Come quella che a Bologna ha organizzato e vinto un referendum
consultivo sullo Stato troppo avaro con le disastrate scuole materne
comunali, troppo prodigo con quelle private: scarsa è stata l’affluenza,
ma non la cocciuta grinta dei referendari. I cittadini fuggono i comizi
ma intanto le piazze s’affollano di italiani pronti a salutare don
Gallo, o padre Puglisi ucciso dalla mafia nel ’93. Due persone mitiche,
amate perché politicamente eterodosse.
Lo Stato, la politica, i
cittadini: il triangolo resta malato, corrotto, e se c’è chi si rallegra
per la tenuta del Pd e la caduta di 5Stelle vuol dire che ha un
rapporto storto con la verità. Il triangolo suscita non solo disgusto,
ma voglia di altra politica. Nello Stato e nella politica gli elettori
credono sempre meno. Sono anche delusi da Grillo, dall’assenza di leader
locali forti, ma non smettono il desiderio di partecipare, anche usando
la lama dell’astensione. Sono impolitici? Sì, se la politica si
esaurisce tutta nei partiti. Se Ignazio Marino ha successo a Roma è
perché nel Pd è un eretico: voleva Rodotà presidente della Repubblica, e
non ha votato la fiducia alle larghe intese prescritte dal partito.
Infine è un laico, mentre il Pd non lo è.
È come se davanti al
nostro sguardo scorresse un film che narra più eventi paralleli, e però
ha un unico titolo. Narra uno Stato di cui si diffida, perché predato da
potenze che il cittadino non controlla: potenze che sprezzano lo Stato
imparziale, laico, e se possibile se ne appropriano. È significativo che
il Movimento 5Stelle vacilli, sospettato di non aver mantenuto le
promesse. Ma è significativa anche la scarsa tenuta del Pdl, guidato da
non statisti. Lo stesso Stato, non dimentichiamolo, è da lunedì sotto
accusa al tribunale di Palermo per aver vissuto (per vivere tuttora,
probabilmente) all’ombra di patti con la mafia, stretti in concomitanza
con le stragi del ’92-93 con la scusa che solo destabilizzando fosse
possibile stabilizzare l’Italia. Lo Stato è infine giudicato infedele
alla Costituzione nel referendum bolognese.
Se guardiamo le tre
cose insieme (elezioni, referendum di Bologna, processo di Palermo), il
Partito democratico ha poco da festeggiare, e molto da rimproverarsi. È
pur sempre il partito che dopo il voto di febbraio ha fatto abiura. Che
ha mobilitato 101 traditori per affossare Prodi, ingraziarsi Berlusconi,
confermare un Presidente favorevole alle larghe intese. Localmente il
Pd ha apparati ferrei: ma apparati benpensanti più che pensanti,
timorosi d’apparire di sinistra. A Bologna non ha saputo ascoltare chi
difende la scuola pubblica, minacciata mortalmente in tempi di penuria.
Di fronte ai processi di Palermo è afasico, avendo avallato l’isolamento
delle procure per anni. Non è di sinistra la smemoratezza che regna sui
patti con la mafia, avvenuti anche quando lo Stato era retto da
politici «amici». Quando Veltroni denuncia i «pezzi di Stato»
compromessi nelle stragi mafiose, mai ammette che pezzi del Pd hanno
forse tollerato lo scempio.
Né può dirsi di sinistra la difesa
delle scuole private dell’infanzia (il 99 per cento cattoliche) che,
almeno a Bologna, hanno ricevuto dallo Stato finanziamenti
sproporzionati, senza rapporto alcuno con il costo della vita. Una
sovvenzione che negli ultimi 15 anni si è più che triplicata, mentre
tantissimi genitori si trovavano nell’impossibilità di iscrivere i figli
alle scuole comunali o statali gratuite, neglette dallo Stato, e
costretti a optare per scuole private a pagamento di cui non
condividevano l’impostazione religiosa.
Dice Daniel Cohn-Bendit
in un’intervista al quotidiano online Lettera 43 che i partiti vanno
trasformati radicalmente – se non soppressi come scriveva nell’immediato
dopoguerra Simone Weil – e sostituiti da cooperative, da «spazi di
dibattito politico dove la gente possa discutere di questioni
ambientali, sociali, culturali». Perché le persone «vogliono oggi
vivere, non offrire la propria vita al partito». Perché hanno
l’impressione che dibattere serva a creare nuove realtà, ma a condizione
di svolgersi «fuori dalle strutture della politica», e mutando il
concetto di militanza.
Nella sostanza, pur diffidando di Grillo, è
la democrazia deliberativa di 5Stelle che Cohn-Bendit propone:
affiancando (ma non distruggendo) quella rappresentativa, rovinata da
partiti «più interessati alla cucina interna che a risolvere i problemi
». Non si tratta di mandare tutti a casa («Non c’è nulla di più
autoritario che questa concezione». Si potrebbe aggiungere: nulla di più
impraticabile). Grillo non è riuscito né a deliberare né a
rappresentare, con il risultato che i suoi elettori si sono in gran
parte ritirati nelle terre selvagge dell’astensione. Voleva essere una
diga contro i flussi incontrollati del disgusto, ma di questo disgusto
ha sottovalutato l’impazienza, la voglia di risultati concreti: compreso
il risultato di un governo di cambiamento, presieduto da persone non
partitiche, che per calcoli tattici Grillo mancò di proporre a
Napolitano.
Ciononostante le associazioni cittadine sopravvivono,
ed è rivelatore che molte assumano nomi di articoli costituzionali. Per
esempio il Comitato articolo 33, promotore del referendum bolognese:
l’articolo garantisce scuole statali gratuite, e istituti privati «senza
oneri per lo Stato». O il sito articolo 21, che si appella alla libertà
di stampa nelle battaglie antimafia. Da tempo la bussola
dell’associazionismo è la nostra Carta, non i programmi partitici.
Sono
iniziative sparse, spesso misconosciute. Ma sono accanite, non mollano.
Nel Manifesto che presenterà il 30 maggio al teatro dell’Eliseo per la
rivista Left, Salvatore Settis ne sottolinea la forza: un
numero crescente di cittadini si associa dissociandosi, impegnandosi
civilmente in modi diversi e inediti: sfiduciando lo Stato com’è fatto e
rifugiandosi nell’astensione; militando in M5S; creando piccoli club di
scopo volutamente antipartitici (ambiente, salute, giustizia,
democrazia). Non meno di 5-8 milioni di cittadini si associano così.
«Queste forme di opposizione “vedono” quel che sembra sfuggire a chi ci
governa: il crescente baratro che si è aperto fra l’orizzonte delle
nostre aspirazioni e dei nostri diritti e le pratiche di governo ».
Non
stupisce che Stefano Rodotà, sostenitore del Diritto di avere diritti
per far fronte a poteri oligarchici sempre più endogamici e chiusi, sia
divenuto per gli associati-dissociati un punto di riferimento. Nello
stesso giorno in cui i candidati alle municipali parlavano in piazze
vuote, sabato scorso, 80 mila persone affluivano a Palermo per la
beatificazione di don Puglisi, e a Genova erano in più di 6000 a
salutare Don Gallo. Lo storico Marco Revelli ne deduce: «Il Paese è
sano. È la politica a essere ormai un ectoplasma, tenuto in vita solo
dalla spartizione di poltrone».
Don Puglisi, le folle l’hanno
onorato con la canzone, scritta da Fabrizio Moro sull’uccisione di
Borsellino, che s’intitola «Pensa». Proprio quello che i partiti hanno
disimparato, specie a sinistra: pensare che “…ci sono stati uomini che
hanno continuato nonostante intorno fosse tutto bruciato. Perché in
fondo questa vita non ha significato, se hai paura di una bomba o di un
fucile puntato». Non pensa, chi sopporta uno Stato che finge di scordare
i patti stretti con la mafia, e dunque è pronto a ripeterli. Non pensa,
un Pd comandato da 101 persone pronte a tradire l’elettore, e a
intendersi con un avversario descritto fino al giorno prima come
giaguaro da neutralizzare e bandire.
Strane elezioni amministrative. Le capisci se l’occhio guarda oltre, se vede quel che accade intorno e ha viva la memoria. Le elezioni ci mostrano un’Italia che diserta il voto – quasi la metà dei romani si astiene – e al tempo stesso, ovunque, proliferano iniziative, associazioni.