5) a promuovere la produzione e il consumo locali di beni durevoli, evitando di trasportare da un capo all’altro del mondo quello che può essere fabbricato in loco; 6) a incentivare la transizione a una produzione agroalimentare di prossimità. È qui che la conversione ecologica, promuovendo una riterritorializzazione dei processi economici attraverso accordi di programma tra produzione e consumo (il modello, seppur in mercati per ora di nicchia, sono i gruppi di acquisto solidale, Gas) rappresenta una vera alternativa alla globalizzazione dei mercati dei beni fisici: quella che esige una competizione sempre più serrata in una gara al ribasso di salari, sicurezza sul lavoro e protezioni ambientali. Sono rivendicazioni che si riconnettono alle lotte contro la delocalizzazione di fabbriche e impianti, al movimento territorialista che su questi temi ha al suo attivo, soprattutto in Italia, una corposa elaborazione, e alla spinta verso una nuova agricoltura biologica, multicolturale, multifunzionale e di prossimità.
Qui sta anche la principale differenza che separa la conversione ecologica dalla mera adozione di politiche «keynesiane» di sostegno alla domanda con incrementi di spesa pubblica (in infrastrutture e servizi) e incentivi al consumo (detassazione dei redditi bassi e rottamazioni) finanziati in deficit. In un mercato globalizzato una maggiore domanda non si traduce necessariamente in aumenti di offerta e occupazione nello stesso paese, se non è ancorata a una progettualità diffusa e differenziata in base alle esigenze e alle caratteristiche dei diversi territori; il che richiede anche nuove forme di democrazia partecipata e di autogoverno.
Il settimo e l’ottavo punto riguardano 7) l’obiettivo “rifiuti zero” (centrale nei territori massacrati da criminalità ambientale e malgoverno), un’edilizia a basso consumo energetico e 8) un trasporto di persone e merci con sistemi di mobilità pubblici e condivisa.
Il punto 9) raccomanda la creazione di nuova occupazione finalizzata alla ricostituzione degli equilibri ambientali, sia nel campo delle emissioni climalteranti che in quello dell’assetto dei territori. Sono le «mille piccole opere» in campo energetico, nella manutenzione dei suoli, nei trasporti, nell’edilizia e in agricoltura in cui dovrebbe articolarsi un piano di lavori pubblici per creare subito un milione di posti di lavoro in Italia e 6 milioni in Europa.
Il decimo punto 10) impegna a smantellare industria e infrastrutture militari per ridurre le emissioni prodotte dalle guerre e destinare a opere di pace le risorse risparmiate. Non ci sono solo gli F35 da bloccare (cosa sacrosanta); c’è tutta l’industria e l’occupazione belliche da riconvertire: le opportunità di impieghi alternativi non mancherebbero.
L’appello prosegue indicando le cose da evitare: a) la mercificazione, la finanziarizzazione e la privatizzazione dei servizi forniti dall’ambiente (cioè tutta la cosiddetta green economy, quella che dà un prezzo alla Natura); b) i programmi misti pubblico-privato come Redd (che dovrebbe contrastare deforestazione e degrado boschivo) e altri simili, finalizzati solo a creare nuove occasioni di profitto; c) le soluzioni esclusivamente tecnologiche ai problemi ambientali (qui l’elenco è lungo e sicuramente discutibile: geoingegneria, Ogm, agrocombustibili, bioenergia industriale, biologia sintetica, nanotecnologie, fracking, nucleare, incenerimento dei rifiuti); d) le grandi opere inutili: si citano dighe, autostrade, grandi stadi (e noi possiamo aggiungere Tav, Mose e quant’altro); e) il libero commercio e i regimi di investimento che minaccino il lavoro, distruggono l’ambiente e limitano la sovranità economica dei popoli: possiamo tradurre in Ttip e Tisa.
In conclusione, l’appello invita a individuare e denunciare le vere radici dei guasti del pianeta: il modello industriale di estrazione crescente di risorse, il produttivismo per il profitto di pochi a scapito dei molti (cioè il capitalismo e un modello di crescita illimitata), che vanno sostituiti con un nuovo sistema che persegua l’armonia tra gli umani, connetta la lotta ai cambiamenti climatici ai diritti umani e offra protezione ai più deboli: soprattutto migranti e comunità indigene.
Questo modello industriale – conclude il documento – non è più sostenibile; occorre redistribuire la ricchezza oggi controllata dell’1 per cento della popolazione e ridefinire il benessere, che deve riguardare tutte le forme di vita, riconoscendo i diritti della Natura e di «Madre Terra».