In un Paese normale – dopo la schiacciante vittoria del No al referendum del 4 dicembre che ha evitato l’approvazione di una legge di riforma della Costituzione che riduceva pericolosamente gli spazi di democrazia rappresentativa – ci si sarebbe aspettato che si verificassero due conseguenze: la prima è che il segretario del partito di maggioranza – che aveva ispirato e fortemente voluto l’indecente riforma e aveva personalizzato il referendum confermativo dividendo il Paese in buoni (quelli per il Sì) e in cattivi (quelli per il No) e paventando, mendacemente, catastrofi politiche, economiche e finanziarie, in caso di vittoria del No – doveva essere buttato fuori per sempre dalla scena politica che aveva conquistato con l’impostura di presentarsi come il “rottamatore” della politica e della casta mentre era vero esattamente il contrario.
La seconda è che ci si aspettava l’approvazione di una legge elettorale che restituisse ai cittadini il diritto, costituzionalmente riconosciuto, di scegliere i propri rappresentanti, così rispettando, da un lato, la volontà degli elettori e, dall’altro, le decisioni del Giudice delle Leggi che ha, come è noto, per ben due volte, dichiarato costituzionalmente illegittime le leggi elettorali (di cui l’ultima approvata con voto di fiducia di “mussoliniana” memoria e alla stregua della legge-truffa del ’53). Che cosa è, invece, accaduto in un Paese molto poco normale ? È accaduto che è ancora il finto rottamatore a distribuire le carte, non solo facendosi promotore della peggiore legge elettorale di sempre – che attraverso le liste bloccate, il divieto del voto disgiunto, le pluricandidature, dà luogo a un Parlamento di “nominati” – quanto ha ordinato, ancora una volta, di porre un improprio voto di fiducia su tale legge trasformandolo in un mero espediente tecnico finalizzato a mettere il bavaglio all’opposizione e, comunque, a confiscare la sovranità politica dei parlamentari, giungendo, perfino, a seguito dell’esito sul voto di fiducia, alla protervia di esultare: “Quando facciamo all-in vinciamo. Basta avere coraggio”. Ci si domanda quale sia l’obiettivo dell’ambizioso segretario del Pd: lo scopo è duplice; da un lato, evitare a tutti i costi la possibilità di un incarico da parte di Mattarella al candidato-premier del Movimento 5 Stelle, dall’altro assicurarsi la fedeltà della stragrande maggioranza dei parlamentari da lui stesso designati, sì da restare il padrone unico del partito (nulla importandogli di portare il partito alla sicura sconfitta elettorale) e tentare – dopo aver distrutto i valori della sinistra e determinata la scissione del partito – l’“inciucio” (che gli è congeniale) per tornare a Palazzo Chigi.
Ora, la legge, dopo l’approvazione della Camera, passa al Senato ove è auspicabile che il presidente non ammetta la fiducia, così consentendo ai parlamentari di esercitare le proprie funzioni già strozzate alla Camera dal voto di fiducia. In ogni caso, è urgente una grande mobilitazione democratica che comprenda – oltre a quella parte di cittadini (oltre il 25%) che spontaneamente, nel rifiuto dei governi della “Casta” e dei banchieri e ispirandosi ai principi del rispetto delle regole e della legalità, dette vita, in breve tempo, nell’aprile 2013, a un rilevante movimento politico – anche tutti i cittadini (oltre il 60%) che parteciparono vittoriosamente alla campagna referendaria. È indispensabile una mobilitazione generale che coinvolga anche comitati, sindacati, associazioni, donne e uomini del mondo della cultura e dell’arte, accademici e, perché no, gli stessi magistrati ai quali nessuno – né il Csm né altri – può impedire di esercitare il diritto, costituzionalmente riconosciuto, di manifestare il proprio pensiero e informare l’opinione pubblica su fatti di rilevante interesse per la collettività tanto più se lo esprimono a salvaguardia del principio costituzionale posto a tutela della democrazia rappresentativa.
Ma, nell’ipotesi in cui venga anche al Senato ammesso il voto di fiducia, è necessario che i rappresentanti di quel movimento, che devono rispondere a ben nove milioni di elettori, abbandonino, per sempre, il Parlamento: non è più tempo di sterili e improduttive iniziative quali l’uscita dall’aula, le proteste dei parlamentari innanzi al Senato, gli appelli a Mattarella. È indispensabile un gesto forte, significativo – sicuramente apprezzato da milioni di persone – che si ponga, negli annali della storia, a imperituro ricordo, come l’unica risposta possibile alla protervia di una classe politica che, democraticamente sconfitta dai cittadini il 4 dicembre, vuole pervicacemente ridurre la partecipazione democratica, incidere sulla rappresentanza, sul diritto di voto, in definitiva, sulla sovranità popolare.