Venerdì notte, la Camera dei Deputati — senza le opposizioni che avevano abbandonato l’aula — ha modificato, nell’ambito della riforma della seconda parte della Costituzione, anche l’ex articolo 78, quello che norma le modalità della dichiarazione dello «stato di guerra».
Ora basterà, con la modifica approvata, un voto della Camera dei Deputati (e non più, anche del Senato), con la maggioranza assoluta dei componenti. Addirittura in una prima versione, il governo aveva previsto la maggioranza semplice, cioè dei presenti.
I deputati pacifisti avevano proposto che la maggioranza fosse qualificata, almeno dei due terzi. Visto che l’articolo 11 della Costituzione ci dice che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa», se questa deve essere dichiarata (evidentemente in casi eccezionali, estremi e solo per motivi di difesa dei confini), allora che sia una decisione il più condivisa possibile. I loro emendamenti sono stati bocciati.
Perché la modifica di venerdì notte è gravissima? Perché la riforma costituzionale è affiancata da una riforma elettorale (l’Italicum) che prevede il premio di maggioranza al partito vincitore delle elezioni. Il combinato disposto delle due riforme dà di fatto ad un partito politico (che potrà avere la maggioranza assoluta alla Camera anche con una maggioranza relativa dei voti dell’elettorato) il potere e la responsabilità di dichiarare lo «stato di guerra». Un’aberrazione.
Pare che questa modifica sia stata fortemente voluta dai vertici delle Forze Armate e dalle ministre Roberta Pinotti e Maria Elena Boschi, assistite dagli accademici molto «agguerriti» della Fondazione Magna Charta, quella di Gaetano Quagliarello, una cima del pensiero costituzionale.
Dal 1947 il Parlamento non ha mai dichiarato lo «stato di guerra», anche se di guerre — presentate come interventi umanitari e in nome dei diritti umani — ne ha fatte tante: Iraq, Kosovo, Afganistan e ora forse tra qualche giorno la Libia. Mai l’articolo 11 della Costituzione è stato così disatteso. L’ex articolo 78 era di fatto un articolo «simbolico», che dava comunque al Parlamento un ruolo per una decisione così drammatica: la riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi ha fatto di questo articolo il simbolo di un’altra cosa, la predominanza del governo sul parlamento.
Matteo Renzi sembra avere seguito le orme del vecchio Sidney Sonnino quando invocava: «Torniamo allo Statuto». Il vecchio Statuto Albertino infatti dava al Re il potere di dichiarare guerra. La modifica dell’ex articolo 78 di venerdì notte — similmente — dà questo potere al governo e al suo nuovo Re: il bullo fiorentino