Indignatevi: il grido lanciato nel 2010 dal partigiano ultranovantenne Stéphane Hessel, attraverso un pamphlet , Indignez-vous ! che ha avuto uno straordinario successo (più di 700.000 copie vendute in Francia a gennaio 2011), è risuonato nella coscienza morale dei francesi e dalla Francia si è propagato rapidamente negli altri paesi suscitando forti passioni civili ed ispirando mobilitazioni di cittadini come il movimento giovanile degli indignados in Spagna e quello di Occupy Wall Street in USA.
Hessel, uomo della resistenza, diplomatico, partecipe alla redazione di quello straordinario documento che è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, giunto in prossimità dell’esito finale della sua avventura umana, ha voluto lanciare un grido d’allarme invitando le giovani generazioni a recuperare la capacità di indignarsi, convinto che movente della resistenza è l’indignazione.
Di fronte all’opacità del tempo presente, alla progressiva erosione dei beni pubblici repubblicani e dei diritti civili e sociali, frutto di conquiste faticosamente raggiunte nel novecento; di fronte al ritorno di gravi situazioni di ingiustizia ed alla crescente indifferenza per i guasti provocati dal potere del denaro, Hessel ci consegna l’ultimo lascito della resistenza: non perdere la capacità di indignarsi. Perché l’indignazione è il motore principale del cambiamento, è l’unica forza che può contrastare le dinamiche di disumanizzazione che affliggono il tempo presente.
L’indignazione è una forza morale potentissima, che può rovesciare la Storia, come ci insegna l’esperienza della Resistenza. Tuttavia l’indignazione, di per sé, non produce cambiamento e non stimola l’azione se non è “armata” da una cultura che ci consenta di prendere coscienza delle cause dei nostri mali, dei meccanismi che producono l’ingiustizia ed erodono le basi sociali della nostra vita in comunità politica organizzata in Stato.
Armare l’indignazione di una cultura politica basilare per consentirle di trasformarsi in azione è l’obiettivo perseguito dai curatori del volume “Grammatica dell’indignazione”, a cura di Livio Pepino e Marco Revelli, collana Le staffette, Edizioni Gruppo Abele, €.16.
“C’è, nel Paese, - scrivono i curatori nell’introduzione - un’anomalia da interpretare e sciogliere. L’indignazione è maggioranza, schiacciante maggioranza. Basta vedere l’andamento del voto nelle ultime tornate elettorali o sfogliare i sondaggi di tutti gli istituti di ricerca. Ancor più, è sufficiente passeggiare in un mercato e viaggiare su tram o treni (..) Eppure quell’indignazione, almeno ad oggi, non conta nulla a livello istituzionale. Oppure veicola movimenti populisti e pieni di contraddizioni: di contenuti soprattutto, ché le incongruenze tattiche sono, a ben guardare, poca cosa. Così cresce il rischio che l’indignazione si chiuda in se stessa e produca sfiducia e rassegnazione anziché resistenza e progettualità. Sciogliere l’anomalia, superarla, è la sfida (ineludibile) dei prossimi mesi, non anni, ché la misura è colma. Per farlo serve mettere ordine nelle ragioni dell’indignazione e predisporre, settore per settore, una cassetta degli attrezzi utile a guidare il cambiamento (o il rilancio di ciò che va mantenuto e che molti vorrebbero cancellare, dalla Costituzione al welfare). Serve una grammatica, sospesa tra analisi e proposta.”
Nella cassetta degli attrezzi utili per guidare il cambiamento i curatori del libro hanno messo un po’ di tutto, affrontando le principali questioni che sono sul tappeto con 23 contributi di giuristi ed esperti nelle varie discipline, ovvero protagonisti dei processi di cambiamento sociale.
Questi contributi spaziano dal tema dell’ambiente e delle grandi opere (Luca Mercalli), a quello della TAV (Luca Giunti), al tema dei beni comuni (Ugo Mattei); dal tema del conflitto d’interessi (Alfonso di Giovine e Fabio Longo), al tema delle corruzione (Donatella della Porta), al tema della mafia e antimafia (Nando Dalla Chiesa); dal tema del lavoro sociale (Andrea Morniroli e Giacomo Smarrazzo), al tema della povertà (Giuseppe De Marzo), a quello del razzismo (Grazia Naletto); dal tema della crisi e dello sviluppo (Guido Viale), al tema dell'eurofinanza (Luciano Gallino), a quello della disuguaglianza (Mario Pianta) e delle menzogne dell'Europa (Barbara Spinelli); dal tema dei costi per il mancato riconoscimento dei diritti (Stefano Rodotà), al tema dell'ascesa delle spese militari (Leopoldo Nascia), a quello del declino della scuola (Alba Sasso); dal tema della cultura disastrata (Salvatore Settis), a quello della giustizia (Livio Pepino), al tema della riforma costituzionale (Gaetano Azzariti), fino alle riflessioni sulla politica in senso stretto di Marco Revelli, che si chiede: a che punto è la notte?
Di particolare interesse – fra i tanti - è il saggio di Salvatore Settis che ci ricorda che “la cultura fa parte dello stesso identico orizzonte di valori costituzionali che include il diritto al lavoro, la tutela della salute, la libertà personale, la democrazia (..) Lo statuto della cultura non è un orpello esornativo della Costituzione, ma fa parte della sua più intima essenza. (..) Se concepiamo la cultura come il cuore ed il lievito dei diritti costituzionali della persona e insieme il legame della comunità, capiremo che essa è funzionale alla libertà, alla democrazia, all'eguaglianza, alla dignità della persona. Che difendere il diritto alla cultura è difendere l'intero orizzonte dei nostri diritti. (..) Il paesaggio, l'ambiente, il patrimonio culturale sono come il sole e le stelle: illuiminano e condizionano la nostra vita, corpo e anima. Perciò hanno un ruolo così alto nella Costituzione, dove incardinano l'idea che ne è il cuore: il bene comune e l'utilità sociale, sovraordinati al profitto privato.”
Stefano Rodota, dal canto suo, ci avverte che sono tornati i poveri “E con essi è tornato, drammatico ed ineludibile, il problema di come assicurare la tutela dei loro diritti primari – il lavoro, la salute, la casa e l'istruzione – per evitare che, attraverso la povertà, vengano negate la dignità e l'umanità stessa delle persone”. Questo non vuol dire che il progetto di società delineato dalla Costituzione sia tramontato perchè falsificato dalla realtà. Al contrario, è proprio nel tempo attuale che si scopre il valore dei beni pubblici promessi dalla Costituzione. Osserva Rodotà: “la forza della cose ha restiuito legittimità piena all'art. 1 della Costituzione, al suo parlare di una “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, norma di cui in questi anni si è ripetutamente invocata la cancellazione e che, invece, assume oggi un senso riassuntivo del collegamento fra il rispetto integrale della persona e la costruzione dello spazio pubblico.”
Come avvertono i curatori del volume, il tempo si sta restringendo, occorre che l'indignazione si trasformi in proposta ed agire politico. Osserva Marco Revelli che si aprono tre scenari. Il primo prevede che, di fronte ad un ulteriore aggravarsi della crisi, l'indignazione potrebbe incanalarsi in una retorica distruttiva: è la prospettiva della fine della Repubblica di Weimar. Il secondo scenario prevede il consolidarsi dell'attuale deriva oligarchica con l'avvento di una “democazia a bassa intensità”, attraverso l'esclusione di ogni forma di partecipazione popolare alla vita della Res pubblica. Il terzo scenario è quello di coagulare l'indignazione costruendo un fronte politico che costruisca un'altra politica, non minoritaria, all'altezza delle sfide che ci attendono. Ma per costruire questo fronte, che rappresenta la nostra unica speranza di salvezza, la chiave di volta è quella di armare l'indignazione con una cultura politica che trovi le sue radici nel progetto di democrazia disegnato dai padri costituenti.
A questa causa il volume curato da Pepino e Revelli porta un contributo autorevole.