Nel lungo processo seguito alla dissoluzione delle due granti componenti ideal politiche, quella democristiana e quella comunista, hanno prosperato tuttte le possibili forme di uso distorto della politica: dall'affarismo personalistico democristiano all'avventura dissipatoria di Bettino Craxi e dei suoi sodali, i veri inventori e iniziatori del sistema italico da basso Impero nel quale viviamo. Poi è arrivato Silvio Berlusconi, a sistematizzare con la sua forza finanziaria e mediatica e il carisma personale che è difficile disconoscergli l'uso in grande della politica a fini di potere personale e di copertura delle proprie innominabili turbe psichiche e morali.
C'è un filo diretto fra l'una e l'altra
scansione del triste processo? Certo che c'è, basterebbe esaminare con
attenzione le storie e i rapporti personali e le fortune pubbliche e
private di ognuno di questi protagonisti per rispondere
affermativamente. Se non lo rivelasse in maniera esplicita quel che
emerge vistosamente dai vari anelli di questa storia, ci avrebbe pensato
la potente struttura della massoneria deviata a fornirgliene una (e
oggi? mah, io no lo so, ma sarebbe interessante che qualcuno che se ne
intende se ne occupasse).
A questa fenomenologia di profondo degrado
politico e morale si sono accompagnati, e da un certo momento in poi si
sono profondamente intrecciati, due altri aspetti di eguale portata
storica. Il primo è rappresentato dal vasto consenso che, nella
latitanza di una politica alternativa seria, hanno riscosso le proposte
di una politica corrotta (sul molteplici piani) e affaristica.
Qui il
discorso dovrebbe calarsi sull'Italia: su ciò che l'Italia è o non è,
su ciò che avrebbe potuto essere e non è stata (dall'Unità nazionale in
poi, s'intende; ma in maniera più pressante dalla Resistenza fino ai
nostri giorni). Non possiamo dilungarci.
Basti qui rilevare che, nel
corso degli ultimi trent'anni, cui all'inizio alludevamo, le due sponde
del processo si sono avvicinate sempre di più: la politica corrotta ha
favorito l'emergere di una nazione infetta; la nazione infetta ha
manifestato un suo ampio consenso, e persino la sua gratitudine, alla
politica corrotta.
L'altro aspetto storico di notevole importanza è
di segno opposto. L'affermazione di una politica corrotta all'interno di
una nazione infetta ha incontrato un argine, forse superiore alle
previsioni, nell'applicazione delle leggi, cioè da parte,
essenzialmente, della magistratura. Ciò è accaduto sia nei primi grandi
casi di corruzione della politica (l'affarismo democristiano,
l'avventura socialistico-craxiana); sia, ancor più clamorosamente, nei
casi recenti riguardanti scelte personali, scelte affaristiche e scelte
politiche tout court di Silvio Berlusconi.
Questa resistenza ha avuto
un aspetto positivo e uno negativo. L'aspetto positivo riguarda,
appunto, la forza di resistenza di pezzi intieri dell'apparato dello
Stato, allevati nel culto della separazione dei poteri e dello Stato di
diritto, e non corrompibili (se lo fossero stati, no?, questa storia non
sarebbe nemmeno cominciata). L'aspetto negativo riguarda l'evidente
incapacità della politica, - quella sana, o presunta tale, - di
sottrarsi con le sue sole forze al ricatto della corruzione.
Per carità, nel lungo periodo di cui parliamo sono
stati Presidenti della Repubblica personalità come Ciampi, Scalfaro,
Napolitano: sarebbe certo un errore ridurre tutta la storia politica
italiana alla tabula rasa, che comunque, a vederne le conclusioni, si
direbbe la sua vera sostanza. Forse sarebbe più esatto dire che a
opporre un argine con gli argomenti giusti non sono riusciti e spesso
non hanno neanche pensato i gruppi dirigenti dei partiti democratici,
che avrebbero invece dovuto farne la loro principale missione (anche da
qui si dipartirebbe un troppo lungo discorso, che faremo un'altra volta,
ammesso che ce ne sia ancora l'opportunità).
Richiamo queste poche e
piccole cose, che tutti conoscono ma pochi ricordano, per dare maggior
forza alle mie argomentazioni successive. Ciò di cui oggi parliamo non
nasce a caso, ha radici profonde. Le mezze misure non bastano più, gli
accomodamenti fanno ancora più male. Dico questo perché penso che quel
che è avvenuto in queste ultime settimane e in questi ultimi giorni nel
nostro paese non costituisca una scoperta improvvisa, una novità
sorprendente, ma un punto di non ritorno. Dalla direzione che ora
s'imbocca dipende tutto il resto.
Silvio Berlusconi è stato
condannato in via definitiva per frode fiscale. Quello che, su questa
legittima e ormai incontestabile sentenza, egli è riuscito a costruire
seduta stante ha tutti caratteri di una manovra eversiva contro la
separazione dei poteri e contro lo Stato di diritto, cioè contro la
nostra democrazia. Non ci sono parole per descrivere ciò che ha detto
nel suo messaggio televisivo. Non ci sono parole per descrivere il senso
dell'appello alla piazza nei dintorni della sua principesca abitazione
romana, e il fatto medesimo che esso sia stato possibile e si sia
realizzato.
Siamo cioè di fronte a un pregiudicato che per salvarsi, e
persino per rilanciarsi, fa appello alla folla, cioè all'indeterminato
più incontrollabile della volontà popolare (per un gioco della sorte
Palazzo Venezia è a due passi), per dire che le regole del gioco son
quelle che lui ha inventato e pratica per sé. Anche un bambino capirebbe
che la sua dichiarazione di lealtà al Governo Letta non è che una
copertura al suo gioco eversivo. Tengo in piedi il Governo, a patto che
mi riconosciate l'impunità.
Questo gioco va immediatamente
contrastato e sconfitto. Io, che sono un moderato fra gli estremisti,
dico che in questo momento la questione decisiva non è quella della
sopravvivenza del Governo Letta. La questione decisiva è la difesa della
libertà repubblicana. Questa è la linea del Piave delle istituzioni,
del Parlamento e dei partiti «sani», che su questo punto devono
dimostrare se la loro «sanità» è vera o solo presunta. Sono gli altri, i
«berluscones», che devono accettare la difesa della legalità a tutti i
costi, se vogliono tenere in piedi il governo; non viceversa, come,
ahimè, cercheranno in tutti i modi di motivare e fare (e non solo loro,
ma anche altri).
La difesa della legalità repubblicana consiste del
resto in questo momento in tre semplici cose: 1) l'applicazione in tutti
i suoi modi e forme della sentenza; 2) la decadenza ipso facto - cioè,
anche qui, pura e semplice - del condannato dal suo seggio parlamentare;
3) la moltiplicazione urbi et orbi di tutte le voci disponibili
(istituzioni, Parlamento, politica) a favore della legalità repubblicana
e di condanna esplicita e senza riserve delle molteplici, infami
dichiarazioni dei sostenitori del Capo contro la magistratura e a favore
della sovversione (serve fare esempi?).
Un ruolo importante, anzi
decisivo, è destinato a svolgere in questi frangenti il Presidente
Napolitano. Come lui sa meglio di chiunque altro, la difesa della
legalità repubblicana non tollera né mediazione né sconti:
paradossalmente, come già dicevo, è perciò più semplice, c'è solo da
tener ferme le regole, e difenderle contro gli attacchi forsennati cui
sono sottoposte.
Chiedo, chiediamo al Presidente Napolitano di farsi
garante della corretta e totale applicazione della sentenza della
Cassazione, con tutte le necessarie e inevitabili ricadute. Chiedo,
chiediamo, al Presidente Napolitano che vada in televisione a dire, con
uno di quei suoi discorsi semplici e diretti di cui è capace, che a
nessuno è consentito di evocare e sollecitare lo scontro con lo stato di
diritto e contro la separazione dei poteri, e che la campagna eversiva
suscitata da Silvio Berlusconi e dai suoi amici in questi giorni non è
tollerabile, è anch'essa un reato, che replica un reato.
La crisi
delle democrazie in Europa nel corso del Novecento, e segnatamente in
Italia, sono state sempre favorite dalla debolezza delle classi
dirigenti e dalla loro incapacità di segnalarne la progressiva avanzata.
Il rischio che la democrazia fosse travolta in genere è stato segnalato
ventiquattro ore dopo che sera stata travolta (così come il più delle
volte coloro che ne segnalavano il rischio sono stati accolti dalle
risate e dal dileggio dei contemporanei). L'Italia, come sempre, è un
paese speciale. In Italia oggi il rischio della catastrofe della
democrazia non consiste nel colpo di Stato (di cui peraltro, il nostro
personaggio, se ce ne fosse bisogno, sarebbe capace). Consiste in una
cosa anch'essa più semplice, e in fondo più lurida, e cioè nella pratica
cancellazione e dissoluzione delle regole e dei valori che la
sovraintendono e la rendono possibile. Questo rischio oggi è
assolutamente reale: non a caso il pregiudicato invoca come prima
riforma la riforma della giustizia, con lo scopo, ora e sempre, di
mettersi al riparo dai rischi della sua applicazione.
O lo si ferma
prima che questa soglia sia varcata: oppure tutto il resto, - governo e
governance, riscatto possibile dei partiti democratici dalla loro
subalternità, ricostruzione del rapporto etica-politica - sarà perduto.
Chi sottovaluta è complice. Solo chi è consapevole di questo, e agisce
di conseguenza, può ricominciare.