Papà Boschi, Pier Luigi, che manda in vacca Banca Etruria. Papà Renzi, Tiziano, che fa bancarotta e, quando il figlio diventa premier, si ricicla uomo-sandwich di outlet in giro per l'Italia per la società dell'ex presidente della Banca del Buco. Papà Lotti, Marco, funzionario della Bcc di Pontassieve, che nel 2009 firma un mutuo da 697 mila euro a papà Renzi, e di lì a poco suo figlio Luca diventa capo della segreteria del neosindaco Matteo Renzi, il quale ingaggia nella sua segreteria anche sua moglie Cristina Mordini. E papà Guidi, l'imprenditore Guidalberto che - come ha scoperto il nostro Marco Lillo - telefona all'avvocato Aiello, fedelissimo di Maroni, per parlare della sua nomina a commissario di Geo Ambiente, subito ratificata dalla figlia ministra Federica.
Valeva la pena di rottamare un esercito di politici settantenni
carichi di mogli, amanti, figli e nipoti da sistemare, per consegnarci a
una combriccola di quarantenni provinciali e immaturi che ancora
pendono dalle labbra e soprattutto dagli affari dei genitori? Hai
voglia a ripetere che le colpe dei padri non ricadono sui figli: ma
questi figli sarebbero diventati ciò che sono senza cotanti padri? È
l'evoluzione a passo di gambero del familismo amorale italiota, passato
dai figli di papà ai papà di figli, dal nepotismo al papismo. Anche i
padri per i figli, come i figli per i padri, so' piezz'e core.
Nella
Prima Repubblica era normale per i politici raccomandare i rampolli, o
comunque per i rampolli far carriera sul nome dei padri. La cosa
faceva notizia solo quando i pargoli finivano per rovinare gli illustri
congiunti: Attilio Piccioni fu distrutto dalle accuse al figlio
musicista Piero (poi assolto dal delitto Montesi) e Giovanni Leone
dovette sloggiare anzitempo dal Quirinale per le maldicenze sull'allegra
vita dei suoi cari. Il malvezzo proseguì nella Seconda Repubblica dove
- a parte B. che sistemò la prole in azienda per dedicarsi alla
promozione artistico-culturale delle sue squinzie fra Rai e Parlamento -
fu tutto un susseguirsi di politici finiti nei guai per l'esuberanza
dei marmocchi: Renzo Bossi detto Trota, Giulio Napolitano, Geronimo La
Russa e poi gli eredi della Moratti, di Mastella, di Di Pietro, della
Cancellieri, di Scajola, della Fornero, di Lupi, di De Luca e ora anche
di Mattarella (il figlio Bernardo è capufficio legislativo e badante
della ministra Madia). Senza dimenticare il cognato di Fini, la moglie
di Matacena e il fratello di De Magistris.
La Terza Repubblica (si fa
per dire) renziana è cominciata almeno con questa novità (si fa sempre
per dire): i babboccioni che mandano avanti i bamboccioni perché gli
vien da ridere. Del resto i quarantenni degli anni 2000 hanno cuccioli
troppo imberbi (quando li hanno) per accampare già pretese e genitori
troppo giovani per rassegnarsi alla pace dei sensi, all'andropausa e
alle panchine dei giardinetti. È il modello Moggi che si afferma in
politica: fu Lucianone a metter su, intestandola al piccolo Alessandro,
la Gea World per spadroneggiare sul calcio scansando formalmente -
siamo in Italia - i conflitti d'interessi. Dentro, c'erano le figlie di
Geronzi e Tanzi e i figli di Cragnotti, Calleri, De Mita e Lippi. Chi
comandava, è inutile spiegarlo. Ora il metodo Gea World è salito al
governo e fa quasi tenerezza Maria Etruria Boschi quando balbetta alla
Camera: "Mio padre è onesto, ma se ha sbagliato pagherà". Che ne sa lei
di quel che ha fatto il babbino nel disastro etrusco? A stento
s'accorge di quel che ha fatto lei, entrando e uscendo a casaccio dai
Consigli dei ministri che salvavano la banca (e pure il papà), come
un'orfanella sola al mondo.
Già nel 1400 il cardinale Enea Silvio
Piccolomini, divenuto papa Pio II, motteggiava: "Quand'ero solo
Enea/nessun mi conoscea/ora che sono Pio/tutti mi chiaman zio". E
quando Mussolini fece ministro suo genero Galeazzo Ciano, figlio del
conte Costanzo, quest'ultimo fu canzonato in rima da Mino Maccari: "Sua
Eccellenza, facciam voti che sian meglio i nipoti". Leo Longanesi
propose d'iscrivere nel tricolore il motto nazionale "Tengo famiglia".
E
nel 1964 Luigi Barzini scrisse ne Gli italiani. Vizi e virtù di un
popolo che da noi "il primo centro di potere è la famiglia, una
cittadella in territorio ostile: entro le sue mura e tra i suoi
componenti, l'individuo trova consolazione, soccorso, consiglio,
nutrimento, prestiti, mezzi, armi, alleati e complici che lo aiutano
nelle sue imprese... L'Italia non è una nazione, ma una federazione di
famiglie". Naturalmente "la famiglia impegna in primo luogo la fedeltà
di tutti. Deve essere difesa, arricchita, resa potente, rispettata e
temuta", con "tutti i mezzi indispensabili, legittimi se possibile, o
illegittimi". E "la maggior parte degli italiani ubbidisce ancora a un
duplice codice morale. Vi sono norme valide nell'ambito della cerchia
familiare diverse da quelle che regolano la vita fuori di casa... Ogni
autorità ufficiale e legale viene considerata ostile finché non abbia
dimostrato di essere amichevole o innocua; se non la si può ignorare,
la si deve aggirare, neutralizzare, o, se necessario, ingannare".
Parole che paiono scritte oggi sul viluppo di affarucci e
furbacchionerie provinciali, da contado toscano, che stanno dannando il
governo Renzi. Quando la vedova Moro rivelò che il marito aveva un
conto in Svizzera, in barba alla legge, "per timore del golpe",
Montanelli scrisse che i politici, quando morivano, avrebbero dovuto
portarsi nella tomba mogli e figli. Troppo complicato: messi come
siamo, non resta che affidarci a figli unici, celibi o vedovi, sterili e
soprattutto orfani.