Riforme. Proporzionale,
parlamento e governo, la triplice sfida aperta il 4 dicembre. Le sorti
della democrazia partecipativa sono legate a quelle della democrazia
rappresentativa. Per accorciare le distanze tra politica e cittadini non
basta la legge elettorale.
È tempo di ripensare le forme reali della
democrazia costituzionale. C’è bisogno di ritrovare il fondamento
pluralista e conflittuale che la qualifica. È necessario guardare alla
realtà divisa, alle lacerazioni che colpiscono i corpi delle persone
concrete.
Dobbiamo abbandonare i falsi miti per costruire il futuro.
Abbiamo bisogno di quel che Stefano Rodotà ha definito un
«costituzionalismo dei bisogni».
Alcuni eventi – accidenti della storia – possono assumere un valore simbolico e spingerci a guardare al di là dell’immediatamente rilevante. Così, i referendum sul lavoro potrebbero riuscire ad andare oltre alla miseria dei voucher per squarciare il velo sul degrado della democrazia sociale. Anche la straordinaria reazione che si è espressa il 4 dicembre può diventare un inizio: non solo il rifiuto di una riforma della Costituzione peggiorativa dell’esistente, ma anche l’indicazione di una rotta verso politiche costituzionali più democratiche e partecipate. La lotta per la democrazia è oggi più aperta di ieri.
La storia passata insegna
che il sistema politico tenterà di sterilizzare queste vicende
riducendoli a meri “fatti”, per poter proseguire come se nulla fosse
accaduto. Ma non sempre sarà facile sottrarsi al cambiamento.
Il
sistema politico in questo momento sta affrontando la questione della
legge elettorale. Costretto dalla circostanza che un organo di garanzia
costituzionale ha realizzato l’inimmaginabile. Un giudice ha scritto
invece del parlamento la più politica delle leggi, quella elettorale.
Con qualche ottimismo possiamo sperare che si recuperi finalmente un
equilibrio tra le ragioni della governabilità e quelle sin qui
pretermesse della rappresentanza. Bene, non si può che essere
soddisfatti.
Eppure, volendo spingere lo sguardo oltre il «fatto», mi
chiedo: anche ottenessimo il migliore dei sistemi elettorali possibili
avremmo risolto i problemi della rappresentanza politica?
Non dubito
che l’approvazione di una buona legge elettorale rispettosa del
principio di rappresentanza segnerebbe una netta discontinuità dopo
ventiquattro anni di infatuazione maggioritaria.
Tuttavia, mi chiedo
su quali fondamenta si vuole ricostruire la rappresentanza politica in
seno al parlamento. Una legge d’impianto proporzionale realizzerebbe,
certamente e finalmente, una rappresentanza reale; ma di chi, di cosa?
Di un popolo scomposto, smarrito, privato di legami sociali e di visione
collettiva.
Temo si possa correre il rischio di garantire una
rappresentanza solo dimidiata, di partiti privati di legittimazione
sociale. Sicché un cambiamento da tempo atteso, di segno assai positivo,
rischierebbe di reggersi su gambe d’argilla. Imposto dalla forza dei
giudici costituzionali, ma nel vuoto della politica.
Se vogliamo dare solide
fondamenta al cambiamento auspicato dobbiamo guardare anche a ciò che
v’è dietro, che si pone come presupposto di legittimazione della scelta
dei sistemi elettorali, di quelli ispirati dal principio proporzionale.
In sostanza si tratta di mettere a tema la realtà della rappresentanza
politica e non soltanto le sue forme istituzionali.
Quel che mi
sembra di poter rilevare è che non ha senso parlare del rapporto di
rappresentanza senza volgere lo sguardo anche, soprattutto, al
rappresentato.
Questo mi induce a ritenere che oggi affrontare la
questione della crisi della rappresentanza deve voler dire toccare
almeno altri due aspetti, oltre a quello delle modalità di voto.
Da
un lato, la questione delle altre forme di espressione della volontà
popolare, dall’altro quella delle forme di organizzazione di questa
stessa volontà.
Si tratta, in sostanza, di riflettere sulle
trasformazioni della rappresentanza in un’epoca in cui il popolo non si
sente più rappresentato dalle istituzioni (dal parlamento in
particolare) e i cittadini non concorrono più a determinare la politica
nazionale associandosi in partiti, ma, eventualmente, in altro modo.
Potremmo
deprecare o meno entrambi i fatti, tuttavia questo è il dato di realtà
dal quale partire. E allora delle due l’una: o si ritiene si possa fare a
meno del parlamento e dei partiti, rinunciando in tal modo all’idea
stessa di democrazia così come definita dalla modernità giuridica (in
fondo le pulsioni populiste che sono oggi egemoni operano in tal senso)
oppure diventa necessario ricollegare le istituzioni e gli strumenti
della democrazia rappresentativa alle diverse espressioni in cui si
manifesta la volontà popolare. Se si vuole rafforzare la democrazia
costituzionale è necessario ripensare oltre alle forme della
rappresentanza anche le forme della partecipazione.
Riscoprire le virtualità
della partecipazione per non rinchiudersi dentro i palazzi della
politica e delle istituzioni può costituire un inizio, ma può anche
rappresentare un rischio.
Può costituire un inizio se tramite la
partecipazione si riesce a ricostruire un rapporto tra cittadini e
istituzioni della rappresentanza, riproponendo al centro
dell’organizzazione dei poteri il parlamento come luogo del compromesso
politico e sociale.
Può altresì rappresentare un rischio qualora le
dinamiche della partecipazione finissero per rivoltarsi contro il
parlamento facendo prevalere lo spirito populista e antiparlamentare
così diffuso oggi, non solo in Italia.
Ed è per questo che, oltre
alle forme di partecipazione popolare, bisogna anche occuparsi delle
forme di organizzazione dei poteri. Le sorti della democrazia
partecipativa sono legate a quelle della democrazia rappresentativa.
Dunque, ripensare
l’organo della rappresentanza, il parlamento. Anzitutto rivendicando un
riequilibrio della forma di governo, la quale si è andata
progressivamente sbilanciando a favore dell’istituzione governo.
È
questo un processo iniziato quarant’anni fa, che è stato sospinto dalla
mistica della governabilità e dall’illusione ottica della debolezza o
instabilità degli esecutivi. Se oggi si vuole ricostruire la democrazia
pluralista e conflittuale diventa anzitutto necessario liberare il
parlamento dalla situazione di minorità rispetto agli esecutivi,
aiutarlo a ritrovare la sua autonomia di organo costituzionale.
Il
parlamento è oggi ad un bivio. Rischia di essere definitivamente
svuotato, schiacciato dal peso del governo e abbandonato al suo triste
destino da un popolo distratto e indifferente. Potrà salvarsi solo se
riesce a dare voce al rappresentato, ai soggetti storici reali. La forza
autonoma dei parlamenti nelle società complesse si rinviene nella
capacità di questi di essere effettivamente rappresentativi delle
divisioni, luogo di scontro e composizione dei conflitti.
Un ruolo
costituzionale che non può essere assimilato a quello del governo che
deve, invece, promuovere una politica generale mantenendo un’unità di
indirizzo politico, a scapito delle minoranze.
Al parlamento,
istituzione del pluralismo, si affiancherebbe così il governo,
istituzione dell’unità maggioritaria. In un equilibrio tra poteri
definito dal sistema costituzionale e dalla nostra forma di governo
parlamentare.
Anche il rappresentato
però dovrà convincersi – in tempi di crisi della rappresentanza e di
liquefazione del rappresentante- che la lotta per le istituzioni
democratiche gli appartiene.
Dovremmo noi tutti tenere ben presente
che le sorti del parlamento si legano indissolubilmente a quelle della
democrazia, giungendo a determinare la sua qualificazione.
Una
democrazia pluralista non può essere governata senza un organo che sia
effettiva rappresentazione della diversità del corpo sociale, diversità
che l’organo governo non può neppure aspirare a interpretare.
Una
democrazia conflittuale deve trovare un luogo istituzionale di
composizione che riesca a garantire il compromesso tra le diverse forze
politiche.
Le democrazie pluraliste e conflittuali, dunque, non
possono fare a meno di un popolo sovrano, ma neppure di parlamenti
autonomi.
Riscoprire la complessità sociale e la centralità del
parlamento è impresa titanica di questi tempi di dominanza degli
esecutivi, tuttavia non ci si può sottrarre, anche in questo caso si
tratta di iniziare una lunga marcia.