Sul Disegno di Legge di Stabilità sono arrivate, puntuali, le critiche sullo scarso coraggio del Governo verso "il Leviatano della spesa pubblica improduttiva", "la spesa pubblica italiana fuori controllo", "l'enorme spesa pubblica italiana rispetto alla media europea". La delusione di commentatori, leader politici, sindacali e imprenditoriali era inevitabile, data la valanga di propaganda fatta da anni sulla nostra spesa pubblica non soltanto dalla destra e dai presunti esperti (primeggiano per disinvoltura analitica Alesina e Giavazzi dagli editoriali del Corriere della Sera), ma anche dai "riformisti coraggiosi" della sinistra subalterna al neo-liberismo.
Come stanno le cose? Il Grafico 1 descrive la spesa pubblica corrente, primaria, pro-capite dell'Italia (spesa totale, senza sepsa in conto capitale e senza spesa per interessi sul debito): è tra le più basse dell'Unione europea (dati deflazionati al Pil, anno base 2005: 9.624 euro a residente vs 12.062 della Germania, 13.840 euro della Francia, 10.928 del Regno Unito), con minore tasso di crescita rispetto agli altri, anzi da tre anni in riduzione in termini reali e nominali (si veda G. Pisauro, Rapporto di Finanza Pubblica, Il Mulino 2013).
Il Grafico 2 riporta la spesa pubblica sanitaria pro-capite, altro bersaglio quotidiano di quelli che invocano lo shock per la crescita: non soltanto tra le più basse dell'Unione europea (1729 euro vs 2.111 della Germania, 2.292 della Francia e 1.940 del Regno Unito), ma stabilizzata e in riduzione, nonostante l'impennata di ultra-sessantacinquenni, quando per gli altri partner europei gli aumenti sono cospicui.
Infine, il Grafico 3 mostra la spesa pubblica pro-capite nella scuola: qui siamo ultimi (996 euro vs 1.276 per la Germania, 1.679 per la Francia, 1.576 per il Regno Unito), lungo un trend di chiara contrazione.
Va sottolineato inoltre, che le previsioni a legislazione vigente contenute nell'ultima Nota di aggiornamento al DEF (settembre 2013) indicano nel 2013 una spesa in continua contrazione: circa 3 punti percentuali di Pil dal 2013 al 2017. I dati di realtà richiamati sono coerenti con un ulteriore taglio di 50 miliardi all'anno della spesa pubblica italiana da più parti richiesto per finanziare il taglio del cuneo fiscale? In 3 anni, è tecnicamente impossibile. In un arco temporale più lungo (almeno un decennio)? Certo che è possibile, ma bisognerebbe avere il coraggio intellettuale e politico di smetterla con la retorica degli "sprechi" e dire la verità: tagliare 50 miliardi all'anno vuol dire intervenire brutalmente sulle condizioni di vita delle persone con minori opportunità e, soprattutto, le classi medie. Vuol dire: eliminare il servizio sanitario pubblico universale; ridurre di almeno un milione di unità i dipendenti pubblici (dopo una contrazione di oltre 300.000 unità nel decennio alle nostre spalle); svuotare di ogni capacità formativa e di minimale promozione sociale la scuola pubblica.
Al di la degli effetti sociali devastanti, minore spesa pubblica, data la situazione dell'Italia, vuol dire minor potere d'acquisto delle famiglie e minori fatturati delle imprese. Quindi, minori consumi e minori investimenti. Quanti continuano a insistere sugli effetti espansivi dello scambio minori spese-minori tasse dovrebbero sapere che il moltiplicatore della spesa è molto superiore al moltiplicatore delle imposte, soprattutto in una fase recessiva, segnata dalle difficoltà di accesso al credito: secondo una recente ricerca dell'IMF sui G7 (Baum, A. Poplawski-Ribeiro, M. e Weber, A. "Fiscal multipli ars and the state of the economy", n. 12/286) un taglio di spesa di 1 euro ha un impatto recessivo di 1,34 euro, mentre una riduzione di imposte di un euro implica un effetto espansivo di 0,35 euro. In sintesi, un taglio di spesa accompagnato da una corrispondente riduzione di tasse determina un effetto recessivo di pari importo. In altri termini, continuare a affrontare i problemi secondo il paradigma neo-liberista significa aggravarli. Dopo anni di austerità distruttiva dovrebbe essere chiaro. Invece, l'ideologia e la miopia degli interessi più forti va avanti senza se e senza ma.
Allora, non si può fare nulla sulla spesa? Si può e si deve fare di più. Ma a partire dai dati di realtà. Non si deve tagliare. Si deve riqualificare e riallocare la spesa attraverso piani di riorganizzazione industriale a ogni livello di amministrazione, preceduti o accompagnati da una revisione del Titolo V della Costituzione. Obiettivi ambiziosi da perseguire nella consapevolezza che alcuni programmi di spesa dovrebbero trovare sinergie nell'Unione europea (a es. difesa e sicurezza, ricerca e innovazione, cooperazione internazionale), mentre altri devono riceve maggiori risorse, come la scuola pubblica, oramai allo stremo, e le politiche sociali, dal sostegno all'inclusione attiva agli interventi per la non autosufficienza, esangui.
Come arrivare alla necessaria riduzione delle tasse? La via strutturale per l'Italia passa per una "Maastricht dell'evasione fiscale". La nostra evasione fiscale è la vera anomalia rispetto all'Unione europea: siamo al doppio della media degli altri. L'allineamento alla media europea, ossia una riduzione dal 17-18% al 8-9% del Pil, vale 50 md. È un operazione difficilissima, da fare non soltanto attraverso la promozione dell'adempimento spontaneo e i controlli, ma con le politiche adeguate per contrastare le cause profonde dell'"evasione di sopravvivenza".
E lo shock invocato da imprese e sindacati per la ripresa? Anche qui, inutile farsi illusioni. Nel quadro delle politiche macroeconomiche vigenti nell'euro-zona, è impossibile una ripresa in grado di invertire il trend dell'occupazione. Semplicemente non è nella disponibilità di questo come di nessun altro governo nazionale. Lo scenario davanti a noi, nonostante la professione di ottimismo delle previsioni ufficiali sempre smentite dai dati effettivi, è di stagnazione e di rischi sempre più elevati per la sostenibilità del debito pubblico. La rotta mercantilista, ossia l'inseguimento della crescita via export, perseguita attraverso la riduzione del costo del lavoro (riduzione del cuneo fiscale oltre che il contenimento delle retribuzioni nette), non può funzionare. Per una ragione algebrica: è impossibile che tutti i Paesi euro possano crescere via esportazioni. Affinché le esportazioni siano assorbite, qualcuno deve importare. L'euro-zona è troppo grande e (ancora) troppo ricca per trovare adeguata domanda esterna.
Per promuovere una ripresa significativa, è necessaria un'inversione di rotta nella zona euro e puntare alla domanda interna europea. Quindi, golden rule nei bilanci nazionali per alimentare investimenti produttivi autorizzati dalla Commissione europea, in particolare nel settore edile a massimo moltiplicatore interno; unione bancaria per sganciare i rischi di solvibilità delle banche dai rischi del debito sovrano; innalzamento del tasso di inflazione programmato; euro-project bonds per finanziare infrastrutture materiali e immateriali nazionali e europee e invertire i trend divergenti di produttività; aumento della domanda nei Paesi in avanzo commerciale (come la Spd intende fare attraverso l'introduzione di un salario minimo decente in Germania); introduzione di standard sociali e ambientali per movimenti di capitali e di merci e servizi. Il singolo Paese dell'euro-zona continua a pensarsi e a agire come fosse una piccola economia aperta. Invece, insieme nella moneta unica, sono una grande economia chiusa.
Sono obiettivi eterodossi rispetto al mainstream, non più egemone ma ancora dominante. Sono discussi da FMI, dalla cultura liberale pragmatica, inseguiti negli Stati Uniti. È un dibattito proibito dai miopi conservatori europei e parte delle tecnostrutture al seguito. In particolare in Italia, dove i soggetti più forti continuano a interpretare i loro legittimi interessi secondo un paradigma insostenibile. Così, l'iceberg dei populismi regressivi di fronte al "Titanic Europa" è inevitabile.