La Costituzione ed io siamo cresciuti insieme. Siamo fratelli, se
non proprio coetanei. Lei è un po’ più giovane di me, perché
quando è nata io avevo 16 anni; non molti, ma abbastanza per aver
conosciuto, pur da bambino, il fascismo, il re, il duce, la guerra,
le bombe in via Nomentana, i rastrellamenti tedeschi a Porta Pia, la
fame e la liberazione. Tutto questo mi aveva fatto diventare adulto
prima del tempo, sicché quando la Costituzione nacque stavo già
all’università, studiavo diritto, e potevo capire cos’era. Però
non sapevo nulla di Dossetti, di Fanfani, di Moro, di Lelio Basso, di
Nenni, di Togliatti che sarebbero poi stati così importanti per la
mia vita. In ogni caso avevo vissuto abbastanza per rendermi conto, e
non per sentito dire, quale cambiamento essa rappresentasse, non solo
rispetto alla mia vita precedente, ma rispetto a tutta la storia da
cui venivamo. Per chi aveva vissuto, anche di sfuggita, il fascismo,
la Costituzione si presentava come una novità, come la notizia che
un altro tipo di regime, di Stato, un’altra politica erano
possibili. Solo più tardi, tuttavia, mi resi conto che la
Costituzione non rappresentava solo una novità, ma un’alternativa.
E potei capire il significato più profondo dell’affermazione di
Moro, che la Costituzione doveva essere non afascista, ma
antifascista; essa non era infatti solo una regola del gioco, per
qualunque gioco, ma doveva essere la scelta di una strada invece di
un’altra, che non era solo la scelta tra due ordinamenti politici,
ma tra due visioni dell’uomo e del mondo.
Aveva detto Moro alla
Costituente, rispondendo al monarchico on. Lucifero che voleva una
Costituzione afascista: “Non possiamo fare una Costituzione
afascista, cioè non possiamo prescindere da quello che è stato nel
nostro Paese un movimento storico d’importanza grandissima il quale
nella sua negatività ha travolto per anni la coscienza e le
istituzioni. Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché
questa Costituzione oggi emerge da quella Resistenza, da quella
lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati insieme sul
fronte della resistenza e della guerra rivoluzionaria ed ora ci
troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori
supremi della dignità umana e della vita sociale. .. Non avremmo
ancora detto nulla se ci limitassimo ad affermare che l’Italia è
una repubblica, o una repubblica democratica”.
Aveva ragione
Moro: bisognava dire che venivamo da una storia, ed ora si trattava
di scegliere un’alternativa, un’altra storia possibile.
Noi
venivamo da una lunga storia, ben precedente al fascismo, in cui il
lavoro era stato considerato spregevole, più animale che umano,
tanto che all’inizio era addossato ai servi, e i signori ne erano
esenti; poi, anche dopo la fine della società signorile, il lavoro
era giunto fino a noi come lavoro schiavo, come lavoro merce, come
lavoro alienato e sfruttato; ed ecco che la Costituzione lo metteva a
fondamento della Repubblica democratica.
Noi venivamo da una
storia in cui l’idea della diseguaglianza tra gli uomini era di
dominio comune, e perfino Hegel e Croce avevano filosofato di
differenze ontologiche tra mondi umani diversi, tra popoli della
natura e popoli della storia, popoli senza Spirito e popoli invece
capaci di storia; venivamo da un mondo in cui le leggi, non solo
quelle razziali, avevano assunto la diseguaglianza come un
presupposto e tuttora discriminavano classi, caste, poveri e donne,
ed ecco che la Costituzione metteva come prima pietra l’eguaglianza
senza distinzione alcuna, e faceva delle discriminazioni, anche di
fatto, il male da rimuovere.
Noi venivamo da una storia in cui la
guerra era considerata, fin dall’inizio, il padre e il reggente di
tutte le cose, poi era stata presa come prerogativa assoluta della
sovranità, come variabile sempre pronta all’uso della politica, e
infine come criterio stesso del politico, inteso come contrasto tra
amico e nemico, ed ecco che la Costituzione consegnava alla guerra il
libello di ripudio, e non considerava più nessuno come nemico.
Noi
venivamo da una storia in cui gli Stati sovrani rivendicavano di
essere legge a se stessi e non riconoscevano che ci fosse alcuna cosa
o alcun potere al disopra di sé, ed ecco che la Costituzione metteva
la sovranità nazionale dentro la comunità degli Stati, riconosceva
il diritto internazionale come potere esterno e accettava lo scambio
tra la sovranità dello Stato e un ordinamento di pace e di giustizia
tra le Nazioni.
Da tutto questo discendeva un progetto di
società; certo era solo un progetto, e solo dopo dovevamo capire
quanto quel progetto fosse difficile a realizzarsi. Ma quando
venivano i momenti più difficili, le contraddizioni e le smentite
più crudeli a quel disegno e a quelle speranze, il solo fatto che
quel progetto, pur contraddetto, ci fosse, fosse scritto sulla carta,
non fosse un vago ideale ma diritto positivo, patto e non contratto,
opera e non visione, bastava ad attivare la resistenza, a ravvivare
le forze, a salvare la Repubblica.
Lo si è visto con i colpi di
coda del fascismo, i falliti golpe, il terrorismo, la notte della
Repubblica. Ma anche in momenti meno drammatici, quando si trattava
di uscire dalla stanchezza, di aprire una nuova fase, di riprendere
un cammino, la linfa, il movente, la forza stava nel rievocare quel
progetto, nel rifarsi a quel momento fondativo della Repubblica, per
ricordarsi com’era, per chiedersi dove si era sbagliato, per
riprendere a tesserne l’ordito.
Voglio portare un solo esempio.
Nel 1976, quando la Democrazia Cristiana è stremata, il quadro
politico sta mutando e si avverte che c’è da cambiare strada, il
segretario della DC Zaccagnini scrive a un costituente, Giorgio La
Pira, che già era stato quel sindaco di Firenze che sappiamo,
chiedendogli di tornare in Parlamento. Si trattava non solo di
riprendere in mano quel disegno delle origini, ma di tornare allo
spirito e alla metodologia che lo avevano fatto concepire, cioè,
dice Zaccagnini, la metodologia del “dialogo tra tutte le
componenti che” avevano concorso “ad abbattere il fascismo” ed
il suo istinto di guerra.
E La Pira accetta e gli risponde: “Caro
Zaccagnini, tu mi inviti a riprendere il progetto della casa comune
che noi costituenti concepimmo con una architettura armonica e, in
certo senso, unica ed originale, progetto che è rimasto incompiuto”.
E ne ricorda i parametri essenziali: i diritti della persona ma,
essenziali come questi, i diritti sociali, senza i quali la libertà
stessa della persona non sarebbe garantita; e ciò comportava un
mutamento: “L’accettazione strutturale dell’ordinamento
giuridico-economico non solo in totale opposizione a quello fascista,
ma anche come superamento della concezione liberale borghese perché
in uno Stato di capitalismo avanzato affidarsi alle sole leggi della
libera concorrenza e del mercato avrebbe significato la creazione di
monopoli e discriminato l’uguaglianza e la libertà. Libertà per
tutti, quindi. Sì, ma anche lavoro per tutti, ospedali, case,
scuole, ecc. “. Però La Pira constatava che le ‘attese della
povera gente’ - (e qui si autocita) – non erano state adempiute;
dunque c’era più che mai “un obbligo politico e morale” a far
sì che quei valori non fossero disattesi. Per quanto riguardava la
comunità internazionale bisognava passare dalla contrapposizione dei
blocchi al superamento dell’equilibrio del terrore, per giungere
“al disarmo generale e completo, alla liberazione e al progresso
fondato sulla giustizia”.
E quanto al modo di giungervi, diceva
La Pira, “nei due ordini, quello nazionale e quello internazionale,
la metodologia è quella della ‘costruzione di ponti’, è quella
del dialogo, che tu hai tanto giustamente indicato”.
La Pira
non poté poi riprendere alla Camera, dove fu eletto, l’attuazione
di quel progetto, perché il 5 novembre 1977 morì. Ma quella VII
legislatura fu quella in cui veramente la Costituzione fu messa alla
prova. Era stato per riprendere il dialogo tra le forze popolari che
avevano fatto la Costituzione, comunisti, socialisti, cattolici, che
Zaccagnini aveva chiesto a La Pira di tornare in Parlamento; e fu per
far cadere i muri che erano stati rialzati tra di loro, che in quella
stessa legislatura noi rompemmo l’unità politica dei cattolici
nella Democrazia Cristiana e restaurammo quel dialogo dall’interno
come indipendenti nelle liste del PCI; e fu per soffocare nel sangue
quel nuovo processo costituente da cui il vecchio potere sarebbe
uscito politicamente sconfitto, che vennero le Brigate Rosse, con il
sequestro e l’uccisione di Moro.
Eppure, proprio nel momento
del massimo attacco contro di essa, la Costituzione vinse, perché
quelle che furono chiamate Brigate Rosse furono sconfitte senza leggi
eccezionali, senza stati d’assedio e senza che venissero rimesse in
gioco le libertà dei cittadini.
Però non c’è dubbio che in
quella legislatura, dal 1976 al 1979, il progetto disegnato dalla
Carta Costituzionale fu intercettato, sfigurato e impedito dallo
scatenarsi di una reazione inaudita, interna e internazionale, e da
lì cominciò la decadenza italiana, che non è ancora giunta alla
fine. Poi ci ha pensato la globalizzazione economica, a cominciare da
quella europea di Maastricht, a mettere fuori gioco, se non
addirittura fuori legge, i capisaldi egualitari e solidaristici della
Costituzione italiana e a espropriare la Repubblica del compito che
l’art. 3 le aveva assegnato di rimuovere gli ostacoli che
impediscono la libertà e l’eguaglianza dei cittadini e la loro
partecipazione alla determinazione della politica nazionale.
Sicché
oggi celebrare i 70 anni della Costituzione, fuori di una vuota
retorica, non può che voler dire riprendere quel progetto, e
difendere l’edificio costituzionale contro i poteri antagonistici
che ancora non si sono rassegnati alle sconfitte subite nel tentativo
di abbatterlo, e certamente torneranno alla carica. Il 4 dicembre non
abbiamo vinto per sempre.
Tuttavia questo non basta più, perché
oggi siamo di fronte a una nuova sfida altrettanto epocale di quella
che affrontammo nel 900. A metà del Novecento ci si trovò di fronte
al fallimento della politica e delle sue dottrine che avevano portato
il mondo alla catastrofe.
Oggi siamo di fronte al fallimento
dell’economia e delle sue dottrine che non sono più in grado di
reggere la vita del mondo.
L’economia fallisce perché quando
aveva sacralizzato la legge della domanda e dell’offerta, aveva
proclamato la sovranità e l’efficienza della mano invisibile del
Mercato e aveva messo la concorrenza, la competizione e il profitto a
governare i processi, o quando per altro verso aveva basato tutto sul
valore-lavoro, aveva dinnanzi a sé un Mercato fatto da persone
umane, merci prodotte da lavoro umano, transazioni fatte da operatori
umani e padroni fatti di capitalisti umani. Ma oggi enormi volumi di
domanda e offerta sono scambiati non tra uomini, ma tra circuiti
informatici automatizzati, spesso alla velocità di un milionesimo di
secondo, il mercato è gestito dalle macchine, le merci sono prodotte
da macchine che dialogano con altre macchine, e i capitalisti sono
essi stessi figure alienate di sistemi impersonali altrimenti che
umani. Per questa ragione come ha detto qualche giorno fa il prof.
Dogliani a un’assemblea dell’Associazione per il rinnovamento
della sinistra, non c’è più solo il problema caro alla sinistra
del lavoro sfruttato, precario, alienato, ma c’è il problema che
il lavoro è soppresso; in quanto costo di produzione da ridurre o da
abbattere, il lavoro umano è soppresso. Ciò è avvenuto non
gradualmente, in tempi fisiologici, come all’inizio della
rivoluzione industriale, quando il luddismo non era giustificato, ma
è avvenuto con enorme rapidità, anche perché sono stati fatti
massicci investimenti nell’innovazione tecnologica proprio allo
scopo di distruggere lavoro umano; oppure per delocalizzarlo in zone
meno protette, dove non costa nulla, o addirittura c’è di nuovo il
lavoro schiavo; come ha spiegato l’altro giorno Luigi Ferrajoli a
Napoli, ci sono 45,8 milioni di schiavi oggi nel mondo, di cui 18,35
solo in India; ma ciò devasta il lavoro salariato dappertutto.
La
perdita del lavoro fa sì che oggi negli Stati Uniti l’unico lavoro
che aumenta è quello della cura alle persone, ed è lì che si
realizza la tanto lodata mobilità e il magnificato abbandono del
mito del posto fisso; solo che perché di questo lavoro ce ne sia
abbastanza per tutti, bisognerebbe augurarsi che tutto il mondo si
trasformi in un immenso cronicario.
E il fallimento dell’economia
sta in ciò: che produce sempre più merci e altre utilità, a basso
costo e con alti profitti, ma scarta i lavoratori, li rende esuberi e
superflui, e così li esclude dalla vita; ma in tal modo scarta anche
i consumatori, e così non si può più né comprare né vendere, ciò
che non a caso nell’Apocalisse di Giovanni è considerato un segno
della fine; e perciò l’economia che uccide, come dice papa
Francesco, uccide anche se stessa; e per questo l’altro ieri, nel
messaggio di Natale, egli ha messo insieme i venti di guerra e “il
modello di sviluppo ormai superato che continua a produrre degrado
umano, sociale e ambientale”. Superato, cioè finito.
Questo
vuol dire però oggi, settant’anni dopo, tenendo ben ferma la
Costituzione che abbiamo, aprire una nuova stagione costituente, ma
ormai per un costituzionalismo non solo italiano, ma globale, tanto
quanto lo è la globalizzazione. Una stagione costituente che,
mettendo in sicurezza le conquiste già raggiunte, cambi il disegno
dell’ordine economico del mondo, così come nel Novecento cambiammo
il disegno del suo ordine politico.
Io credo che questa sfida,
questo compito, siano alla nostra portata, siano alla portata delle
giovani generazioni.
Raniero La Valle
Intervento di Raniero La Valle al Convegno organizzato dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale il 27 dicembre a Roma per i 70 anni della Costituzione