Isis nostra

di Marco Travaglio - Il Fatto Quotidiano - 23/11/2015

Magari fa comodo dimenticarlo, ma in Italia è tuttora viva e vegeta un’organizzazione terroristica che per un secolo ha fatto migliaia di morti ammazzati, che 13 e 12 anni fa mise l’Italia a ferro e a fuoco con stragi mai viste in Europa e nel mondo (salvo la Colombia e il Libano) e che da vent’anni non spara più perché ha avuto quasi tutto ciò che chiedeva: la revoca di centinaia di 41-bis per i detenuti e l’ammorbidimento progressivo del carcere duro per chi ci è rimasto, una legge più blanda sui pentiti, l’omertà legalizzata con la sostanziale depenalizzazione della falsa testimonianza, la chiusura delle supercarceri di Pianosa e Asinara, la delegittimazione scientifica di magistrati e pentiti, continui limiti alle intercettazioni e alle indagini, grandi opere da subappaltare agli amici degli amici, mano libera sugli affari da Sud a Nord, condoni fiscali per ripulire i soldi sporchi direttamente con lo Stato, addirittura (dal 1999 al 2001) l’abolizione dell’ergastolo, leggi col buco su voto di scambio e autoriciclaggio, ora persino l’innalzamento del limite ai pagamenti in contanti da mille a 3 mila euro (così da poter spendere i proventi delle estorsioni spicciole senza dare nell’occhio).

Questa organizzazione terroristica, essendo formata da italiani doc, quasi tutti cattolici e molto devoti, non suscita lo stesso allarme di quelle di origine maghrebina e mediorientale. Eppure controlla da decenni un vasto territorio: non fra Siria e Iraq, ma fra Sicilia, Calabria e Campania, con propaggini non in Libia o in Mali, ma in Lazio, Emilia Romagna, Piemonte, Lombardia, Val d’Aosta e altre regioni. Non si è mai proclamata Stato solo perché non ne aveva bisogno: diversamente dall’Isis, fortunatamente isolato, esecrato e combattuto dall’intero consesso civile, questa organizzazione terroristica ha sempre avuto ottimi rapporti con quello già esistente, attraverso premier, ministri, sottosegretari, politici, governatori, sindaci, funzionari, poliziotti, carabinieri, 007, avvocati, banchieri, commercialisti, giornalisti, medici e prelati, ottenendo trattative, leggi di favore, impunità, assunzioni, appalti, finanziamenti, licenze, cure sanitarie e sacramenti. Senza tutti questi agganci (i “concorsi esterni”), dopo due secoli di vita, sarebbe stata sconfitta da un pezzo.

Un sette volte presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, è risultato associato a essa fino al 1980 (e aveva cominciato nel 1946). Il n. 3 del Sisde, Bruno Contrada, era pagato dallo Stato ma lavorava per essa, infatti fu condannato a 10 anni.
Un tre volte presidente del Consiglio, Silvio B., leader del centrodestra, intratteneva con essa affettuosi e fruttuosi rapporti tramite l’amico Marcello Dell’Utri, che nel 1992-’93 s’inventò Forza Italia e ora sconta una condanna a 7 anni per mafia nel carcere di Parma, a qualche cella di distanza da Totò Riina. Un due volte presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ora senatore a vita, ha appena rifiutato di testimoniare nel quarto processo su una delle stragi da essa perpetrata, dove morirono il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della scorta (il primo processo fu depistato da uomini della polizia, che confezionarono ai giudici un pacchetto completo di falsi colpevoli per risparmiare quelli veri).

Il pm che sostiene l’accusa nel processo sull’ultima trattativa fra l’organizzazione e pezzi dello Stato, Nino Di Matteo, è stato condannato a morte dal Riina con un piano stragista giunto al trasporto dell’esplosivo a Palermo, ed è costretto a viaggiare su un bomb jammer, ma soprattutto a subire l’isolamento dalle istituzioni e dalla sua categoria, il dileggio dei pennivendoli berlusconiani e l’indifferenza di quelli “progressista”. Invece l’attuale ministro dell ’Interno Angelino Alfano, responsabile dell’ordine pubblico e della lotta al terrorismo, passa per il nuovo Kennedy (nel senso di JFK) per le intercettazioni ambientali in cui si sentono alcuni mafiosi augurargli una morte violenta per non aver abrogato il 41bis. Ora, il 41bis non è stato abolito non solo da Alfano, ma da tutti i governi succedutisi da quando fu istituito (decreto Scotti-Martelli, 6.8.1992). Ed è di competenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Perché, allora, i mafiosi vogliono farla pagare a quello dell’Interno Alfano? Perché essi stessi spiegano che, diversamente da altri, Alfano è stato “portato qua con i voti degli amici. È andato a finire con Berlusconi e poi si sono dimenticati tutti”. Cioè è stato eletto da loro e poi s’è scordato di loro. Ma di questo passaggio cruciale delle intercettazioni non c’è traccia nei titoli dei giornali e dei tg, così Alfano può tirarsela da martire ambulante che “rischia ogni giorno la vita per la lotta alla mafia”. Purtroppo i mafiosi dicono ben altro: più che come Kennedy, è come Salvo Lima.

Ora sostituiamo la parola “mafia” con “Isis” e proviamo a immaginare che accadrebbe, in un qualunque paese d’Europa, se si scoprisse che: un ex premier era iscritto all’Isis; un altro – tuttora leader del centrodestra – è amico dell’Isis e ha il suo braccio destro in galera per complicità con l’Isis; pezzi dello Stato hanno trattato con l’Isis per smettere di combatterla; l’ex presidente della Repubblica rifiuta di testimoniare al processo su una strage dell’Isis; e il ministro d el l’Interno è stato eletto dall’Isis e poi non s’è più fatto trovare. Dovrebbero tutti dimettersi e correre a nascondersi, per evitare la lapidazione. Invece, in Italia, l’Isis non ha (ancora) una sede né un indirizzo. Infatti i nostri eroi sono sempre andati sul classico, cioè su Cosa Nostra. Quindi tranquilli: siamo in buone mani.

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