Domani, mercoledì 3 dicembre, è il fatidico giorno. Il premier Renzi,
l’Europa e i mercati lo auspicano da tempo, meno gli operai, i precari e
gli studenti che saranno in piazza ad assediare il Senato. Finito
l’iter il Jobs Act sarà legge, per il sociologo Luciano Gallino siamo “alla mercificazione del lavoro, è un provvedimento stantio e pericoloso”.
Scusi professore, lei parla di un progetto vecchio eppure il governo – che del nuovismo ha fatto un cavallo di battaglia – lo sponsorizza proprio per modernizzare il Paese. Dov’è l’imbroglio?
Nel Jobs Act non
vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto
15-20 anni fa. E’ una creatura del passato che getta le proprie basi
nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda
sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche
dell’Ocse della metà anni ’90. Inoltre si tratta di una legge delega,
un grosso contenitore semivuoto che sarà riempito nei prossimi mesi o
chissà quando. Non mi sembra un provvedimento che arginerà la piaga
della precarietà né che rilancerà l’occupazione nel Paese.
Una
bocciatura netta. E del premier che giudizio esprime, molti iniziano a
considerare il renzismo come il compimento del berlusconismo. E’
d’accordo?
Per certi aspetti sì, il Jobs Act
potrebbe tranquillamente esser stato scritto da un ministro di un
passato governo Berlusconi. Non a caso Maurizio Sacconi è uno dei
politici più entusiasti. Renzi continua nel solco di politiche di destra
impostate sul taglio ai diritti sul lavoro, sulla compressione
salariale e sulla possibilità di un maggiore controllo delle imprese sui
dipendenti, vedi l’uso delle telecamere.
In un recente editoriale su Repubblica
ha contrapposto alla Leopolda renziana, la piazza della Cgil. Eppure in
altre occasioni passate aveva espresso dubbi sull’organizzazione di
Susanna Camusso, accusandola di aver “appannato la bandiera del
sindacato”. Ha cambiato idea?
Negli ultimi mesi ad
esser cambiata è la Cgil. In diversi frangenti non ha contrastato i
nefasti provvedimenti avanzati dai governi, come nel caso della riforma
pensionistica. Ha accettato supinamente leggi micidiali e lo
smantellamento del nostro welfare. Sul Jobs Act è stata
incisiva mettendo in piedi una dura resistenza. E le divergenze tra Cgil
e Fiom – che invece ha sempre mantenuto la barra dritta – ora sono
minori, questo va salutato positivamente.
Le
nostre politiche economiche vengono dettate da quell’Europa che sta
imponendo soprattutto ai Paesi del Sud Europa dure misure di austerity e
privatizzazioni. Che credibilità ha Renzi quando minaccia di sbattere i
pugni a Bruxelles?
Dagli anni ’90 i socialisti
europei e le differenti branche della socialdemocrazia hanno abdicato e
sono stati contagiati dall’ideologia neoliberale abbracciando così
l’idea dei mercati da anteporre alla democrazia. Alla finanza che
disciplina i governi. In questo quadro, le affermazioni del premier sono
vuote, alle invettive non corrispondono i fatti: il Jobs Act e
la legge di Stabilità ne sono la palese prova. Persiste l’ortodossa
ubbidienza ai diktat dell’Europa, Renzi non è altro che un fedele
esecutore della Troika.
Non crede in repentine svolte in Europa e a strade alternative?
Siamo lontani dal contrastare le politiche imposte da Bruxelles. La
sinistra italiana come espressione di massa di fatto non esiste più.
Sono rimaste delle schegge, anche interessanti, ma politicamente
ininfluenti soprattutto di fronte a quel che dovrebbe essere il domani
di una sinistra in grado di rappresentare una valida opzione e
un’opposizione solida in Parlamento. In Europa Podemos e Syriza
rappresentano segnali importanti, iniziano ad avere una valenza di
massa. In generale, le recenti elezioni hanno confermato quasi ovunque
governi di destra o, ad essere gentili, di centrodestra. Ciò significa
che la maggioranza degli elettori dell’eurozona preferisce lo status quo,
purtroppo. La Germania ha rivotato in massa la cancelliera Angela
Merkel e il ministro Wolfgang Schäuble malgrado le politiche restrittive
e del rigore.
Per l’Italia auspica la nascita di un forte soggetto a sinistra del renzismo?
Detesto le sfere di cristallo, il futuro non è prevedibile. Bisogna
costruirlo. E di certo nel Paese esistono milioni di persone mosse da
ideali e sensibilità di sinistra alla ricerca di una nuova modalità di
aggregazione. Le varie schegge esistenti dovrebbero riformularsi,
diventare un’unica forza per poter così rappresentare una reale
alternativa. Ma c’è molta strada da percorrere, molta.
Lei
ha firmato insieme agli economisti Biagio Bossone, Marco Cattaneo,
Enrico Grazzini e Stefano Sylos Labini un appello che propone la nascita
di una moneta parallela all’euro per uscire dalla trappola della
liquidità e del debito. In che consiste?
Qui non si
tratta di uscire dall’euro ma di avere in Italia dei titoli pubblici con
la possibilità di poterli spendere e scambiare come se fossero una
moneta. Nel manifesto si parla esplicitamente della fuoriuscita
dall’euro come atto con conseguenze disastrose per la nostra economia.
Penso alla fuga dei capitali, alla possibile svalutazione della nuova
moneta e alle complicazioni burocratiche. Ci sono milioni di contratti
con soggetti esteri denominati in euro, che dovrebbero essere ritoccati e
modificati. Un’assurdità. Nell’euro ci siamo, consci che ci sono
gravissimi problemi che andrebbero analizzati e discussi mentre
Bruxelles e in primis la Germania lo vietano in maniera categorica. La
nostra proposta è un modo per ovviare a livello nazionale alle rigidità
dell’euro e far circolare contante a chi ne ha meno, compresi lavoratori
e medie e piccole imprese.
Un modo di riottenere la sovranità perduta?
Certamente. Il trasferimento di poteri da Roma a Bruxelles forse è
andato oltre anche a quel che era previsto a Maastricht. Viviamo in
un’Europa delle diseguaglianze che necessita di alcuni urgenti
interventi, al momento non sembra ci siano le condizioni: la Commissione
non vuole modificare la propria linea economica con Junker sostenuto
convintamente dalla Germania. L’euro sarà destinato a propagare guai
ancora per molto tempo e l’emissione in Italia di Certificati di Credito
Fiscale (CCF) potrebbe mitigare i disastri della moneta unica, così
pensata.
Pablo Iglesias, leader di Podemos, parla
esplicitamente di una Spagna “colonia della Germania”. Il discorso può
valere per l’Italia?
Il termine colonia è un po’
forte. Però di fatto le politiche che stanno strangolando i Paesi con
tagli alla spesa pubblica, con l’ossessione dell’avanzo primario –
quindi tartassare sempre maggiormente i cittadini e nello stesso momento
diminuire servizi – sono procedimenti suicidi e insensati. E molte di
queste imposizioni sono volute dalla Germania, dietro alla durezza del
governo tedesco ci sono le banche tedesche che si erano esposte con
l’acquisto di titoli internazionali. La Germania ha pensato di salvare
le proprie banche. Forse non siamo una colonia, di certo soggetti ad una
forma di imposizione esterna. Come noi anche gli altri Paesi
dell’Europa del Sud e la Francia.
Anche la Francia?
Di meno, è sempre la seconda economia dell’eurozona ed ha legami
storici con la Germania dai tempi di Mitterrand. Ma ha subito forte
pressioni ed è stato costretta a tagliare salari, pensioni e sanità. Lo
stesso governo tedesco ha introdotto nel proprio Paese le misure
d’austerity, a partire dall’agenda 2010 del 2003, arrivando alla
creazione del settore dei lavoratori poveri più ampio d’Europa: 15
milioni di persone che guadagnano meno di 6 euro l’ora oppure occupati
15 ore alla settimana per 450 euro al mese. 15 milioni è circa un quarto
della forza lavoro tedesca…
intervista a Luciano Gallino, di Giacomo Russo Spena