Domenica 4 marzo nella liturgia cattolica in tutte le chiese la
lettura del Vangelo diceva che proprio all’inizio del suo ministero,
avvicinandosi la Pasqua dei Giudei, Gesù andò a Gerusalemme e nel tempio
mostrò con un gesto drammatico (la cacciata dei mercanti) che la
salvezza non stava nelle colombe, nelle pecore e nei buoi comprati per
denaro e offerti in sacrificio, ma stava nell’amore gratuito che
giungesse fino all’offerta di sé.
Domenica 4 marzo si è anche votato in Italia per una scelta implicante il futuro del Paese.
Il voto del 4 marzo è avvenuto alla scadenza del quindicesimo mese dal 4
dicembre 2016, giorno del referendum sulla Costituzione, e le due date
sono congiunte strettamente in modo che l’una spiega ed è simmetrica
all’altra, come giustamente ha affermato Renzi nel suo discorso della
sconfitta del 5 marzo.
Queste sono le cose certe del 4 marzo, e qui si conclude la newsletter
di http://www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/. Però non ci si può
fermare qui, a pena di cadere nell’alienazione dalla vita reale, che è
la vecchia accusa fatta alle religioni. Di conseguenza la newsletter
continua con un’analisi e una valutazione politica, e perciò opinabile,
di quanto è accaduto e potrà avvenire, e perciò non è firmata dal sito
chiesadituttichiesadeipoveri ma, con responsabilità personale, da chi
attualmente lo dirige.
Due Italie da amare insieme
Il 4 marzo, raffigurato nella cartina colorata trasmessa quella sera
in TV, ha mostrato due Italie: l’Italia del Nord, identificata dalla
maggioranza di centrodestra a trazione leghista, e l’Italia del Sud,
identificata dalla maggioranza 5 stelle, ben radicata e rappresentata
anche nel Nord.
Diciamo subito che noi amiamo tutte e due le Italie, come un’Italia
sola; che questo è un amore fatto di stima e ricco di speranza, e che
nell’analisi di ciò che l’Italia ha fatto il 4 marzo cercheremo di dare
ragione di questo illeso amore e di questa robusta speranza.
L’elettorato ha espresso un voto che ha sorpreso, da nessuno sondato e
immaginato così. È stato un voto che in molti ha suscitato dolore,
sgomento, in qualcuno addirittura indignazione e paura. Per rispetto di
questi sentimenti occorre escludere qualsiasi trionfalismo e guardarsi
da ogni giudizio saccente, manicheo, bianco o nero, tutto bene o tutto
male.
Però si possono cogliere alcune positività non indifferenti di questo voto.
Prima di tutto è venuto meno il demone di un crescente astensionismo.
Gli italiani non hanno licenziato con disprezzo la politica. Qui i
poteri opprimenti non hanno ancora vinto. La democrazia continua, la
Costituzione è salva. I giovani hanno votato. Anzi sono stati decisivi.
Con entusiasmo lo hanno fatto quelli che, per l’età, votavano la prima
volta. Incoscienti, certo, perché non sanno il passato, ma nuovi,
ansiosi di futuro.
Una feconda, netta discontinuità
In secondo luogo le elezioni del 4 marzo hanno introdotto nella vita
politica italiana una netta discontinuità. Naturalmente non sempre la
discontinuità è positiva, perché il dopo può essere peggiore del prima.
Tutti i conservatori la pensano così. Però senza discontinuità il nuovo
non accade e la storia è finita. La discontinuità è la soglia attraverso
cui può fare irruzione l’inedito, l’insperato, può scoccare il tempo
propizio, può giungere l’occasione che va colta, può passare quello che
gli antichi chiamavano il kairόs, con le ali ai piedi, da afferrare
prima che scompaia. È la cesura che interrompe quello che Walter
Benjamin nella sua filosofia della storia chiamava il tempo “omogeneo e
vuoto”; e la politica italiana aveva bisogno di questa discontinuità,
perché il suo tempo stancamente ripetitivo non solo era vuoto, non solo
era sordo a qualsiasi parola nuova, come per esempio quella della
critica di sistema di papa Francesco, ma di discesa in discesa stava
arrivando a un punto di caduta, rischiosissimo, e la gente stava male.
Ora dunque si tratta di prendere in mano la discontinuità, non subirla, e
volgerla al meglio.
In terzo luogo l’elettorato ha sbrigato alcune pratiche che la politica
professionale stentava a chiudere. Una è stata quella della
interminabile uscita di scena di Berlusconi: mentre il sistema mediatico
lo dava per risorto e futuro deus ex machina della nuova legislatura,
l’elettorato ha chiuso la partita. La stessa cosa ha fatto con Renzi,
ponendo fine alla sua azione di impossessamento e di progressiva
decostruzione di un partito così importante per la democrazia italiana
come il Partito Democratico. Naturalmente ci sono i sussulti della fine
che rendono drammatica questa transizione, ma l’esito sembra segnato.
Non c’è più il fantasma della secessione della Padania
In quarto luogo c’è un cessato pericolo che il voto del 4 marzo
certifica e sancisce. Non c’è più il fantasma della secessione della
Padania. È vero che la Lega è passata dal 4 al 17 per cento, (restando
pur sempre una minoranza contenuta) ma questo è il prezzo del fatto che
essa da partito locale e secessionista del Nord è passato ad essere
partito nazionale e unitario anche al Sud, e se proprio non può fare a
meno di giuramenti, è meglio che giuri sulla Costituzione e sul Vangelo
piuttosto che sul Dio Po e sulle sue ampolle. Siamo sempre al livello
pagano del sacramento del potere, ma almeno siamo più tranquilli
riguardo alla nazione.
C’è infine un dato molto confortante: non esiste quella ondata di
riflusso al fascismo che era stata avvistata e temuta. Casa Pound ha
ottenuto un risultato minimo, e la bandiera alzata su tutti gli spalti
della lotta agli immigrati non si può accreditare sommariamente al
razzismo e alla xenofobia. Essa è ascrivibile piuttosto alla sindrome
dell’egoismo, “noi per primi”, “Prima gli italiani”, “mors tua vita
mea”, che è poi la logica della politica intesa come difesa dei propri
interessi e non del bene comune, della politica identificata col
bipolarismo amico-nemico, ed è poi l’etica egemone del capitalismo come
competizione, concorrenza, meritocrazia, scarti ed esuberi. L’egoismo
non è razzismo, perché è negazione dell’altro, senza badare alla pelle,
il razzismo semmai ne è un corollario nella situazione data; la destra
stessa non si può dire xenofoba, perché non ha affatto paura degli
stranieri (e anzi li sfrutta), semplicemente è contro di loro, non li
vuole a tavola, non li vuole a traversare il mare, perciò è antixenita,
più che xenofoba. La vera questione è che il fascismo va combattuto a
monte, prima ancora che diventi tale.
Due vincitori, due sconfitti
Quanto al merito dei risultati elettorali, ci sono due vincitori e
due sconfitti. Come da tutti è stato riconosciuto, I due vincitori sono
il Movimento Cinque Stelle e la Lega di Salvini, con un’importante
differenza però: il Movimento 5 stelle ha vinto nel Paese, la Lega ha
vinto all’interno della coalizione di centro-destra, perciò non possono
vantare gli stessi diritti. I due sconfitti sono il Partito Democratico e
la sinistra di Liberi e Uguali.
C’è ora il problema del Parlamento che deve dare la fiducia a un
governo. Non essendoci una maggioranza assoluta, i partiti presenti in
Parlamento hanno non la facoltà, ma il dovere di concorrere a formare
una tale maggioranza. Perciò Moro, che veniva dall’anticomunismo (inteso
allora come lotta al peggiore estremismo) persuase il suo gruppo
parlamentare alla Camera di unire i suoi voti con quelli del partito
comunista e lo fece con una straordinaria onestà, cultura, e senso dello
Stato, e con la forza di una dedizione morale che egli sapeva potesse
giungere fino a costargli la vita.
Ora, per costruire una maggioranza che permetta un governo Cinque
Stelle, i giochi sono aperti, e questo è del tutto legittimo. Ma non
sono consentite bugie e attentati suicidi.
Quanto alle bugie, è falso che l’elettorato abbia collocato il Partito
Democratico all’opposizione. Gli elettori votano sempre con l’intenzione
che i loro rappresentanti abbiano parte nella direzione del Paese. Se
il Partito Democratico decide a priori di stare all’opposizione, non per
adempierne il mandato ma in realtà per vendicarsi del corpo elettorale,
lo fa per volontà sua, rovesciando la sua stessa tradizione, e anche le
tradizioni da cui proviene che si potrebbero far risalire addirittura
fino al 1919.
È falso poi che l’Italia sia tutta divisa tra due estremismi, con la
sola eccezione della piccola isola rimasta moderata del PD. Imputare la
propria sconfitta a un elettorato fattosi d’improvviso insensato ed
estremista, ha lo stesso fondamento dell’invettiva di Saragat che
imputava al “destino cinico e baro” la sconfitta del PSDI.
Non come Andreas Lubitz!
È però un attentato alla Repubblica dire: “poiché ci sono due
estremismi, che facciano loro il governo, se ne sono capaci”. Infatti è
il tentativo, per il proprio supposto tornaconto futuro, di indurre a
un’alleanza e a un governo degli opposti estremismi, che è precisamente
ciò che dall’inizio della Repubblica tutti i politici e gli statisti
hanno strenuamente cercato di impedire.
È infine un suicidio ritirarsi sull’Aventino, con il proprio gruppo di
parlamentari fedeli. È infine un suicidio ritirarsi sull’Aventino, con
il proprio gruppo di parlamentari fedeli. Ma è un suicidio come quello
di Andreas Lubitz, il pilota tedesco dell’ Airbus che il 26 marzo 2015
si schiantò volontariamente contro una montagna delle Alpi francesi, con
la deliberata volontà di distruggere l’aereo insieme con le 149 persone
che erano a bordo.
La sconfitta della sinistra
Ma al di là delle conseguenze più prossime, il vero monito e il vero
know how o insegnamento che viene da queste elezioni, è legato alla
sconfitta della sinistra. La sconfitta di Liberi e Uguali è più
significativa nel lungo periodo di quella del PD. Quella del PD infatti
non ha una lettura univoca, essendo stata soprattutto una sconfitta
della sua leadership. Ma quella di Liberi e Uguali è proprio una
sconfitta della sinistra: veniva da una speranza delusa, ma pur sempre
promettente come quella del Brancaccio; godeva del lascito di conoscenze
proveniente da sinistre già sperimentate; aveva un gruppo promotore e
dirigente di leaders di prestigio e di antica militanza, oltre che di
giovani e di donne portatori di freschezza e novità, aveva una proposta
politica dirimente come quella della creazione di nuovo lavoro, di
“lavoro vero e buono”: eppure ha fallito. E se questa sconfitta si mette
insieme alla costante che da un pό di tempo si è stabilita in Europa
della sconfitta di tutte le sue sinistre, dalla socialdemocrazia tedesca
al Labour inglese ai socialisti francesi, agli spagnoli ecc. si vede
che qui c’è un problema nuovo: la sinistra non vince perché non può
vincere, non può vincere più. E a quanto pare nemmeno in America o in
India. Gli analisti pronti all’uso dicono che la sinistra perde perché
non ha saputo adeguarsi alla nuova realtà della globalizzazione. È
verissimo, ma non ha saputo farlo perché la globalizzazione non è una
nuova condizione di natura, come pretende il pensiero unico, ma è il
frutto di una scelta economica e politica, che ha vinto e ha chiuso il
gioco, gettando la sinistra fuori dal campo. Si tratta cioè di un
ordinamento artificiale, fatto da mano d’uomo, che semplicemente non
prevede alternative al regime unico del neoliberismo e della finanza
globale. I regimi costituzionali, come quello italiano, escludevano per
legge il fascismo ma ammettevano che si potesse lottare politicamente
per una scelta liberale o socialista, e pertanto le sinistre erano
legittimate e potevano perfino vincere. Il regime vigente esclude per
legge il socialismo e perfino il new deal; ovvero esclude politiche
pubbliche o “aiuti di Stato” che intervengano nel mercato privatistico, e
ne correggano gli esiti anche perversi. Queste leggi, spesso implicite,
della globalizzazione, in Europa hanno trovato la loro traduzione in
diritto positivo nei Trattati dell’Unione Europea, che è poi il mercato
unico europeo. Qui, se la sovranità viene attribuita alla Mano
invisibile del Mercato, è chiaro che si tratta di una sovranità
assoluta, perché ciò che è invisibile non si può controllare o
correggere, e tutte le cose che sono scritte in secoli di dottrine
sociali o di dichiarazioni universali di diritti o di Costituzioni
democratiche (i fini sociali dell’economia, la rimozione degli ostacoli
allo sviluppo delle persone, i diritti universali, la tutela della vita e
della dignità degli esseri umani) non si possono fare perché dal nuovo
diritto europeo e globale sono considerate “infrazioni”. Perciò chi dice
qualunquisticamente che non c’è più né destra né sinistra, dice il vero
ma a metà, perché la destra c’è ed è l’unica ammessa. Sicché se la
sinistra continua a pensare che il problema principale è come salvare se
stessa e durare, e non quello di cambiare le cose, non può che essere
anch’essa di destra.
La conclusione, che ci porta oltre il 4 marzo come abbiamo cercato di
dire anche durante le settimane scorse, è che sarebbe reazionario e
regressivo postulare uscite grintose dalla globalizzazione, dall’Europa o
dall’euro. Il compito dell’ora è però quello di rimettere in
discussione le forme e le leggi della globalizzazione (in gran parte
prodotte proprio dalle “sinistre”), e in concreto cercare di mettere in
piedi una grande alleanza di opinioni e di forze democratiche europee
per una revisione dei Trattati europei, per ridare legittimità al
pluralismo delle politiche economiche e sociali e al ruolo della sfera
pubblica nell’orientamento e nel sollevamento dell’economia reale: che
vuol dire persone, famiglie, destini.
Raniero La Valle