C’era bisogno di un segno – formale e sostanziale – da parte del Movimento 5 Stelle. Un segno di alterità rispetto alla Lega di Salvini e alla destra, ma anche e soprattutto di cambiamento rispetto alle politiche del lavoro degli ultimi anni, votate a una flessibilità che si è trasformata in precarietà e con lo sguardo rivolto più agli imprenditori che ai lavoratori. Un segno che è arrivato con il decreto Dignità.
Non è certo la panacea di tutti i mali, né il “licenziamento del Jobs Act” ventilato, ma è sicuramente un buon inizio, una positiva inversione di tendenza rispetto alla gestione del mercato del lavoro recente, che ci hanno “regalato” gli ultimi dati Istat. Alla faccia dei festeggiamenti renziani, il tasso di disoccupazione italiano a maggio è ancora a 2 cifre – 10,7% – contro un’eurozona all’8,4%, peggio di noi fanno solo la Spagna e la Grecia; l’occupazione in compenso è sempre più precaria: quasi il 95% dei nuovi occupati dell’ultimo anno – 434 mila su 457 mila – è a termine. E questo dopo aver speso decine di miliardi in incentivi per le assunzioni stabili e tolto diritti ai lavoratori (art. 18). Senza pesare sui conti, con il decreto si dà finalmente una stretta salutare ai contratti a termine, ridotti da 5 a 4 rinnovi possibili in 36 mesi, con l’aggiunta di contributi e causali per scoraggiarne l’uso, e si aumenta del 50% l’indennizzo per i licenziamenti illegittimi, che ora può arrivare fino a 36 mesi di stipendio (un anno in più rispetto a oggi per il lavoratore, un deterrente in più per l’imprenditore a licenziare ingiustamente).
Aumenteranno i contenziosi? Beh, allora vuol dire che si dovrà verificare se qualcuno ne ha approfittato, mentre “chi è onesto non tema” come ha detto il premier Conte. Vale la pena ricordare come solo i ripetuti contenziosi (persi) abbiano indotto in passato molte aziende a regolarizzare schiere di precari. E non sono forse giuste le multe salate (fino a 4 volte quanto ricevuto dallo Stato) per le aziende che delocalizzano dopo aver incassato aiuti pubblici? E combattere la ludopatia vietando la pubblicità per gioco d’azzardo e scommesse, come peraltro già si fa per le sigarette? Eh, ma si perderanno un sacco di soldi. Si ha una vaga idea dei costi abnormi – economici, sanitari, sociali – del vizio del gioco, esacerbato dagli anni di crisi? Infine le semplificazioni fiscali, che non saranno le abolizioni promesse di spesometro, redditometro, studi di settore, split payment, perché qualcosa è già stato fatto e di più avrebbe creato problemi di coperture. Ma almeno si prevedono degli slittamenti (spesometro da settembre a febbraio) e il blocco dello split per i professionisti, che daranno un po’ di ossigeno ai contribuenti onesti (sperando che i disonesti non si freghino le mani).
Insomma: un decreto che non è il migliore dei mondi possibili, ed è sicuramente perfettibile, ma altrettanto sicuramente è il provvedimento sul lavoro più di sinistra visto negli ultimi anni. Come dimostrano il plauso di Camusso, Landini, Speranza e i malumori dell’alleato Salvini. Passare dalla parola d’ordine “flessibilità” a “dignità” è un colpo di scena in cui molti non speravano neanche più (sperando ovviamente che il Parlamento non lo cambi in peggio…).