Cari Amici,
poiché parlo a una grande riunione di persone la cui motivazione più profonda è che “l’uomo non vive di solo pane”, sento prima di tutt o il bisogno di dirvi la ragione per la quale a 85 anni corro l’Italia per sostenere il NO al referendum, quando i giovani di oggi sono disperati per tanti altri motivi.
La ragione principale è una ragione di verità. Nell’ appello con cui i “Cattolici del No” han-no spiegato ai cittadini perché si oppongono a questa riforma, hanno detto di farlo per una questio-ne di giustizia e una questione di verità. In effet ti l’Italia ha oggi un grosso problema, di sapere la verità del referendum, non perché qualcuno dica la “sua” verità sul referendum, ma per capire che cosa il referendum dice di sé, che cosa rivela deldramma politico che oggi stiamo vivendo in questo Paese e nel mondo.
La verità è il criterio supremo su cui viene giudicato il potere: sulla verità il potere sta o ca-de. Lo dice Gesù a Pilato, che voleva sapere se egli fosse un re e Gesù risponde “sono re”, e subito lo nega perché, dice, sono venuto al mondo per “rendere testimonianza alla verità”. Infatti non è un re, nel senso di Pilato, ma un suddito crocefisso. È la più radicale delegittimazione del potere senza verità. Ebbene è proprio la verità che spesso manca al potere e per saperlo basta guardare alla storia dei re e dei potenti, che fanno le guerre per una bugia – come è avvenuto in Vietnam, in Iraq e ora in Siria - e comprano il povero, o il voto del povero, al prezzo di un paio di sandali.
Dunque c’è una questione di verità col potere e c’è una questione di verità col referendum. Ognuno ne parla a suo modo e tutti lo fanno come se parlassero di oggetti diversi; per gli uni è la fine di Renzi, per altri ne è il principio; per gli uni abolisce il Senato, per altri abolisce i senatori; per gli uni favorisce le autonomie, per altri le nega; ed essendo un oggetto misterioso, non si sa nemmeno perché si vota il 4 dicembre con la neve enon si vota invece il 4 ottobre con la brezza au-tunnale.
In questa mancanza di verità si è accesa una polemica sul quesito su cui si deve votare, che non è l’enunciazione del contenuto della legge ma lo slogan che il governo le ha messo in Parla
mento come titolo. Per cui la domanda è se la riforma realizza davvero ciò che promette, oppure se mira a risultati del tutto diversi e tenuti nascosti.
E poiché il titolo promette cinque cose e non c’è li tempo di esaminarle tutte, mi fermerò al-la prima per vedere se il titolo è vero.
La prima cosa promessa è il superamento del bicameralismo paritario o, come si dice più comunemente, del bicameralismo perfetto.
Allo stato attuale delle cose il bicameralismo perfetto consiste in due Camere che hanno gli stessi poteri: danno la fiducia, controllano l’esecutivo e fanno le leggi. Avendo entrambe la stessa dignità e la stessa centralità nel sistema, non c’è una Camera alta e una Camera bassa, tutte e due sono Camere alte.
La diversa misura delle due Camere era invece la caratteristica del Regno d’Italia. Secondo lo Statuto Albertino c’era una Camera alta, che era il Senato del Regno, ed era chiamata alta perché i senatori erano nominati dal Re. La Camera dei deputati, i quali invece erano eletti dal popolo, era detta Camera bassa. Era evidente in quella concezione che il Re era l’alto, e il popolo era il basso. Il Senato, nella varietà delle vicende politiche, dove va garantire la continuità del Regno. Questa è la ragione per cui nel “Gattopardo” un messaggero del Re va a chiedere al principe di Salina di fare il senatore: perché anche con l’unità d’Italia i signori continuino a regnare come prima e tutto cambi perché tutto resti com’era. La stessa continuità il Senato del Regno doveva assicurare nel passaggio dallo Stato liberale allo Stato fascista, ma Mussolini preferì fare la Camera dei Fasci e delle Corpo-razioni, sicché fu poi la Costituente che sciolse il Senato; e i costituenti, trovando il terreno vergine, senza Camera né alta né bassa, decisero di fare dueCamere, ambedue elette dal popolo e perciò aventi la stessa statura.
Adesso con la riforma proposta, c’è un rovesciamento perché la Camera dei Deputati diven-ta lei la Camera alta. In essa siederanno infatti dei deputati di nomina regia, che cioè saranno nomi-nati dall’alto, ovvero dal governo e dai capi dei partiti, e sarà la Camera che dovrà assicurare la co n-tinuità del potere e del regime, e dicendo che “tut to cambia”, si farà garante che tutto resti com’è.
Invece il Senato diverrà la Camera bassa; e tanto b assa, che non sarà fatta nemmeno da senatori eletti dal popolo, ma da sindaci e onorevoli locali designati dai Consigli regionali.
E a questo punto la questione è questa: pur declassati, questi senatori potranno fare davvero i senatori? Secondo Renzi, dovendo essi venire a Roma a sbrigare delle pratiche, come già fanno i sindaci, ne potranno approfittare per passare anche dal Senato e tra una cosa e l’altra fare i senatori. Però secondo l’art.55 della nuova Costituzione il S enato dovrebbe vegliare su pressoché tutte le po-litiche pubbliche, valutarle e verificarle, come se fosse una sorta di “commissario politico” della Repubblica. Secondo poi l’art. 70, che ridistribuisce le competenze tra Camera e Senato, i senatori avranno ingentissime altre incombenze e per adempierle dovranno osservare una tempistica massa-crante; infatti, mentre da un lato per moltissime leggi fondamentali, che restano nelle competenze del bicameralismo paritario, i senatori dovranno passare in Senato tanto tempo quanto i deputati alla Camera, d’altro lato per richiamare al proprio esame ogni altra legge e per intervenire, deliberare, proporre modifiche, fare ricorso alla Corte costituzionale, dare il loro parere quando il governo vo-glia sostituirsi ai poteri delle Regioni e delle città metropolitane, i senatori avranno termini tassa tivi ora di 5 giorni, ora di 10 giorni, ora di 15 o 30 giorni che si accavalleranno tra loro. Questo ancora nessuno l’ha detto; ma è chiaro che nel ping pong tra una legge e l’altra, tra un richiamo di una legge e un altro, tra una proposta di modifica e l’altra, i senatori per non saltare i termini dovrebbero stare a Roma molto più a lungo dei deputati, che invece possono andare a casa quando vogliono senza che a loro scada termine alcuno. E qui c’è il paradosso: una riforma che doveva addirittura istituire un Senato delle autonomie, rischia di risolversi in un una sorta di sabotaggio delle autono-mie da parte del Senato.
Perciò è impossibile che sindaci di grandi città e consiglieri regionali di rilievo possano ab-bandonare i loro doveri d’ufficio nel territorio per installarsi a Roma correndo dietro alle leggi e alle delibere con uno scadenzario in mano. Il che vuol dire che a Roma non ci staranno affatto e perciò ci sarà un Senato ma non ci saranno i senatori, e l ’attività legislativa sarà bloccata.
Allora la domanda è: non era meglio piuttosto abolire il Senato? Non lo hanno fatto. Forse i riformatori che volevano “cambiare verso” all’Itali a erano troppo conservatori, forse Renzi era troppo organico alla vecchia classe politica per arrivare a sopprimere il Senato della Repubblica, e perfino per osare di cambiarne il nome, che doveva essere “Senato delle autonomie”. Quello che in-vece hanno fatto è stato di depotenziarlo per renderlo innocuo, per levare l’incomodo che esso arre-cava ai governi. E così hanno tolto al Senato l’un ico potere che veramente contava e che dava fa-stidio, il potere di dare e togliere la fiducia. E questo lo hanno statuito senza ambiguità e senza es i-tazione alcuna: con questa riforma infatti il governo esce totalmente dal controllo del Senato. Così almeno una Camera è messa fuori gioco. E perché laspoliazione fosse ben chiara, hanno tolto al Senato anche quel potere che purtroppo nella nostra cultura massimamente è rappresentativo della sovranità: il potere di deliberare lo stato di guer ra che l’art. 87 della nuova Costituzione toglie al Senato e riserva alla sola Camera dei deputati.
In questo consiste dunque l’uscita dal bicameralismo perfetto, che è il titolo e la gloria della legge di revisione che dobbiamo votare.
L’uscita è dalla democrazia parlamentare
Ma quanto, dopo questa uscita, il bicameralismo diventa imperfetto? Diventa tanto imperfet-to che neanche la Camera dei deputati funzionerà pi ù come un organo della democrazia parlamenta-re. La democrazia parlamentare consiste infatti nel rapporto di fiducia per cui il governo nasce e di-pende dalla fiducia espressa dalla maggioranza del Parlamento. Ma nel nuovo sistema, la fiducia verrebbe data da una Camera nella quale la maggioranza assoluta dei seggi sarebbe occupata per legge dai nominati di un solo partito. Ora ci dicono che questa legge, l’ Italicum, la cambieranno, quando ormai a Renzi, che può perdere, non conviene più. Però finora essa ha fatto parte integrante del cambiamento istituzionale, è stata imposta al Parlamento col voto di fiducia come premessa del-la stessa riforma, e la Corte Costituzionale, rinviando la decisione sulla sua incostituzionalità a do po il referendum, l’ha formalmente consegnata al giudizio del popolo italiano. Perciò inevitabilmente il 4 dicembre voteremo insieme sia sulla riforma di uscita dal bicameralismo che sulla legge elettorale che l’accompagna, voteremo cioè sul “combinato disp osto”. Dunque voteremo per un sistema in cui al governo la fiducia sarà data da una Camera d i sua fiducia, con una maggioranza di deputati nominati dallo stesso governo, corrispondenti però a una minoranza degli elettori. In tal modo la fi-ducia al governo non sarà più un atto libero di Ca mere elette e rappresentative di tutto il popolo, ma diverrà un atto interno di partito, diverrà un atto dovuto per disciplina di partito, non importa se riunito al Nazareno o a Montecitorio.
Dunque il punto non è che dal bicameralismo perfetto si passa a un bicameralismo dimezza-to. La verità è che il bicameralismo resta, ma è la democrazia parlamentare che se ne va. Il supera-mento è questo, e questo dovrebbe essere perciò il titolo non menzognero della legge. Ci sarà una democrazia e ci sarà un Parlamento, ma non ci sarà più una democrazia parlamentare. Per questo i riformatori si gloriano del fatto che ci sarà un so lo governo per tutti i cinque anni di legislatura, e magari per più legislature, e non ci saranno più come prima 63 governi in 63 anni, come dicono Renzi e l’ambasciatore americano. Ma se dalle urne viene fuori non dico un tiranno, ma un invasa-to, un uomo del destino, un pazzo, uno Stranamore, un apprendista stregone, o anche semplicemen-te un idiota, non c’è niente da fare, la sua signoria è assicurata per molti anni; e così le elezioni poli-tiche si trasformano ogni volta per il Paese in una roulette russa, in un rischio di suicidio.
Questa è una delle verità del referendum. Ma c’è anche, come dicevamo, una verità che sta dietro al referendum, e che esso rivela. Essa viene alla luce quando si dice che la legge Renzi-Boschi attua finalmente riforme attese e avviate da tempo.
Un processo di restaurazione
È verissimo che queste riforme vengono da lontano. Ma da chi sono attese? Sono attese dai mercati, dagli investitori, dalle grandi agenzie e società del commercio globalizzato. E sono state avviate dalle Banche, dalle Borse, dalla Trilaterale, dalla scuola di Chicago, dai Premi Nobel dati agli apostoli della dottrina neoliberista, come von Hayek e Friedman, dal Consenso di Washington del 1989, dal Fondo Monetario Internazionale e dalle sue ricette di riforme strutturali. La Costitu-zione renziana è in effetti il punto di arrivo di un processo di restaurazione condotto da classi diri-genti pentite di quella democrazia che avevamo ritrovato e reinventato dopo la tragedia dei fascismi sconfitti, e che avevamo messo nelle Costituzioni del dopoguerra.
Il fulcro di questa restaurazione consiste nel trasferire la sovranità dal popolo ai mercati.
È una restaurazione che ha bisogno di poteri spicci e sbrigativi, tanto meglio se loquaci, che mettano la politica al passo coi dogmi economici, magari pregati di essere più flessibili.
Ciò comporta un blocco del pluralismo politico e richiede una società impietosa divisa in due tra vincenti e perdenti, accolti ed esclusi, necessari ed esuberi, salvati e sommersi. Per i poveri, che non hanno altra ricchezza che il diritto, è un disastro. Ed è una società che non può più ripudiar e la guerra, perché la guerra è il giudice di ultimaistanza nella lotta per gli interessi esterni del siste-ma, per le risorse e per la supremazia.
Da noi il decennio di svolta è stato tra il 1981 e il 1991, a partire dal divorzio tra governo e Banca d’Italia, fino alle picconate alla Costituzione di Cossiga, fino a Maastricht, e al Nuovo Mo-dello di Difesa con cui l’Italia ha ripudiato la pace, ha cambiato natura e missione delle Forze Ar-mate e dopo la scomparsa del nemico sovietico ha accettato la scelta atlantica insensata di sostituir-lo con l’Islam come nemico. Da allora viviamo nella nuova conflittualità che si è aperta col Sud del mondo, e col terrorismo come nuovo nome e nuova condizione permanente della guerra.
Questo processo di restaurazione peraltro non si è concluso. Il referendum ne è una tappa in-termedia. Già ci dicono che se vince il Si la rifor ma verrà riformata e si aprirà una stagione di ulte - riori revisioni. Certo non basta un No per fermare questo processo, ma il No è condizione perché esso possa essere interrotto e rovesciato.
Raniero La Valle
Scheda tecnica sulle scadenze che la nuova Costituzione impone ai senatori
Termini impossibili per la spoletta dei senatori tra Regioni e Senato
La nuova Costituzione prevede questi tempi di permanenza dei sindaci e dei consiglieri regionali in funzione di senatori a Roma:
1) Nessun limite di tempo alla presenza a cui sono tenuti i senatori per la discussione e l’approvazione a Palazzo Madama delle leggi costituzionali, delle leggi sulla tutela delle mino-ranze, sui referendum popolari, sull’ordinamento, delle leggi elettorali,delle leggi sugli organi di governo, sulle funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane, sulle forme as-sociative dei Comuni, sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e attuazione delle norma-tive e delle politiche europee e di tutte le altre leggi indicate dall’art. 70, primo comma, che re-stano di competenza delle due Camere in regime di bicameralismo paritario. Per queste leggi ci vorranno gli stessi tempi e gli stessi passaggi di prima.
2) Termine di 5 giorni entro cui un terzo dei senatori può chiedere di esaminare ogni legge appro-vata dalla Camera con procedura urgenza perché considerata dal governo essenziale per l’attuazione del suo programma, e di 15 giorni entro cui il Senato può deliberare proposte di modifica (art. 72);
3) Termine di 10 giorni entro cui un terzo dei senatori può chiedere di esaminare ogni altra legge approvata dalla Camera su cui il governo non abbia chiesto l’urgenza, e di 30 giorni entro cui il Senato può deliberare proposte di modifica delle medesime (art. 70, terzo comma).
4) Termine di 15 giorni dalla trasmissione da parte della Camera, entro cui il Senato può delibera-re proposte di modifica della legge di bilancio e della legge sul rendiconto consuntivo (art. 70, quinto comma).
5) Termine di 10 giorni dalla data di trasmissione entro cui il Senato dispone l’esame delle leggi che su proposta del governo la Camera abbia approvato su materie riservate alla competenza delle Regioni in forza della clausola di supremazia statale invocata per la tutela dell’unità giuri-dica o economica della Repubblica o la tutela dell’interesse nazionale (art. 70, quarto comma).
6) Termine di 10 giorni dall’approvazione della legge entro il quale un terzo dei senatori può chiedere alla Consulta un giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali di Camera e Senato (art. 73 secondo comma)
7) Termine di 30 giorni dalla presentazione alla Camera dei decreti legge entro il quale il Senato ne dispone l’esame e di dieci giorni dalla data di trasmissione del disegno di legge di conver-sione entro il quale il Senato può deliberare proposte di modifica.
8) Termine di 15 giorni dalla data della richiesta, entro cui il Senato dovrà rendere il suo parere al governo in tutti i casi in cui esso intenda sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metro
politane, delle Province autonome di Trento e Bolzano e dei comuni adducendo la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica della Repubblica o gli altri motivi indicati dall’art. 120 secondo comma.
È prevedibile, data l’abbondanza e la varietà della produzione legislativa riservata alla Camera, l’ingente numero di leggi rimaste nel regime di bicameralismo paritario, e la frequenza con cui il governo potrebbe appellarsi alla clausola di supremazia, che le scadenze di questi termini si intersecheranno e accavalleranno tra loro, e che per non mancare a queste scadenze il Senato, e perciò i sindaci e i consiglieri regionali che lo formano, dovrebbero sottoporsi a una sorta di ciclo continuo mantenendo una ininterrotta presenza nella capitale, diversamente da quanto invece sarà richiesto ai deputati.
Vale in questo caso il principio che le leggi impossibili non sono leggi, ciò che significa che il si-stema parlamentare italiano, formalmente ancora fondato sul bicameralismo ancorché imper-fetto, al subentrare di questa nuova Costituzione precipiterebbe nell’anomia, resterebbe privo di una plausibile fondazione costituzionale ovvero, per usare un termine di uso più corrente e chiaro a tutti, cadrebbe nell’anarchia.