Chi oserebbe negare che nella “età dei diritti”, che diciamo essere la nostra e che ha proclamato la felicità non come compito morale dell’uomo virtuoso, secondo l’etica antica, ma niente di meno che come diritto universale: chi oserebbe negare che la povertà, l’analfabetismo, la schiavitù, la violenza, le persecuzioni, la tortura, le sparizioni dei non integrati e degli oppositori, le migrazioni forzate, l’ammassamento di milioni di persone in slum e bidonville, lo sfruttamento, le desertificazioni, siano oggi diffusi su larga scala e, sommandosi, colpiscano innocenti in misura che forse mai si è conosciuta in passato? Oppure, chi potrebbe non vedere che la fame e la denutrizione ogni anno condannano milioni di persone a morti anonime e miserabili, in un olocausto che nessuno ha mai calcolato e che, probabilmente, non ha precedenti? È uno scempio di vite, di culture, di dignità che colpisce in massa innanzitutto neonati e bambini che talora si fanno sopravvivere per essere cavie o produttori di organi; uno scempio al tempo stesso scandaloso e fisiologico, in un mondo in cui quelle estreme privazioni di diritti funzionano nel contempo come valvole di sfogo e come condizioni che alimentano le sue contraddizioni.
Quando “i governi e i grandi esperti e i politici sorridenti e le fondazioni miliardarie” si dedicano a discutere la fame e le sue cause, finiscono sempre per concentrarsi su fattori oggettivi, fuori della portata d’ogni intervento politico strutturale, come i disastri naturali, l’ambiente impoverito, il cambiamento climatico, le guerre dovute a crisi alimentari, l’insufficienza di aziende agricole nei Paesi più poveri, la corruzione dei loro governi. Solo “i più audaci” parlano della speculazione finanziaria che fa salire alle stelle i prezzi dei generi alimentari e dei farmaci, causando carestie ed epidemie; delle politiche neocoloniali per il controllo delle risorse energetiche; dello sfruttamento illimitato delle risorse naturali; della colossale massa di investimenti dirottati dai fini d’interesse generale alla ricerca e alla produzione di armi.
La dimensione di questo fallimento dell’umanità documentata dai fatti, dagli atti, dai numeri. Come si fa a convivere con i dati di questa catastrofe che possiamo trovare, per esempio, in un libro recente che è una sorta di atlante della fame nel mondo (M. Caparrós, La fame, Einaudi, 2015)? Noi della parte di mondo dei privilegiati conviviamo abbastanza sereni, e lo facciamo ogni giorno, con qualche premio letterario dato agli autori delle denunce, con qualche servizio giornalistico e con qualche documentario: mezzi che servono più ad assuefare isolando i drammi nel vasto e innocuo campo delle lettere e delle immagini, che a scuotere la coscienza mondiale che si appaga contemplando i suoi diritti, anzi la sua “cultura dei diritti”. La letteratura nutre gli intelletti, ma la pratica e, soprattutto, i governanti che praticano il potere, della letteratura non sanno che cosa farsene. Sono negati elementari diritti umani, ma chi oserebbe dire che i grandi discorsi, le proclamazioni, i trattati, i convegni, hanno cambiato il corso della storia e hanno reso migliore la vita dell’umanità?
Michel Villey, il filosofo del diritto neo-aristotelico, critico “da destra” della moderna retorica dei diritti, ha osservato ironicamente che, per ottenere finanziamenti, nulla è più efficace che un progetto di ricerca o un simposio internazionale sui diritti umani e sulla ultima scoperta (anzi: riscoperta): il diritto alla felicità. Per ricominciare, subito dopo, sempre di nuovo da capo. I diritti umani non hanno giovato a tutti nello stesso modo; anzi, hanno giovato ad alcuni, i pochi, a danno degli altri, la moltitudine. Non ci hanno dato un mondo che tutti, nemmeno la maggioranza degli esseri umani, possano riconoscere come migliore.
La domanda alla quale queste pagine ambiscono ad abbozzare una risposta è nella alternativa seguente. La causa di questo mondo detestabile è da cercare presso presunti nemici dichiarati dei diritti, che del resto sarebbero difficili da individuare, e quindi in un dato esteriore ai diritti, cioè nella loro attuazione difettosa, onde il rimedio debba cercarsi nel loro potenziamento? Oppure, la causa è diversa ed è intrinseca alla concezione stessa dei diritti, in un mondo come l’attuale, che si rivela sempre piú piccolo e complesso, non nel senso di complicato ma nel senso etimologico (da plexus e complector) di totalità dove ogni parte sta in rapporto di interdipendenza con ogni altra parte?
Questo nostro mondo è tenuto insieme da forze attrattive centripete potenti. Paradossalmente, la rivendicazione di diritti, invece che promuovere diversità e diversificazione, spinge all’uniformità e all’omologazione. Sembra libertà, ma è diversificazione funzionale. Ciò che è disfunzionale è messo ai lati, destinato all’oblio o, nel migliore dei casi, a essere notato o magari ricordato come espressione di eccentricità e stravaganza. Un breve scritto del 1957 di Karl Polanyi, che porta un titolo particolarmente congruo rispetto ai temi trattati qui di seguito – La libertà in una società complessa – si conclude con queste parole, oggi più drammaticamente attuali di allora: “È illusorio in una società complessa immaginare di poter perseguire la propria libertà come salvezza personale senza fare riferimento alla partecipazione alla società stessa. Le forze spirituali pronte a prendere la successione nelle nostre vite personali sono oggi disperse in una lotta donchisciottesca contro la realtà della società. Il coraggio morale rivelerà i limiti interni del progresso tecnologico e della libertà. La ricerca dei limiti è maturità”. Il che sembra voler dire, in un testo che non è più che un appunto sommario soggetto a interpretazione, che la libertà e i diritti che la alimentano devono essere guardinghi (“i limiti”), proprio per poter essere se stessi e non essere travolti con la loro propria complicità.