Da Reggio Calabria è giunta la notizia che i simboli più emozionanti e conosciuti a livello internazionale dello sterminato patrimonio archeologico italiano, i Bronzi di Riace dovranno giacere ancora, almeno fino alla primavera del 2014 nelle sale inadeguate del palazzo della regione, dove languono dal dicembre del 2009.
E dove sono stati visti da un numero sempre più esiguo di visitatori, scesi dai 61mila del 2007 ai 36mila del 2009 mentre i tempi della conclusione dei lavori della nuova sede del museo della Magna Grecia, continuano a dilatarsi ovviamente insieme ai costi passati dai 10 milioni iniziali agli attuali 33.
Si potrebbe facilmente obiettare che si tratta di una notizia in senso molto relativo per il nostro paese e che di casi analoghi, dove sono protagonisti in negativo capolavori un po’ meno meno noti, se ne contano decine, come da anni ci aggiorna nei suoi articoli, libri e spettacoli da osservatore molto documentato Gian Antonio Stella.
Però il problema è proprio questo. Se si potessero cumulare le entrate perdute, senza tener conto dell’impatto positivo della bellezza su chi ha l’opportunità di venirne a contatto e di dedicarle anche pochi minuti di attenzione, nell’arco dei quarant’ anni che ci separano dal loro ritrovamento, quanto avrebbero potuto far incamerare allo Stato i bronzi di Riace?
Personalmente ho avuto la fortuna, da studentessa, di poterli vedere sia a Firenze che a Roma, circa trent’anni fa, con code di ore e tra lo stupore e la trepidazione di visitatori che venivano da ogni parte del mondo.
Poi per questi due eroi che palpitano vita e diffondono un’aura di grandiosa serenità che non è facile ritrovare genericamente nella statuaria coeva è cominciato un percorso superaccidentato, fatto di contese tra Catanzaro e Reggio Calabria, con un referendum che una decina di anni fa ne ha stabilito la sede. E recentemente hanno anche subito l’onta di una cosiddetta promozione della Regione Calabria dove venivano “animati” nelle vesti di due sottospecie di Rambo con effetti ridicolizzanti e volgari per coinvolgere non si sa bene quale tipo di pubblico e con i noti risultati.
La loro è una storia tra tante, solo più paradigmatica, che segna una linea di demarcazione insuperabile non solo tra noi e l’Europa o gli Usa, ma anche tra noi e i tanti paesi che hanno capito come la cultura e la bellezza siano la prima via d’accesso verso un futuro migliore.
Non a caso noi scendiamo costantemente nelle classifiche dei paesi più visitati, nonostante l’entità e la qualità del nostro patrimonio, come specularmente nella fruizione nazionale di beni culturali, come dimostra il meno 8% registrato a Roma nell’ultimo anno.
La bufala demenziale e offensiva che ‘con la cultura non si mangia’ sembra purtroppo condivisa non solo da chi nella nostra ‘classe politica’ ha dimostrato di mangiare da sempre più lautamente prodigandosi sul fronte degli affari e della devastazione del territorio. Ma anche da quelle amministrazioni locali, spesso di ‘sinistra’ che invece di promuovere e sostenere un’ offerta culturale elevata e competitiva nel tempo si concentrano e convogliano le sempre più misere risorse pubbliche sugli appuntamenti ‘spettacolari-mediatici’ di una notte e sulle sagre da strapaese con D.j. spacciate da eventi cult.
Il riferimento all’enfasi sulla Notte Rosa, con tanto di campagna pubblicitaria di dimensioni stratosferiche, e sulla Street Parade al molo di Rimini (post nubifragio e sempre senza sistema fognario) non è casuale.