La «misteriosa» vicenda dell’articolo 19 bis del decreto delegato in materia fiscale si attorciglia sempre più. Naturalmente ognuno affonda le mani nella materia a modo suo. A quelli del Movimento 5 stelle non pareva vero di avanzare l’ipotesi che Matteo Renzi abbia fatto tutto questo per favorire Tiziano Renzi, il padre, che come si sa qualche guaio finanziario ce l’ha. Ma non occorre spingersi sul terreno più che scivoloso di supposti interessi di famiglia in atti di governo.
Al di là della dietrologia spicciola, non c’è dubbio che il comportamento del presidente del consiglio è stato quantomeno strano. All’inizio pareva che nessuno sapesse nulla, neppure in quel di Palazzo Chigi. I sospetti al massimo raggiungevano qualche sottosegretario di solida e antica fede berlusconiana, transitato per l’occasione in altri lidi per occupare migliori posizioni di potere.
Anzi, il governo pareva pronto alla cancellazione immediata della norma. Poi Renzi ha fatto outing, rovesciando il tavolo e attribuendosi la responsabilità piena della furbata. Contemporaneamente, la riparazione prevista si è allontanata nel tempo, ingenerando nuovi sospetti anziché fugarli definitivamente.
Che dire di simili contorsionismi? A meno di supporre squilibri comportamentali, il che non ci piace, è naturale ricercare delle cause politiche. Non per nobilitare l’atto, che resta pessimo, ma per trovarci una qualche logica.
Se guardiamo le cose dal punto di vista della politique politicienne si può ben supporre che il famigerato patto del Nazareno non sia estraneo alla vicenda. O forse i suoi ancor più segreti corollari.
Poiché non è credibile che lo sherpa estensore manuale della norma non sapesse quali conseguenze la stessa avrebbe avuto sulle vicende giudiziarie-politiche di Silvio Berlusconi. Nello stesso tempo, l’assunzione di responsabilità pubblica di Matteo Renzi sembra dire al sodale che lui l’impegno lo ha rispettato, al punto di metterci impudicamente la faccia, ma le circostanze politiche gli hanno impedito – almeno per ora – di andare fino in fondo.
Neanche a Berlusconi conviene più di tanto alzare la voce sull’argomento. Il sasso è stato gettato, la manina ha un proprietario dichiarato, il cerchio dello stagno si sta allargando. Il Patto così è formalmente salvo e onorato, anche se la sua implementazione incontra difficoltà e ostacoli che il tempo potrebbe però lenire. Nello stesso tempo l’eventuale intesa – fosse anche di sola non belligeranza — sull’elezione del capo dello stato è tutt’altro che pregiudicata. Anzi un nuovo mattone si è aggiunto a fortificarla.
Se invece guardiamo l’intera vicenda dal punto di vista della sostanza che la norma della «modica quantità tollerata» di evasione fiscale ha investito, il quadro si fa assai più greve e pericoloso. Tanto da fare impallidire, al confronto, il do ut des tra Renzi e Berlusconi.
Quella «modica quantità» di evasione fiscale, che la gelida manina del premier ha inserito nel provvedimento, è molto più grave di tutti i condoni fiscali fin qui perpetrati dai vari governi. Compreso l’ultimo, maldestramente mascherato, sul rientro dei capitali. Poiché qui si tratta di scardinare uno dei principi fondanti su cui si basa qualunque stato liberale: quello del no taxation without representation. Anzi, quel principio viene completamente rovesciato nel suo opposto, ovvero: representation without taxation.
Se infatti la franchigia, ovvero l’esenzione dal pagamento delle tasse – altro rovesciamento che qui viene effettuato – anziché essere a tutela dei meno abbienti, viene apposta sulla quantità di imponibile che viene evaso, siamo completamente fuori da qualunque minimo sistema di giustizia e di efficienza fiscale. Se poi tale modica quantità di evasione viene calcolata non in termini assoluti ma percentuali, il famoso 3% come in questo caso, l’effetto di ingiustizia si moltiplica ancora di più.
Più è alto l’imponibile fiscale, più è ricco il cittadino in questione, maggiore diventa in termini reali la cosiddetta modica quantità di evasione che gli è permessa. Il 3% vale di più per lui mentre più grosso è lo sbrego alle maglie fiscali dello stato.
E’ su questo aspetto ben più grave che dovrebbe accentrarsi l’attenzione, e non solo sui retroscena politici.
Come si ricorderà, la fortuna del neoliberismo partì dall’attacco al sistema fiscale. La curva di Laffer di reaganiana memoria era questo. La stessa Forza Italia mosse in primi passi da qui.
Chi non ricorda il famigerato libretto di Giulio Tremonti e Giuseppe Vitaletti Le cento tasse degli italiani esibito con orgoglio in ogni talk-show televisivo? Era il 1986. Non tutto gli era finora riuscito. Ma con Renzi l’opera si compie.
Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare.