Si può cambiare la Costituzione, e come? Per tutto il 1947 la Costituente discusse appassionatamente questo punto cruciale. Tutti erano d’accordo che la Carta è «nelle sue grandi mura definitiva, e deve aver vita di secoli » (Meuccio Ruini), e che va intesa come “rigida”, un insieme organico di cui non si può cambiare un articolo senza incidere sull’insieme. Secondo il democristiano Lodovico Benvenuti (più tardi Segretario generale del Consiglio d’Europa), i principi della Carta «non possono esser rimessi all’arbitrio di qualsiasi maggioranza parlamentare», anche per evitare che affrettate modifiche richiedano «la complicità del presidente della Repubblica». Costantino Mortati (Dc) osservò che «la Costituente fu eletta ad hoc e nel periodo della sua formazione i partiti hanno presentato i loro programmi sulla nuova Costituzione», mentre «una Camera avvenire, eletta per un compito normale di legislazione», non sarà mai altrettanto legittimata a cambiarne il testo.
Si ritenne necessario «stabilire forti garanzie per evitare che la
Costituzione sia modificata con leggerezza » (Lussu), ricorrendo a «una
procedura straordinaria particolarmente complicata» per arginare colpi
di maggioranza (così il liberale Martino, poi presidente del Parlamento
europeo). Il 15 gennaio 1947 fu approvata la proposta del socialista
Paolo Rossi (poi presidente della Corte costituzionale), secondo cui le
Camere, dopo aver varato una modifica costituzionale, erano
automaticamente sciolte, e la modifica entrava in vigore solo dopo
essere stata riapprovata tal quale dalle nuove Camere. Dopo acceso
dibattito si giunse a quello che è oggi l’art. 138, con le sue tre
garanzie contro i colpi di mano. Prima di tutto, la doppia lettura da
parte delle Camere, a tre mesi l’una dall’altra, onde «diluire nel tempo
il procedimento di revisione al fine di accertarne la rispondenza ad
esigenze veramente sentite e stabili» (Mortati), anche perché «tre mesi
paiono sufficienti perché l’opinione pubblica si metta in moto»; in
secondo luogo, la maggioranza di due terzi, e in difetto di questa «il
ricorso alla fonte stessa della sovranità, il referendum popolare»,
fermo restando che «la legge, finché è legge, sia religiosamente
osservata» (Rossi).
Questa calibratissima ingegneria
istituzionale viene spazzata via dal disegno di legge 813, firmato da
Enrico Letta e dai ministri Quagliariello e Franceschini. Secondo i
proponenti, le Camere che oggi abbiamo, composte di membri nominati con
la pessima legge elettorale che tutti deplorano e nessuno modifica,
esprimeranno (con accordi fra i capigruppo e i presidenti delle Camere)
una mini-Costituente di 40 membri. Tal Comitato esamina a tappe forzate
(«non sono ammesse questioni pregiudiziali, sospensive e di non
passaggio agli articoli») le proposte di riforma della Costituzione
«afferenti alla forma di Stato, alla forma di Governo e al
bicameralismo», le elabora in quattro mesi e le trasmette alle Camere,
che devono concluderne l’esame entro 18 mesi. Vengono mantenuti
referendum e doppia lettura, ma l’intervallo è ridotto da tre mesi a
uno. Il precedente è la Bicamerale del 1997, la cui unica funzione fu
traghettare Berlusconi attraverso una legislatura di centrosinistra
senza far nulla sul conflitto d’interesse.
Secondo Alessandro
Pace (audizione al Senato, 21 giugno), un vizio di fondo inficia questo
ddl. «Il Parlamento può modificare l’art. 138, ma finché quella
procedura è in vigore deve rispettarla: l’art. 138 è bensì modificabile,
ma non derogabile», il ddl 813 costituisce perciò «una modifica
surrettizia con effetti permanenti». Ma le anomalie non si fermano qui:
perché il governo ha nominato una commissione di “saggi” «incaricata di
fornire i suoi input nel merito delle modifiche da apportare alla
Costituzione»? Come mai gli emendamenti alle proposte di revisione
costituzionale possono essere presentati dal governo e dai capigruppo,
ma non da un singolo deputato come nella Costituente? Che vuol dire
l’art. 4, secondo cui «qualora entro il termine non si pervenga
all’approvazione di un progetto di legge costituzionale, il Comitato
trasmette comunque un progetto di legge»? Quale progetto di legge, se
nessuno è stato approvato? Perché infine (lo hanno incisivamente notato
Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro) al Comitato è rimesso anche l’esame
delle leggi elettorali, come se il Porcellum fosse diventato un pezzo di
Costituzione?
Perché tanta fretta, perché tante anomalie?
Perché, ci informa la relazione del ddl 813, la Costituzione dev’essere
adeguata al «mutato scenario politico, sociale ed economico ». Chi
difende la Costituzione com’è pecca di «conservatorismo costituzionale
», spiegano Letta-Quagliariello- Franceschini, poiché la forma dello
Stato e del governo furono immaginate dalla Costituente «nella temperie
della guerra fredda». Questo affondo storiografico è un’impronta
digitale, rivela da dove vengono le certezze di chi ci governa: dalla
party line, diffusa nell’attardato thatcherismo di ambienti finanziari e
imprenditoriali, secondo cui la crisi economica nasce dalle troppe
concessioni alle classi meno abbienti. Come ha ricordato Barbara
Spinelli in queste pagine (26 giugno), chi ha divulgato questa linea in
Italia è Berlusconi, secondo cui la nostra Costituzione «fu scritta
sotto l’influsso della fine di una dittatura da forze ideologizzate», è
una “Costituzione sovietica”.
Ancor più chiaro è il rapporto
sull’area euro della società finanziaria J.P. Morgan (28 maggio),
secondo cui «all’inizio della crisi, si pensava che i problemi nazionali
fossero di natura economica, ma si è poi capito che ci sono anche
problemi di natura politica. Le Costituzioni e i sistemi politici dei
Paesi della periferia meridionale, sorti in seguito alla caduta del
fascismo, hanno caratteristiche non adatte al processo di integrazione
economica, (...) e sono ancora determinati dalla reazione alla caduta
delle dittature. Queste Costituzioni mostrano una forte influenza
socialista, riflesso della forza politica che le sinistre conquistarono
dopo la sconfitta del fascismo. Perciò questi sistemi politici
periferici hanno, tipicamente, caratteristiche come: governi deboli
rispetto ai parlamenti, stati centrali deboli rispetto alle regioni,
tutela costituzionale del diritto al lavoro, consenso basato sul
clientelismo politico, diritto di protestare contro ogni cambiamento. La
crisi è la conseguenza di queste caratteristiche. (...) Ma qualcosa sta
cambiando: test essenziale sarà l’Italia, dove il nuovo governo può
chiaramente impegnarsi in importanti riforme politiche ».
La
finanza internazionale comanda, il governo italiano esegue, come usa
alla periferia del mondo. Leggendo il ddl 813 in filigrana sul documento
di JP Morgan (un ordine di servizio che viene da lontano), dobbiamo
aspettarci un governo più forte e centralizzato, un parlamento più
debole, la compressione dei diritti dei lavoratori e di ogni protesta,
l’archiviazione dell’antifascismo. Se ciò è contrario alla Costituzione
basta cambiarla, e in fretta: perciò, capovolgendo il responso delle
urne e le priorità dichiarate, la riforma del Porcellum è stata messa in
soffitta, la riforma della Costituzione in corsia preferenziale.
«Ci
sarà pure un giudice a Berlino», diceva il mugnaio di Potsdam che
arrivò fino al Re di Prussia per avere giustizia. Ci sarà pure a Roma un
custode della Costituzione, dicono oggi i cittadini. A chi chiederemo
se davvero la crisi economica è un frutto dell’antifascismo? Se per
risolverla occorre stravolgere la Costituzione modificando «la forma di
Stato e di governo» generata dalla Resistenza? Se dobbiamo rassegnarci a
quel che Barbara Spinelli ha chiamato il «giudizio universale» di JP
Morgan, a «demolire la Costituzione in nome della cosmica giustizia dei
mercati»?