Questo incontro di Perugia “per il No allo stravolgimento della Costituzione” riunisce, in diversi Comitati, socialisti, cattolici, democratici, ex comunisti, partigiani, sindacalisti e dunque riproduce lo spirito stesso della Costituzione che nacque nel ’47 da un incontro di tante libertà diverse, unitesi per generare un popolo alla libertà.
È proprio questo pluralismo che ora è sotto accusa. Nel nuovo linguaggio fiorentino esso è definito “un’ammucchiata”; ed è questa ammucchiata che la nuova Costituzione insieme all’Italicum, avrebbe lo scopo di impedire, come ha detto Renzi parlando ai Coltivatori diretti a Milano, prima della sconfitta e ha ripetuto poi a La 7 e in ogni altra occasione, dopo la sconfitta. In questa propaganda del SI si sente tutto il fascino della legge Acerbo, del listone, degli editti bulgari, si sente l’orrore del politicamente diverso. L’idea è che ogni cinque anni, di lustro in lustro, un solo partito deve governare, un solo partito deve dominare il Parlamento, fare le leggi, scrivere la Costituzione, controllare i poteri, un solo partito deve invadere la televisione, decidere le guerre da fare; e siccome c’è la democrazia dopo cinque anni può forse venirne un altro, ma sempre da solo.
E questa è anche la vera ragione della cancellazione del Senato. La ragione è che il permanere del Senato costringerebbe chi comanda a dialogare con altre forze ideali e politiche, perché se questo confronto - grazie a una maggioranza schiacciante – lo si può evitare alla Camera, non lo si può evitare anche al Senato. Uno può fare una legge Acerbo, può fare una legge truffa, può fare un Italicum per una Camera, ma non lo può fare per tutte e due; allora è meglio abolire una Camera, è meglio invece di avere una democrazia intera avere una democrazia dimezzata, invece di avere una democrazia abbondante, cioè ricca delle idee, delle speranze e dei bisogni di tutti i cittadini, come volevano fare i costituenti del 47, avere una democrazia ridotta, una democrazia sfoltita. Ma il pluralismo, il dialogo, l’incontro tra forze diverse è il senso stesso della democrazia, è la condizione perché si faccia non il bene privato di qualcuno, ma si faccia il bene comune. Invece il pensiero che c’è dietro questa riforma è un pensiero nettamente reazionario: chi ha il potere lo deve avere da solo, non può perdere tempo a confrontarsi e a discutere con gli altri, fossero pure i membri del suo stesso partito: con quelli, ha detto Renzi ci vuole il lanciafiamme.
Ora bisognerebbe spiegare a questi fautori del governare da soli (che è il loro modo di concepire la “governabilità”) , che il lavorare con gli altri, lo stare insieme con gli altri non è di per sé un male; lo è se con gli altri ci si sta in modo falso, corruttore, non se ci si sta in modo aperto e leale. È un male se ci si sta come ora con Verdini, non come alla Costituente socialisti e comunisti stavano con i democristiani. Il male non è l’associazione, è l’associazione a delinquere.
Allo stesso modo solitario con cui è concepito il governo, la nuova Costituzione che ci viene proposta per rimpiazzare la prima, è il prodotto di un solo partito, non è l’espressione e il frutto di più pensieri, di più libertà. Il suo testo si è andato costruendo sotto l’imperio dei voti di fiducia, ed anche per questo è venuto scritto così male, sicché forse ne è uscita fuori la Costituzione più brutta del mondo (con diversi errori di grammatica e di sintassi costituzionale, dice un documento di “Città dell’uomo”, l’associazione di Lazzati). La nuova Costituzione si è fatta coi voti di fiducia: ma se il voto di fiducia è uno strumento legittimo nel rapporto tra Parlamento e governo, è del tutto illegittimo nel rapporto tra governo e Costituzione, perché il governo non è un potere costituente, è un potere costituito, e ha giurato alla Costituzione che c’è, non a quella che vorrebbe che ci fosse. Non può cambiarla d’autorità, usando arbitrariamente i poteri che la Costituzione gli ha dato. Perciò diciamo che la nuova Costituzione non è stata concepita nella libertà ed è stata votata nel ricatto.
Il ricatto è estorcere un comportamento sotto la minaccia di un male. Il male per un parlamentare è per esempio di essere rimosso da una commissione e poi essere escluso dalle liste dei candidati. Il male per un popolo è dirgli: se non votate la mia Costituzione vi pianto e vi lascio nei guai, con l’invasione dei profughi dal Mediterraneo, il debito aumentato, i patti leonini imposti da Bruxelles e gli americani che vogliono farci fare la guerra alla Libia. E’ vero che il ricatto è un’arma della politica: al vertice di Portorico nel giugno 1976 Francia, Germania, Inghilterra e Stati Uniti ricattarono l’Italia perché non facesse entrare i comunisti nel governo, poi Kissinger ricattò Moro perché si opponesse al compromesso storico, e abbiamo visto come è andata a finire. I poteri economici sempre ricattano quelli politici perché riducano i diritti e la Troika ha ricattato la Grecia togliendole perfino il pane; ma almeno la Costituzione dovrebbe essere libera dai ricatti, sia nei confronti dei parlamentari, sia nei confronti del popolo, altrimenti non è la Costituzione della Repubblica, è la Costituzione della mafia.
Ed ecco che ci sono duecentocinquanta intellettuali che voteranno SI alla riforma; però ci hanno tenuto a dire che sarà “un Si pacato”; ma essi dovrebbero sapere che è proprio quando il ricattato è pacato, che il ricatto funziona. Un Sì pacato è un Sì controvoglia, sembra frutto di un trascinamento, di un’autoflagellazione intellettuale, di un “vorrei ma non posso”, come si sono mostrati i Sì di Cacciari e di Benigni.
Con la Costituzione, come cristiani
Però non continuo su questo, perché il mio compito specifico qui è di spiegare, accanto alle ragioni degli altri, le ragioni per cui sono scesi in campo i cattolici del NO, le ragioni per cui siamo per la Costituzione anche come cristiani. .
Per aver fatto questa scelta ci sono alcuni, anche nelle comunità cristiane di base, che ci accusano di mischiare fede e politica; è un’accusa strana, se viene da loro: è come se non sapessero più che cos’è la fede e che cos’è la politica, neanche quella “alta” di cui parla papa Francesco; eppure abbiamo avuto gli stessi testimoni e maestri, don Milani, monsignor Romero, Marianella e i gesuiti uccisi nel Salvador, Turoldo, Balducci, Moltman, Metz, Bonhoeffer, i teologi della liberazione, per citare solo alcuni che al rapporto tra fede e politica hanno dedicato la vita; e molti la vita l’hanno perduta con la stessa umana grandezza, che sia quella cristiana di Moro, o quella socialista, che si ricorda il 10 giugno, di Giacomo Matteotti.
Tuttavia non voglio attardarmi in polemiche arretrate. Ciò che vorrei fare invece qui oggi è di aprire un altro capitolo. È un discorso importante da fare. Vorrei mettere in luce una straordinaria novità che è sotto i nostri occhi ma di cui ancora non ci accorgiamo. È una novità che riguarda l’annuncio del Vangelo e comporta una nuova lettura della fede e del suo rapporto con la storia, e perciò anche con la politica. Perché fare questo discorso in un’assemblea dove ci sono tanti socialisti? Lo faccio con il vostro permesso, se vi interessa, se pensate, come io credo, che un’altra narrazione della fede riguarda tutti, credenti e no. Vedremo poi che cosa c’entra questo con la Costituzione.
È finito il regime di cristianità
Affrontare la questione che voglio proporvi equivale a chiedersi che cosa sta succedendo con papa Francesco. E’ una domanda che di solito ci facciamo anche con protagonisti minori, tanto più possiamo farcela con papa Francesco. È una domanda da farsi perché è ormai chiaro che con Francesco un’epoca sta finendo anche se non si sa che cosa davvero comincia. Certo novità non mancano. Non si era mai visto che la porta santa si aprisse a Bangui in Centrafrica, prima che a Roma, e che ci fosse un cardinale ad Agrigento e a Perugia e non a Torino e Venezia. Che cosa succede?
Ciò che succede è che il papato romano riconosce e proclama lui stesso che è finito il regime di cristianità. Cristianità è una parola che mette insieme cristianesimo e società, cioè pretende che cristianesimo e società siano una sola ed unica cosa, facciano un sistema in cui è il cristianesimo che dà forma e legge alla società, non la società che interagisce e dialoga con il cristianesimo.
Per dirla con la Civiltà cattolica, la cristianità, è “quel processo avviato con Costantino in cui si attua un legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa”[1]; un processo che supponeva la Chiesa come la realizzazione stessa del Regno di Dio sulla terra, e quindi faceva della Chiesa la vera sovrana terrena.
Questa ideologia – che è anche una teologia – ha percorso i secoli, ed è arrivata di fatto fino a Giovanni XXIII e al Concilio Vaticano II, quando fu, salutarmente, abbandonata. Per questo il Concilio ha segnato una discontinuità. Però, come dirà Giuseppe Dossetti alcuni decenni dopo, lo stesso Concilio non era riuscito a venir fuori dal vecchio paradigma; esso “era stato tutto pensato ancora in regime di cristianità e supponendo sostanzialmente ancora un regime di cristianità, dal quale si è allontanato per poche cose”; anzi potrebbe essere stata proprio questa “la ragione profonda del suo arresto, della sua stasi nell’ordine dell’impulso reale dato al popolo di Dio e alle sue guide”[2]. Questo diceva Dossetti nel 1995. Ma adesso è il papato stesso che dichiara conclusa la stagione della cristianità, e coraggiosamente dà avvio a una nuova storia.
Quando questo è avvenuto? Naturalmente si tratta di un processo, ma si possono fissare delle date. Leggendo la Civiltà Cattolica si può dire che è avvenuto il 6 maggio scorso, quando il papa ha incontrato i leaders europei ed ha ricevuto il premio Carlo Magno. È questa l’interpretazione che ne dà la rivista dei gesuiti in un articolo del suo direttore Antonio Spadaro che esce con la data dell’11 giugno.
Carlo Magno è il simbolo supremo del regime di cristianità; il suo impero si chiamava Sacro Romano Impero, il suo regno si chiamava Santa Romana Repubblica. Nella notte di Natale dell’anno 800 egli venne in San Pietro per farsi incoronare dal papa, perché nel regime di cristianità era il papa il sovrano che, non riconoscendo alcun altro sovrano, dispensava corone e regni.
La Civiltà Cattolica, riprendendo una tesi che del resto già aveva sostenuto[3], spiega che Carlo Magno adempì al suo compito col tentativo di organizzare l’Occidente come uno Stato totalitario; ed è in rapporto e in contrapposizione a questo modello totalizzante che è nata e cresciuta l’Europa, l’Europa che amiamo; ed è a partire da ciò – potremmo aggiungere – che poi si è sviluppato il lungo conflitto tra la Chiesa e la modernità, che solo col Concilio Vaticano II è stato sanato.
Ebbene ricevendo il premio Carlo Magno, che i leaders europei inconsapevoli gli avevano portato, papa Francesco simbolicamente ha ritirato la corona che aveva messo sulla testa dell’imperatore, non per riprendere in mano il potere, ma per rimetterlo al suo posto, là dove il potere nasce, nel popolo, per restituirlo a Cesare, per sottoporlo al diritto, per affidarlo all’autonomia ma anche alla suprema responsabilità della politica; “si rifiuta così radicalmente – scrive padre Spadaro – l’idea dell’attuazione del regno di Dio sulla terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e di tutte le forme politiche e istituzionali similari, fino alla dimensione del ‘partito’ ”.
Dunque, si riparte dalla situazione originaria del Vangelo. Questa è la novità. Ed è in forza di ciò che, parlando all’ONU, per la prima volta il papa ha proclamato “il dominio incontrastato del diritto”, e ha rivendicato, d’accordo con le Costituzioni moderne, la divisione e la limitazione dei poteri, quella che in Italia è oggi messa a rischio. E questa è una liberazione anche per la Chiesa che, non più compromessa col potere, può tornare dai poveri, sempre dominati dal potere; e pertanto è una Chiesa che non si identifica più con la società tutta, ma si riconosce solo come una parte di essa, e per questo le può fare da ospedale e, come distinta da lei, le può offrire misericordia.
Perciò il papa, come egli stesso ha spiegato, non parla di radici cristiane dell’Europa perché le radici sono tante e la gloria dell’Europa è proprio quella di averle accolte, integrate e fatte crescere e fortificare insieme, sia che fossero cattoliche, o di altre Chiese cristiane, o non cristiane. E sarebbe oggi una gloria per l’Europa farsi città di rifugio per i fuggiaschi e gli scacciati di tutte le culture e di tutti i popoli, invece di farli morire, e ormai quattrocento alla volta su barconi da settecento, nel Mediterraneo.
La Costituzione non è vecchia, ha anticipato i tempi
Non si deve pensare però che l’uscita dal sistema di cristianità sia un processo facile e comporti solo una rinuncia al potere temporale della Chiesa. Uscire dal regime di cristianità vuol dire anche correggere le dottrine dipendenti da quella teologia. Per questo il papa è oggi duramente attaccato, anche in casa sua. È chiaro ad esempio che la dottrina del Grande Inquisitore, immortalata da Dostoewskij, deve essere abbandonata. Ma non solo. Lo stesso papa Benedetto XVI ha dato a suo tempo una lettura diversa da quella tradizionale nelle sue omelie sul peccato originale, e più di recente, già papa emerito, ha definito “in sé del tutto errata” la teoria anselmiana del sacrificio del Figlio inteso come riparazione pretesa dal Padre per l’offesa ricevuta a causa del peccato dell’uomo. Una teologia durata per secoli che si dichiara oggi del tutto errata. E una nuova immagine di Dio è stata affermata dalla Commissione Teologica Internazionale quando ha detto che il cristianesimo ha preso definitivo congedo da ogni idea di un Dio violento e vendicatore. Ma l’aggiornamento dottrinale è un processo difficile. Si è visto come sia stato difficile nel caso del matrimonio e come è difficile correggere le dottrine che contrastano con la misericordia, parola pressoché assente in tutto il magistero pontificio dell’800 e del primo ‘900, fino a quando è stata assunta come nuova opzione della Chiesa nel discorso di inaugurazione del Concilio di Giovanni XXIII.
La straordinaria impresa di papa Francesco è ora di uscire dalla cristianità senza perdere e anzi ritrovando il cristianesimo; ma il successo di questa impresa non è solo nelle sue mani né in quelle solo del clero, ma è nelle mani delle donne, di laici resi pienamente responsabili, e nelle mani della società tutta intera.
Che cosa c’entra tutto questo con la Costituzione?
C’entra perché la Costituzione del ’48 anticipa la fine della cristianità, e in ciò anticipa il Concilio, senza perdere il cristianesimo, e in ciò anticipa papa Francesco.
Anticipa la fine della cristianità, perché stabilisce un rapporto di alterità tra la società e la religione e istituisce un rapporto pattizio, di intese, e dunque di parità, non solo tra lo Stato e la Chiesa cattolica (all’art. 7), ma tra lo Stato e tutte le confessioni religiose (all’art. 8); e sarà poi il Concilio a riprendere la formula della Costituzione: “la comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo” (Gaudium et Spes, n. 76). Che poi su questo terreno la Costituzione sia stata malamente attuata, e possa essereew anche rivista, nbè un altro discorso e riguarda le nostre responsabilità di domani.. Inoltre la Carta anticipa la fine della cristianità perché nessun diritto o valore costituzionale è dedotto a partire dalla fede, nonostante la sollecitazione di La Pira che voleva aprire la Costituzione in nome della Santissima Trinità.
Però la Costituzione in molteplici modi, e proprio grazie anche all’apporto di culture e di storie diverse, marxiste, cattoliche, liberali, ritrova la forza sovversiva del cristianesimo. Il fatto che essa all’art. 1 dichiari la Repubblica fondata sul lavoro, realizza il rovesciamento cristiano dei servi in signori. Nella società signorile, dall’antichità fino all’età moderna, il lavoro era esclusivamente addossato al servo, e di fatto era un lavoro schiavo. Nemmeno il cristianesimo paolino era riuscito a ribaltare questa antropologia. Ma nella Costituzione il lavoro diventa sovrano. Altro che fine dei sindacati! Così, il fatto di mettere all’art. 2 i diritti inviolabili della persona umana, singola e associata, vuol dire che nulla può essere anteposto all’uomo, immagine di Dio; così, dire all’art. 3 che la Repubblica rimuove gli ostacoli, anche economici e sociali, che impediscono alla vita di realizzarsi come umana, vuol dire vincolare il potere non solo alla giustizia ma alla misericordia; c’è infatti un “pieno sviluppo della persona umana”, quale è voluto dalla Costituzione, che a una democrazia formale non interessa, ma che una democrazia sostanziale ha il compito di promuovere, con una politica che prenda a cuore la sorte di tutti, a cominciare dai poveri, in forza di quella solidarietà che è un altro nome della misericordia.
I cattolici sentono dunque la Costituzione come una cosa loro e vogliono anche come cristiani difenderla, perché essa ha anticipato la fine della cristianità senza perdere il cristianesimo.
Ma nulla di tutto questo sarebbe possibile se la Costituzione nella sua seconda parte, non approntasse gli strumenti della democrazia atti a realizzare i suoi obiettivi: elezioni, Parlamento, partiti, proporzionale sempre presupposta, fiducia, organi di garanzia, indipendenza della magistratura, democrazia diretta e quant’altro. Questa è la ragione per cui il progetto reazionario prende di petto la seconda parte, e lascia stare la prima, si vanta di dimezzare, tagliare e neutralizzare gli strumenti della democrazia e i soggetti della politica. Ed è proprio per questa ragione che noi col No al referendum dobbiamo impedirlo.
Ma non si tratta solo di salvare la Costituzione. Si tratta di attuarla, perché in questo senso è ancora una Costituzione di domani. E si tratta di attrezzarla per il futuro, con riforme non riesumate dagli scarti del passato, ma che guardino avanti, verso la nuova società da costruire. Pensate per esempio che cosa sarebbe una riforma che invece di fare un Senato delle regioni erede dei vecchi localismi, facesse un Senato dei popoli, in cui fossero rappresentate tutte le lingue e le etnie confluenti e residenti in Italia, comunitarie e non comunitarie, e facesse da laboratorio e da anticipazione per la pace del Mediterraneo e del mondo.[1] Antonio Spadaro, Lo sguardo di Magellano, L’Europa, Papa Francesco e il Premio Carlo Magno, in Civiltà Cattolica, 11 giugno 2016, II, pp. 477- 478.
[2] v. in Paolo Prodi, Giuseppe Dossetti e le officine bolognesi, il Mulino, Bologna 2016, pp. 139 seg.
[3] Antonio Spadaro, La diplomazia di Francesco, La misericordia come processo politico, in Civiltà Cattolica, 13 febbraio 2016, I, pp. 218-219.