Decreto di
espulsione differita. È un
foglio che le autorità
mettono in mano ai profughi
appena sbarcati In Italia,
con cui viene ingiunto di
abbandonare il paese
dall’aeroporto di Fiumicino
entro sette giorni. Così,
persone appena uscite
dall’incubo di un viaggio
atroce e disperato, senza
denaro, biglietto aereo,
documenti, conoscenza della
lingua, parenti, amici
o strutture di sostegno,
vengono abbandonate alla
clandestinità e all’arte di
arrangiarsi, in territori
infestati da mafia
e criminalità pronte
a reclutarle.
Difficile da
credere, ma è così. Per ora
ha riguardato un numero
ristretto di profughi ai
quali è stata negata la
richiesta di asilo: in base
alla nazionalità o al paese
di provenienza, considerato
non in guerra; o anche senza
aver nemmeno accertato
questo dato. È il risvolto
locale della decisione di
Bruxelles di distinguere tra
profughi di guerra
e migranti economici:
i primi meritevoli di
protezione, i secondi da
respingere.
Una selezione da
affidare agli Hot spot di
Italia e Grecia, che però
non sono ancora in funzione
e che rischiano di
trasformare entrambi i paesi
in “depositi” incontrollati
dei profughi che gli altri
Stati non vogliono. Non ci
sono soldi per pagare i voli
di ritorno, né accordi con
i paesi in cui rimpatriare
i migranti economici, perché
è silenziosamente fallito il
vertice di La Valletta,
il cui obiettivo era lo
scambio di un miliardo
e otto di aiuti –
soprattutto per organizzare
campi in cui internare
profughi in fuga
o rimpatriati – con la
disponibilità dei paesi
africani a bloccare quei
flussi per conto
dell’Europa. Per questo si
ricorre ai decreti di
espulsione differita.
Quanto questa
misura sia non solo cinica
e criminale, ma anche miope
e stupida, tanto da mettere
in pericolo sicurezza
e incolumità dei cittadini
italiani, soltanto il
silenzio complice dei media
riesce a nasconderlo.
Con essa l’Unione
europea conta di
sbarazzarsi, senza sapere
come, di almeno la metà dei
profughi che hanno raggiunto
il suo territorio quest’anno
(più o meno un milione;
quanti i migranti richiamati
ogni anno dall’Europa prima
della crisi del 2008 e delle
politiche di austerity;
e meno di un terzo del
necessario per mantenere in
equilibrio il saldo
demografico dell’Unione, in
caduta verticale, e la sua
vacillante economia).
Ma ciò che non
è andato in porto con
i paesi africani sembra
invece riuscito con la Turchia:
in cambio di tre miliardi –
tutti ancora da stanziare,
in gran parte a valere sui
bilanci di renitenti Stati
membri — Erdogan si impegna
a trattenere in Turchia (o
in un’enclave da ricavare
manu militari in territorio
siriano) due milioni e mezzo
di profughi, in gran parte
siriani, iracheni e afghani
(ma molti anche
subsahariani, senza contare
quelli nuovi, che le guerre
continueranno a creare).
Questo accordo —
fortemente voluto dalla
Merkel per bilanciare
l’impopolarità creatale, non
tanto tra i cittadini
tedeschi, quanto in seno
all’establishment della
Grande coalizione,
dall’avventata promessa di
accogliere tutti i profughi
siriani — è stato fatto nel
momento in cui di Erdogan
venivano finalmente messi in
chiaro i crimini politici,
le misure antidemocratiche,
i finanziamenti, le armi
e l’addestramento offerti
all’Isis.
Pur di sbarazzarsi
dei profughi l’Unione
europea, proprio mentre
comincia a bombardare l’Isis
senza intervenire sui flussi
da cui provengano i soldi,
le armi e gli appoggi di cui
gode, è disposta a passare
sopra a tutte queste cose;
e persino a riaprire le
procedure di ingresso della
Turchia nell’Unione.
Con questo accordo
i governi dell’Unione si
sono però consegnati in mano
a un feroce dittatore, che
ora ha a disposizione una
bomba umana (a questo
servono i due milioni di
profughi) da scagliare
contro l’Unione appena si
dimostrerà poco
accondiscendente con le sue
richieste. I primi a farne
le spese sono i Kurdi, che
non otterranno più asilo in
Europa non potendo più
sostenere di essere
discriminati, perseguitati
e massacrati in Turchia.
Così i capi di
Stato di tutto il mondo,
e soprattutto quelli
europei, accorsi a Parigi
(con puntate a Bruxelles)
per lanciare una battaglia
che non faranno mai contro
i cambiamenti climatici, ne
hanno approfittato per
decidere invece una guerra;
che oltre a creare migliaia
di vittime e milioni di
nuovi profughi è, di tutte
le attività umane, quella
che più contribuisce alla
produzione di gas di serra;
anche se nel computo delle
emissioni climalteranti
questa minuzia non viene mai
calcolata.
Renzi se ne è per
ora chiamato fuori,
riscuotendo le lodi di
sostenitori e avversari; ma
solo per tenersi mani
e truppe libere per la
guerra in Libia che la Nato
sta preparando. Non bisogna
rifare il disastro della
guerra contro Gheddafi,
ripete; ma non si vede dove
stia la differenza con
quella in programma.
Se mettiamo in fila
questi episodi grandi
e piccoli ne esce il quadro
di una governance
dell’Unione europea
totalmente allo sbando:
quasi una banda di ubriachi
che non sa più dove andare.
Quanto basta per
ridicolizzare Stefano
Manservisi (una specie di
badante dell’Alto
Rappresentante Federica
Mogherini), che concludendo
giovedì scorso a Milano un
convegno sul XXI rapporto
dell’Ismu sulle migrazioni,
aveva sostenuto che, se le
politiche economiche hanno
contribuito a mettere in
crisi l’Unione europea, la
condivisione delle misure
sui migranti ne sta invece
ricomponendo l’unità;
aprendo la strada
all’agognata unione
politica…Peccato che quelle
misure, oltre a essere
criminali, sono inattuabili
e, in alcuni casi, come
l’accordo con la Turchia
o l’entrata in guerra,
suicide.
L’Europa allargata
ai profughi e ai loro paesi
di provenienza è un progetto
che deve essere ripensato
dalle fondamenta, costruendo
innanzitutto un fronte di
coloro che non vogliono
rinchiudersi in una fortezza
dominata dal cinismo, dal
nazionalismo e dal razzismo.
Questo modo di
governare, che spinge
l’Unione europea verso
l’insignificanza e la
dissoluzione e spiana la
strada alle forze
antieuropeiste e razziste
delle destre, evidenzia
l’incapacità di misurarsi
con le sfide che il pianeta
e la popolazione mondiale si
trovano di fronte.
Governano come se
tutto dovesse continuare
a scorrere come prima. La
crisi climatica alle porte,
e in molte regioni già in
pieno corso, è solo una,
e non certo la maggiore,
delle questioni sul tappeto,
su cui nessun uomo o donna
di governo è disposto
a giocarsi il proprio ruolo,
e meno che mai a mettere in
relazione i cambiamenti
climatici con i profughi che
sta cercando di tenere
lontani. La guerra
è un’altra quisquilia,
affrontata con leggerezza
e senza il minimo progetto
per il dopo, per far salire
di qualche punto la propria
popolarità ormai
irrimediabilmente a terra
(come aveva fatto Blair
a suo tempo; e sappiamo come
è poi andata). Tutto viene
deciso nella convinzione
che, vinta la guerra — che
in Afghanistan e in Iraq
dura da anni e non si sa
quando e come possa finire —
governi finanza e imprese
potranno continuare
o riprendere gli affari di
sempre.
Lo stesso vale per
l’economia: la crisi sarebbe
dietro le spalle perché il
Pil di alcuni paesi registra
un mezzo punto in più, senza
considerare la scia di
disoccupati, generazioni
perdute, devastazioni
ambientali, disperazione,
miseria e rancori che
l’austerity ha creato e a
cui la “ripresa” non apporta
alcun rimedio.
Peggio ancora per
lo spirito pubblico: il
pensiero unico, che è una
rappresentazione vuota
e falsa della realtà, ha
lasciato dietro di sé,
a destra, al centro e a
sinistra, il deserto: una
totale incapacità di
raccogliere i fili di un
progetto di salvaguardia del
pianeta, delle vite e dei
rapporti sociali tra le
persone.
Siamo ormai in
trincea, avendo allegramente
dilapidato tutto quello di
buono che avremmo potuto
salvare di un’epoca ormai
trascorsa. Dobbiamo
prepararci a un lungo
periodo di ricostruzione di
una prospettiva più umana.
Che il papa e la sua
enciclica siano diventati un
punto di riferimento non
è un buon segno: perché è il
risultato della miseria
altrui.