A oltre un mese dal voto sul referendum costituzionale conviene pensare seriamente al “che fare” in seguito all’interpretazione datane da Mattarella attraverso la propria azione. Infatti il Presidente, insieme alla maggioranza del ceto politico (e dell’intero blocco di potere che aveva sostenuto il Sì) ha fatto finta di niente, derubricando un clamoroso voto costituente come un banale incidente parlamentare di facile soluzione. Ai venti milioni di italiani che hanno votato No a una ennesima controriforma neoliberale, è stato così rifilato un governo fotocopia interamente composto di esponenti del Sì, ossia di sconfitti delegittimati dalle urne. Del resto, non è una novità.
Si ricorderà infatti che l’identico trattamento era stato riservato ai 27 milioni di italiani che nel giugno del 2011 avevano votato per invertire la rotta del neoliberismo nei confronti della privatizzazione dei servizi pubblici (acqua in primis) e delle grandi opere dannose (nucleare). Dopo qualche mese si cadde dalla padella (Berlusconi) nella brace (Monti) e la volontà popolare fu tenuta completamente in non cale. Similmente, dopo che il popolo aveva evidentemente manifestato la propria investitura di Rodotà come presidente della Repubblica coerente con l’ideale di cambiamento, il ceto politico confermò Napolitano. E ancora, con l’elettorato spaccato in tre, si inaugurò con Letta la fase di strutturale scollamento fra la volontà popolare e il governo della Repubblica che ancora oggi si manifesta con una impressionante continuità nell’irridere i più elementari principii della democrazia.
In questo scenario costituente-materiale, in cui la Repubblica italiana è stata trasformata in una post-democrazia, maggioranza ed opposizioni propinano la trita idea per cui, fatta la legge elettorale, si potrà finalmente votare. Personalmente non riesco a immaginare peggior strazio estetico di una inutile campagna elettorale fatta di slogan e scemenze, condotta da personaggi privi di qualsiasi competenza, credibilità e potere di fronte ai luoghi (economici) in cui le decisioni politiche vengono prese sempre e unicamente nell’interesse del 1%.
Occorre inventare qualcosa di nuovo, che sia all’altezza della gravità della crisi costituzionale in corso, facendoci una ragione del fatto che né i referendum né le elezioni (purtroppo neppure quelle locali) sono in grado di operare alcun cambiamento reale. Occorre innanzitutto una consapevolezza costituente che passa attraverso alcuni punti:
a) Capire che esiste una minoranza di usurpatori del potere che comanda nel proprio interesse ultra-minoritario (il famoso 1%).
b) Capire che la locuzione populista è utilizzata per delegittimare qualsiasi politica che non sia nell’interesse di questo 1%.
c) Convincersi che confondere le elezioni con la democrazia è un errore culturale grossolano.
d) Rendersi conto che di fronte all’usurpazione la contrapposizione destra-sinistra ha il solo scopo di dividere la resistenza.
e) Identificare i veri avversari nei grandi gruppi capitalistici che corrompono la politica, evitando così di fare la fine dei capponi di Renzo prendendosela con i marginali e con le vittime.
E allora? No taxation without representation proclamarono i coloni americani all’alba del loro sforzo costituente. Oggi in Italia la rappresentanza è distrutta ma la tassazione è feroce. Occorrerebbe il coraggio di inaugurare una nuova stagione che faccia perno su questa contraddizione. Bisogna inaugurare un “tea party costituzionale”, accompagnato dalla forte legittimazione giuridica e culturale di un rifiuto fiscale mirato. Così si può sconfiggere l’1% sul suo stesso terreno: quello economico. Senza paura di esser chiamati populisti. Come insegnò Gandhi, resistendo da soli si va in galera ma la moltitudine sconfigge l’usurpatore.