Intravediamo già i tormentoni del voto 2018. Berlusconi: Di Maio è un ragazzetto senza esperienza, incapace di superare lo scoglio universitario. Renzi: se avesse vinto il sì nel referendum il paese sarebbe più forte. Di Maio: imbrogliano per scipparci la vittoria, vogliamo osservatori internazionali. E tutti sul voto utile (a sé) e quello sprecato (agli altri). Inoltre, una schiera di commentatori argomenterà più o meno dottamente che il paese è in condizioni precarie, con problemi di stabilità e governabilità, e che tutti i mali sono venuti, vengono e verranno dalla voglia di proporzionale. Ne sono responsabili politici, giuristi (ovviamente, incluso me), e persino istituzioni di garanzia come la Corte costituzionale (Fabbrini, Sole24ore, 26 novembre, mentre a mio avviso la Corte è stata di gran lunga troppo timida). È sotto accusa – per inconsapevolezza – anche il popolo sovrano.
Possiamo capire che Berlusconi, Renzi e Di Maio, dovendo vendere un prodotto, usino quel che trovano. Capiamo meno gli altri. Dimenticano più di vent’anni di sistemi elettorali a vario titolo maggioritari. Tale era il Mattarellum, con i suoi collegi uninominali. Tale era il Porcellum, con il famigerato premio di maggioranza. Tale sarebbe stato l’Italicum, e tale è infine il Rosatellum, che pure presenta una robusta correzione maggioritaria con il 36% di seggi uninominali. I mali del paese, veri o presunti, sono maturati in regimi più o meno maggioritari. E allora?
Sfugge anche il senso dell’esperienza di grandi paesi tradizionalmente considerati bastioni di stabilità e governabilità, con sistemi elettorali volti a favorirle. Primo fra tutti la Gran Bretagna, dove la May si aggrappa oggi per pochi voti a una improbabile alleanza. Ma anche la Spagna e la Germania cercano nuovi e difficili equilibri. E persino nella Francia del napoleonico Macron si sente qualche sinistro – si fa per dire – scricchiolio. Può essere giusta – ancorché banale – la notazione che il proporzionale funziona meglio nell’ambito di sistemi politici fondati su grandi partiti che si alternano al potere. Il punto decisivo è però un altro. Non è affatto vero che, quando il sistema politico si allontana da quel modello, il maggioritario sia da preferire al proporzionale. Per la ragione elementare che se si passa da un sostanziale bipolarismo a un effettivo multipolarismo non si può ovviare prendendo qualche frammento e gonfiandolo fino a renderlo maggioranza.
È appunto quel che faceva il Porcellum, e che avrebbe inteso fare l’Italicum, soprattutto nell’ispirazione originaria. Non si può perché non funziona. In GB, in Spagna o in Germania nessuno si è precipitato a cambiare il sistema elettorale, o ancor meno la Costituzione. L’emergere di inediti multipartitismi o multipolarismi riflette divisioni nella società, nell’economia, nella cultura, nelle convinzioni profonde, nelle paure, nella vita delle persone su questioni di diritti ed eguaglianza. Stabilità e governabilità non si perseguono perdendo il contatto con il paese reale, e obliterando quelle divisioni. E dunque si lavora con quel che c’è, cercando il miglior risultato possibile. Attraverso la politica. Nel match proporzionale vs maggioritario chi sceglie il primo pensa che stabilità, governabilità o buon governo esistono solo sulla base di un consenso reale, e non fittiziamente costruito sui numeri di assemblee poco o nulla rappresentative. Funziona meglio con partiti politici solidamente strutturati? Allora favoriamone la rinascita, con le scelte opportune e correggendo qualche errore. Ad esempio, quello sul finanziamento pubblico, di cui si sta evidenziando tutta la gravità.
Renzi di errori ne ha fatti a iosa. Rifletta. Il Rosatellum non garantisce – né potrebbe – maggioranze, governabilità, stabilità. Tutto si vedrà in parlamento, dopo il voto. La quota di collegi maggioritari stravolge dunque inutilmente la rappresentatività. E la stravolge in specie a danno del Pd, ancor più con l’aggiunta di sei seggi al Nord per l’emigrazione interna, con un vantaggio ulteriore per il centrodestra là probabile vincitore. Certo, Renzi ha un’alternativa: far benedire le sedi Pd. E se qualche vescovo e sacerdote inopinatamente rifiutasse, lo potrebbe sempre sostituire personalmente. Fioroni docet.