Nell’esaminare quel che succede con la democrazia costituzionale negli Stati dell’Unione e nelle sue istituzioni, e con i diritti sociali e civili che esse garantiscono, è indispensabile affrontare la questione della sovranità. L’idea di unificare l’Europa nasce essenzialmente come critica delle sovranità assolute degli Stati, e del loro rifiuto di accettare qualsivoglia autorità o legalità internazionale che siano superiori al proprio volere (ai tempi del Manifesto di Ventotene era in questione l’impotenza della Lega delle Nazioni di fronte alle politiche di aggressione fasciste e nazionalsocialiste).
Da questo punto di vista la scomparsa dell’Urss ha inferto un duro colpo a simile idea, rendendola più complessa di quanto lo fosse già. Da una parte l’Unione europea ha perso un termine di paragone importante, non potendo più contrapporre la natura volontaria e consensuale della propria sovranazionalità a quella obbligatoria del Patto di Varsavia. Dall’altra paga il prezzo di un allargamento a Est fatto senza che la questione della sovranità sia mai stata affrontata seriamente: tutti i Paesi dell’Est sono entrati nell’Europa per riconquistare piena sovranità e sono estremamente restii a perderla di nuovo. Non si può continuare a parlare di un’Unione “sempre più stretta”, come nel Trattato di Lisbona, se non si includono nei ragionamenti i due momenti cruciali dell’attuale Unione: il secondo dopo-guerra e l’ ‘89-‘90.
Non che i trasferimenti di sovranità siano di per sé sbagliati: sono molte le politiche votate all’insuccesso o addirittura impossibili, se a decidere sono gli Stati-nazione da soli. Ma il concetto di sovranità trasferita va approfondito, riadattato, e rinominato: meglio dire sovranità condivisa piuttosto che trasferita. Soprattutto, il trasferimento non può divenire un fine in sé. Accentuare l’incisività tecnica delle istituzioni o renderle magari più trasparenti non basta. È la natura del trasferimento che va discussa.
La delega di sovranità non è adesione supina a un impero – impero che è peraltro senza imperatore e s’incarna piuttosto in tecnostrutture. Non solo è un trasferimento volontario, ma è anche fortemente condizionato. Nell’articolo 11 della nostra Costituzione è scritto a chiare lettere che l’Italia, nel ripudiare la guerra, “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Si trasferiscono sovranità se l’ordinamento che si vuol raggiungere è in grado di assicurare pace e giustizia fra le nazioni. Non entriamo in comunità sovranazionali a qualsiasi prezzo, o perché una potenza nazionale più forte e più sovrana lo vuole.
L’Europa dovrebbe riconoscere questo anche per quanto riguarda la Nato, e non si può dire che la questione sia stata veramente posta, né quando la Nato fu costituita né dopo la fine della guerra fredda. Come diceva già nel 1949 Piero Calamandrei, l’adesione al Patto Atlantico era sconsigliabile fin dall’inizio, e tanto più lo è oggi: il Patto Atlantico “non solo non dà (all’Italia) la garanzia di allontanare dal nostro territorio la catastrofe della guerra, ma dà anzi a essa la certezza della immediata invasione, anche se il conflitto sarà provocato da urti extraeuropei”. E continuava: “Auguriamoci che mentre la Costituzione repubblicana attende ancora il suo compimento, la firma di questo Patto non sia il primo colpo di piccone dato per smantellarla”. Cito queste frasi perché rischiano di valere anche per l’odierna Unione, minacciata dal disfacimento dopo la crisi del 2007-2008, dopo il dibattito sul Grexit, dopo il Brexit. L’Unione immagina di sventare tali minacce con una Difesa comune, che consiste soprattutto nel quadruplicare le forze Nato ai suoi confini orientali, e nel contravvenire a precise promesse fatte a Gorbachiov dopo il venir meno dell’Urss. Ma se pensa di superare la propria crisi risuscitando la guerra fredda, e restando inchiodata all’ ‘89-‘90, si illude.
Il giudizio di Calamandrei sulla Nato vale anche per gli effetti che l’Unione così come oggi è fatta può avere sulle Costituzioni. Se da anni parlo di de-costituzionalizzazione dell’Europa, è perché l’Unione tende a funzionare come struttura indifferente ai dettami di una democrazia costituzionale: cioè a funzionare come un piccone. In primo luogo è priva di una Carta in cui i popoli si riconoscano e che riconosca loro una sovranità. In secondo luogo non si fonda, come avviene nelle democrazie costituzionali, su una chiara suddivisione di compiti tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Il potere esecutivo è un ibrido (la Commissione e il Consiglio), e come tale non eletto. Il Parlamento europeo è l’unico organo eletto ma non legifera con le stesse possibilità date ai Parlamenti nazionali. E la Corte giudica, ma con un’indipendenza molto ridotta: primo perché sui diritti economici e sociali è molto influenzata da politiche neo-liberiste e lobbies, secondo perché comunque può intervenire solo sulla legge europea, e un numero sempre più grande di decisioni cosiddette europee sono adottate tra gli Stati, proprio per aggirare sia il Parlamento comune sia la Corte di giustizia (fiscal compact, accordi su migrazione e rimpatri con Paesi terzi). L’Unione manca anche di strumenti efficaci di democrazia diretta, come previsto in una serie di costituzioni nazionali. Non a caso non c’è un governo europeo ma una cosiddetta “governance” (la tecnostruttura cui accennavo).
Questo sviluppo non è nuovo. Fin dagli anni ‘70 le élite si domandano se la democrazia e le Costituzioni non debbano essere limitate, perché i governi siano più efficienti. Penso al rapporto pubblicato nel 1975 con il titolo La crisi della democrazia, per la Commissione Trilaterale, da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki: il rapporto denunciava gli “eccessi” delle democrazie postbelliche, e affermava il primato della stabilità e della governabilità sulla rappresentatività e il pluralismo, giungendo sino a esaltare l’apatia degli elettori e cittadini.
Negli anni ‘80 Hans Tietmeyer, allora governatore della Bundesbank, invita ad affiancare il “suffragio permanente dei mercati globali” a quello delle urne. La crisi economica del 2007-2008 accelera lo svuotamento delle democrazie costituzionali, accentrando ancor più i poteri nelle mani degli esecutivi, sia negli Stati membri sia nelle istituzioni europee. In quegli anni Jürgen Habermas vede affermarsi un temibile “federalismo degli esecutivi”, e nel 2013 – in piena crisi dei debiti sovrani – la Jp Morgan pubblica un rapporto sulla riorganizzazione dell’eurozona in cui denuncia senza remore le Costituzioni sud europee nate dall’antifascismo, troppo corrive con sindacati e proteste sociali, e da riscrivere perché le Carte non rallentino le decisioni degli esecutivi. Le riforme costituzionali di Berlusconi e di Renzi andavano ambedue in questa direzione, prima che venissero fortunatamente bocciate da due referendum: sono state il culmine di un quarantennale tentativo di far regredire il diritto.