I sigilli posti all’ex Rialto sono una cartina di tornasole dello stato di salute della democrazia a Roma e soprattutto di come oggi i poteri siano dislocati ben al di fuori dagli organi elettivi. Accade così che, dopo un anno di mobilitazioni della città dal basso, il Consiglio Comunale finalmente approvi una mozione che chiede espressamente la moratoria su tutti gli sgomberi di spazi sociali e culturali, ovvero delle oltre 850 esperienze autogestite e dal basso che hanno sinora impedito ad una città, da sempre prigioniera della rendita e della finanza, di sprofondare nell’anomia e nella solitudine competitiva. E accade che gli sgomberi proseguano senza soluzione di continuità, a volte decisi dalla Prefettura, a volte dalla Magistratura, a volte – è questo il caso dell’ex Rialto – dal Comune stesso. E accade che chi governa la città ammetta di non saperne nulla e di nulla poter fare di fronte ad una macchina amministrativa che si muove in autonomia.
C’È QUALCOSA che la giunta Raggi continua a non capire: oggi vincere le elezioni non corrisponde a prendere il potere e se non si governa confliggendo con i poteri forti – ovunque dislocati – si finisce per assecondarli, tanto sulle scelte strategiche quanto nell’etica pubblica. Fino a deificare le procedure. Così se la Corte dei Conti si è inventata che l’edificio dell’ex Rialto (uno stabile degradato, privo di riscaldamento e di acqua potabile) deve produrre profitto per il Comune, e il dirigente del dipartimento Patrimonio esegue chiedendo cifre a dir poco esorbitanti di affitto a realtà di volontariato, fino a porre i sigilli alla struttura, la Giunta Raggi dice di non essere d’accordo e nulla più.
È così che esperienze associative come il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, Attac Italia, Circolo Gianni Bosio, Trasform (solo per citare alcune del Rialto) vengono messe per strada e un edificio, reso vivibile dalle stesse, riconsegnato al degrado e all’abbandono. E in questo modo non si produrrà alcuno dei profitti richiesti dalla Corte dei Conti.
TUTTO QUESTO PERCHÉ c’è qualcos’altro che la Giunta Raggi continua a non capire: la legalità è un concetto complesso e, se non se ne comprendono le articolazioni, si finisce per fare il contrario di quello che si era annunciato. È del resto quanto già dimostrato in merito al debito di Roma Capitale e alla gestione dei beni comuni e dei servizi pubblici locali. Si può mettere in campo un’indagine indipendente e partecipata sul debito (scritta nel programma elettorale) senza confliggere con il decreto “Salva Roma” che quel debito perpetua, predeterminando qualsiasi scelta da qui al 2048? Si può aprire un percorso per la ripubblicizzazione dell’acqua (decisa da un referendum nazionale e scritta nel programma elettorale) non configgendo con Acea Spa e lo shopping che sta facendo sui servizi idrici di tutto il Centro Italia?
Non si può e l’illusione di essere la Sindaca di tutti evapora in una realtà in cui ci si trova ininfluenti rispetto all’azione dei poteri forti. Il problema di fondo è che chi governa pensando di rappresentare una città complessa finisce per costruire poco più che una rappresentazione chiusa e autoreferenziale, con la conseguente necessità di continua legittimazione da parte di quelli “che contano”.
MA L’IDEA che si possa continuare a sfuggire alle contraddizioni è ormai senza fiato. Da anni a Roma i poteri forti hanno deciso di eliminare tutto ciò che si muove al di fuori dello schema del profitto, della rendita e della solitudine. Ascoltare la città è l’unico modo per fermarli e per non doversi trovare domani ad aver costruito un deserto sociale chiamato legalità.