QUANDO si ascoltano Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio e Virginia
Raggi promettere che, sì, lo stadio della Roma si farà, viene da pensare
che ci sia una maledetta linea d’ombra, nella vita pubblica italiana.
Quella linea è l’elezione a una carica pubblica.
QUANDO la varca, il cittadino subisce una mutazione radicale nel
linguaggio, nell’etica, nella scala delle priorità. Perfino nella
logica. Non è più un cittadino, ormai: diventa il pezzo di un potere
immutabilmente uguale a se stesso, chiunque lo incarni.
La città (non solo Roma) si è disfatta, è diventata invivibile, a tratti
mostruosa, perché si è smesso di pensarla e di disegnarla. Si è rotto il
legame tra la comunità degli uomini e la città materiale: la prima ha
cessato di immaginare e modellare la seconda. Il taglio delle finanze
locali, l’ignoranza e la corruzione delle classi dirigenti hanno
delegato a pochi grumi di interesse privato (palazzinari e banche, in
sostanza) lo sviluppo delle città, secondo questa logica perversa: “io
amministratore permetto a te speculatore di prenderti un pezzo di spazio
pubblico, se in cambio mi fai quei servizi, quelle urbanizzazioni,
quelle infrastrutture necessarie alla comunità che io non ho i soldi per
fare, né la voglia di pensare”. È la fine dell’urbanistica, e dunque la
fine della città pubblica. Questa abdicazione è stata compiuta
indifferentemente da destra e da sinistra. Un simbolo di questa
continuità perfetta è stata la figura di Maurizio Lupi: assessore allo
Sviluppo del territorio, edilizia privata e arredo urbano del Comune di
Milano nella giunta di Gabriele Albertini e poi ministro delle
Infrastrutture dei governi Letta e Renzi. La linea Lupi è quella della
Legge Obiettivo di Berlusconi del 2001: che resuscita, peggiorata, nello
Sblocca Italia di Renzi (e Lupi, appunto) nel 2014. Il motto delle due
leggi era lo stesso: “padroni in casa propria”. Parole che volevano
solleticare i cittadini, ma che di fatto descrivevano perfettamente le
figure di amministratori che si sentono padroni del territorio solo per
svenderlo ad interessi particolari. Un pensiero unico che tende ad
inghiottire tutti: basti pensare ad Enrico Rossi, che mentre si candida
a guidare il Pd e il Paese con idee socialiste, impone ai cittadini
della Maremma un’autostrada che essi non vogliono.
Ora è il turno dei 5 Stelle. In campagna elettorale il loro slogan
(sommario, ma efficace) era: riprendiamoci il governo della città. Non
come 5 stelle, come cittadini. Ed è su questo che hanno avuto il voto di
moltissimi romani di sinistra. La prima cosa che i vincitori avrebbero
dovuto fare una volta entrati in Campidoglio era dunque ritirare la
delibera 132/2014: quella con cui la giunta Marino aveva stabilito che
il progetto dello stadio — un progetto della Roma (la società, non la
città), che prevede un milione di metri cubi di cemento con destinazione
prevalente a uffici per ospitare multinazionali e attività commerciali —
fosse “di pubblico interesse”.
Era una battaglia difficile, ovviamente: una battaglia che si poteva
vincere solo spiegando molto chiaramente agli elettori la situazione,
chiedendo pubblicamente l’appoggio dei romani contro chi minacciava — e
minaccia — di mettere in ginocchio la città attraverso cause
miliardarie. D’altra parte, tutti sappiamo che per invertire la rotta
pluridecennale della privatizzazione delle città occorre una clamorosa
rottura della continuità: una rottura che affermi il primato della
politica e del bene comune sugli affari e sugli interessi privati. Ma è
successo tutto il contrario: e ora ci si viene a dire che lo stadio si
farà, vedremo con quante torri e quanta speculazione attorno.
I 5 Stelle vengono quotidianamente passati al microscopio da chi si
aspetta (o magari si augura) di poterli dichiarare uguali a tutti gli
altri nella corruzione. Ma quello che sta emergendo è qualcosa di
diverso, forse di peggiore. E cioè che essi rischiano di essere uguali
agli altri nella subalternità allo stato delle cose: in un difetto, e
non già in un eccesso, di radicalità. Perché chiunque varca quella
famosa linea d’ombra senza una visione, senza un progetto, senza sapere
quale città e quale politica vuole, non riuscirà a cambiare niente.
Anzi, ne sarà inesorabilmente cambiato.
l progetto dello stadio è un progetto della Roma (la società, non la città), che prevede un milione di metri cubi di cemento con destinazione prevalente a uffici per ospitare multinazionali e attività commerciali