Una enorme responsabilità grava sulla minoranza dei deputati del Pd alla Camera. È quella di impedire o consentire, con le altre minoranze, la transizione dell’Italia dalla Repubblica democratica ad un regime autoritario, quello del “governo del primo ministro“. Fu questa la denominazione che identificò la forma di governo vigente in Italia dal 3 gennaio 1925 al settembre 1943. Va ricordata non perché si profili una qualche possibilità di restaurazione del fascismo in Italia.
(Ipotizzarla anche come la più remota delle evenienze è da idioti).
Ma per far rilevare che l’irripetibilità di quella forma specifica di autoritarismo non autorizza affatto a ritenere che non se ne possano realizzare altre versioni, sceglierne altri modelli, i più disparati, avvolti magari nelle vesti più seducenti.
Anche con procedimenti normativi non formalmente illegali si può infatti instaurare un regime autoritario. Si può addirittura ritenere che l’uso illegale di poteri legali sia lo strumento più adeguato per la contorsione delle istituzioni, per il capovolgimento di una forma di governo. Lo dimostra la congiuntura istituzionale che stiamo vivendo.
Infatti. È attraverso procedimenti legislativi forzati sì, anche troppo, anche con atti non coperti dalla insindacabilità degli interna corporis, ma sicuramente rientranti tra quelli previsti in Costituzione, che le riforme di Matteo Renzi, se saranno approvate, travolgeranno la stessa Costituzione usata per approvarle. Vanno fermate ora, nel corso del procedimento di formazione.
Delle due è quella elettorale che contiene il dispositivo distruttivo della democrazia. Renzi dice la verità quando afferma che l’italicum definisce governo, maggioranza, il “suo” Pd, se stesso, la sua riforma dello stato, lo stato … renziano che vuole fondare. È infatti lo strumento che accumula il potere statale in una persona sola ed esclude ogni contropotere. Lo abbiamo dimostrato più volte ed in molti su questo giornale, trincea inespugnabile della democrazia costituzionale.
Ce lo conferma lo stesso testo dell’italicum come modificato dal Senato (nuovo art. 14-bis) ed ora all’esame della Camera che reintroduce la figura di «capo della forza politica» per i partiti «che si candidano a governare». Con il che, surrettiziamente, con un solo colpo, prima si trasforma l’elezione della rappresentanza parlamentare in elezione del governo, poi si riduce il governo da organo collegiale con un primus inter pares in organo sottoposto ad un capo, al «capo del governo», qualificazione che completava quella di «primo ministro» nel regime che vigeva in Italia negli anni venti e trenta del secolo scorso.
Come se non bastasse, il suddetto testo dell’italicum degrada la posizione e il ruolo del Presidente della Repubblica. Perché muta la struttura del suo potere di nomina del Presidente del consiglio, che, da potere condizionato che è, secondo Costituzione, dai rapporti di forza in Parlamento, diverrebbe potere vincolato. Il capo del governo eletto con l’italicum al Presidente della Repubblica, garante della Costituzione, potrebbe così opporre sempre la derivazione diretta che egli solo ha ottenuto dal corpo elettorale. Si tratterebbe, in ogni caso, di derivazione espressa dal voto di una minoranza, quella che, col «premio» — accrocco esclusivamente italico — sottrae seggi alla somma delle minoranze, proprio a quella somma che esattamente corrisponde alla maggioranza reale dei votanti. Ma sono scrupoli inconcepibili per Renzi che coerente con se stesso non vuole alcun contrappeso, vuole tutto il potere. Non indietreggia a fronte della straordinaria opposizione dell’italicum ai principi della democrazia.
Diventa perciò dovere inderogabile sbarrare la strada all’approvazione dell’italicum. E l’approvazione anche di uno solo degli emendamenti che i deputati di Sel, Cinque Stelle e minoranza del Pd hanno presentato o intendono presentare, può preservare, per ora, la democrazia italiana