Noi, latino-americani, siamo esperti in crisi. Non perché saremmo più intelligenti degli altri, ma perché le crisi le abbiamo subite tutte. E le abbiamo gestite malamente, in modo terribilmente sbagliato, perché avevamo una sola priorità: difendere gli interessi del capitale, anche a rischio di far precipitare il subcontinente in una lunga crisi debitoria. Oggi con preoccupazione osserviamo l’Europa seguire a sua volta il medesimo cammino.
Negli anni ’70 i Paesi latino-americani
sono entrati in una situazione di indebitamento intensivo con
l’estero. La storia ufficiale afferma che questa situazione è il
risultato di politiche portate avanti da governi «irresponsabili»
e di squilibri accumulati a causa del modello di sviluppo adottato
dal subcontinente dopo la guerra: la creazione di un’industria in
grado di produrre localmente i prodotti importati, ovvero
«industrializzazione come sostituto delle importazioni».
Questo
profondo indebitamento, di fatto, è stato promosso – e perfino
imposto – dagli organismi finanziari internazionali. La loro
pretesa logica voleva che, grazie al finanziamento di progetti ad
alta redditività, che all’epoca abbondavano nei Paesi del Terzo
Mondo, si sarebbe approdati allo sviluppo, mentre il rendimento di
questi investimenti avrebbe permesso di rimborsare i debiti
contratti.
Tutto questo è durato fino al 13 agosto 1982,
quando il Messico dichiarò la propria incapacità di fare fronte
alle scadenze. Da allora tutta l’America latina ebbe a soffrire la
sospensione dei prestiti internazionali, contemporaneamente al
brutale aumento dei tassi d’interesse sul suo debito. Prestiti che
erano stato contratti al 4% o al 6%, ma con tassi variabili, hanno
improvvisamente raggiunto il 20%. Mark Twain diceva: «Un
banchiere è qualcuno che vi presta un ombrello quando il sole
splende e che se lo riprende quando comincia a piovere…».
La
nostra crisi del debito è cominciata così. Durante il decennio ’80,
l’America Latina ha effettuato un trasferimento netto di risorse ai
suoi creditori di 195 miliardi di dollari (quasi 554 miliardi di
dollari al valore attuale). Allo stesso tempo il debito estero
dell’intera Regione passava quindi da 223 miliardi di dollari nel
1980 a… 443 miliardi di dollari nel 1991! Non già a causa di nuovi
crediti, ma per il rifinanziamento e l’accumulo degli
interessi.
Di fatto il subcontinente ha visto concludersi il
decennio 1980 con gli stessi livelli di reddito per abitante degli
anni ’70. Si parla di un «decennio
perduto» per lo sviluppo.
In realtà perduta fu un’intera generazione.
Benché le
responsabilità fossero condivise, i Paesi dominanti, le burocrazie
internazionali come il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca
Mondiale e la Banca interamericana per lo sviluppo, come beninteso
anche le banche private internazionali, hanno sintetizzato la
situazione come un problema di indebitamento eccessivo degli Stati
(overborrowing). Mai si sono assunti la loro responsabilità
nella concessione irragionevole di crediti (overlending),
ovvero per l’altra faccia della situazione.
Le pesanti crisi
di bilancio e d’indebitamento esterno causate dal trasferimento
netto di risorse dell’America latina verso i suoi creditori hanno
portato un buon numero di Paesi della Regione a redigere «lettere
d’intenti» dettate dal
FMI. Questi accordi impegnativi permettevano di ottenere prestiti da
parte di quell’organizzazione, come pure garanzie per la
rinegoziazione dei debiti bilaterali con i Paesi creditori, riuniti
nel Club di Parigi.
Carenza di dirigenti e d’idee
I
programmi di adeguamento strutturale e di stabilizzazione hanno
imposto le prescrizioni di sempre: austerità di bilancio, aumento
del prezzo dei servizi pubblici, privatizzazioni, ecc. Altrettante
misure attraverso le quali non si cercava di uscire al più presto
dalla crisi, né di alimentare la crescita o l’occupazione, ma di
garantire il rimborso dei crediti delle banche private.
Alla
fine dei conti, i Paesi colpiti erano sempre indebitati, non più con
questi istituti, ma con gli organismi finanziari internazionali, che
proteggevano gli interessi delle banche.
All’inizio degli
anni ’80 un nuovo modello di sviluppo ha iniziato a imporsi
nell’America latina e nel mondo: il neoliberismo. Questo nuovo
accordo sulla strategia di sviluppo è stato soprannominato «accordo
di Washington», poiché i
suoi principali progettisti e promotori erano gli organismi
finanziari e multinazionali la cui sede si trovava a Washington.
Secondo la logica in voga la crisi in America latina era dovuta a un
intervento eccessivo dello Stato nell’economia, all’assenza di un
adeguato sistema di prezzi liberi e all’allontanamento dei mercati
internazionali – sottintendendo che queste caratteristiche
derivavano dal modello latino-americano d’industrializzazione
mediante sostituzione delle importazioni.
Come conseguenza di
una campagna di marketing ideologico senza precedenti, mascherata da
ricerca scientifica, e di pressioni dirette esercitate dal FMI e
dalla Banca Mondiale, la Regione è passata da un estremo all’altro:
da diffidenza verso il mercato e fiducia eccessiva nello Stato al
libero scambio, alla de-regolazione e alle privatizzazioni.
La
crisi non è stata soltanto economica; è il risultato di una carenza
di dirigenti e d’idee. Abbiamo avuto paura di pensare per conto
nostro e abbiamo accettato in modo tanto passivo quanto assurdo i
diktat stranieri.
La descrizione della crisi che ha
attraversato l’Ecuador sarà senza dubbio famigliare a moltissimi
europei. L’Unione Europea soffre di un indebitamento prodotto e
aggravato dal fondamentalismo neoliberista. Pur rispettando la
sovranità e l’indipendenza di ogni zona del mondo, siamo sorpresi
nel constatare che l’Europa, pur essendo così illuminata, ripeta
in ogni punto gli errori commessi dall’America latina.
Le
banche europee hanno prestato alla Grecia pretendendo di non aver
visto che il suo deficit di bilancio era quasi tre volte superiore a
quello dichiarato dallo Stato. Si pone nuovamente il problema di un
eccessivo indebitamento del quale si omette di evocare la
contropartita: l’eccesso di credito. Come se il capitale
finanziario non avesse mai la minima parte di responsabilità.
Dal
2010 al 2012 la disoccupazione in Europa ha raggiunto livelli
allarmanti. Fra il 2009 e il 2012 il Portogallo, l’Italia, la
Grecia, l’Irlanda e la Spagna hanno ridotto le loro spese di
bilancio del 6,4% in media, arrecando così gravi danni ai servizi
sanitari ed educativi. Si giustifica questa politica con un deficit
di risorse, ma considerevoli importi sono stati liberati per
rimettere a galla il settore finanziario. In Portogallo, in Grecia e
in Irlanda la somma complessiva di questo salvataggio bancario supera
il totale dei salari annui.
Mentre la crisi colpisce duramente
i popoli europei si continua a imporre loro le misure che ovunque nel
mondo hanno fatto fiasco.
Prendiamo l’esempio di Cipro. Come
sempre, il problema comincia con la de-regolazione del settore
finanziario. Nel 2012 la sua cattiva gestione diventa insostenibile.
Le banche cipriote, la Banca di Cipro e la Laiki Bank in particolare,
avevano concesso alla Grecia prestiti privati per un importo
superiore al PIL cipriota. Nell’aprile 2013 la «troika» - FMI,
BCE e Commissione europea – propone un «salvataggio» di 10
miliardi di euro. Lo condiziona a un programma di aggiustamento che
include la riduzione del settore pubblico, la soppressione del
sistema pensionistico dei nuovi funzionari, la privatizzazione delle
imprese pubbliche strategiche, correzioni di bilancio fino al 2018,
limitazione delle spese sociali e creazione di un «fondo
di salvataggio finanziario»,
il cui obiettivo è il sostegno delle banche e la soluzione dei loro
problemi, oltre al congelamento dei depositi superiori a 100.000
euro.
Nessuno dubita che siano necessarie riforme, che occorra
correggere gravi errori, ivi compresi quelli originari: l’Unione
Europea ha integrato Paesi con importanti differenziali nella
produttività, che i salari nazionali non riflettono. Resta il fatto
che, nell’essenza, le politiche applicate non cercano di uscire
dalla crisi al minor costo per i cittadini europei, ma a garantire il
pagamento del debito alle banche private.
Abbiamo evocato
Paesi indebitati. Che ne è dei privati cittadini incapaci di
rimborsare i loro debiti? Prendiamo il caso della Spagna. La mancanza
di regolamentazione e il troppo facile accesso al denaro delle banche
spagnole hanno generato un’immensa quantità di crediti ipotecari
che hanno galvanizzato la speculazione immobiliare. Le banche stesse
cercavano i clienti, stimavano il valore dei loro immobili e
continuavano sempre più a fare credito, per l’acquisto di un’auto,
di mobilio, di elettrodomestici, ecc.
Quando scoppia la bolla
immobiliare il mutuatario in buona fede non può più rimborsare il
suo prestito: non c’è più lavoro. Gli si porta via la casa, ma
questa vale molto meno di quando lui l’ha comperata. Nel 2012 si
sono registrati ogni giorno più di duecento sfratti, ciò che spiega
una gran parte dei suicidi in Spagna.
Una questione si pone:
perché non si fa ricorso a rimedi che sembrano evidenti e perché si
ripete sempre lo scenario peggiore? Perché il problema non è
tecnico, ma politico. È determinato da un rapporto di forze. Chi
dirige le nostre società? Gli umani o il capitale?
Il torto
più grande che si è fatto all’economia è di averla sottratta
alla sua natura originaria di economia politica. Ci si è fatto
credere che tutto era tecnico; si è mascherata l’ideologia come
scienza e, incoraggiandoci a prescindere dai rapporti di forze
all’interno di una società, siamo stati messi tutti al servizio
dei poteri dominanti, di ciò che io chiamo l’«impero
del capitale».
La
strategia dell’indebitamento intensivo che ha generato la crisi del
debito latino-americano non mirava ad aiutare i nostri Paesi a
svilupparsi. Obbediva invece all’urgenza di collocare le eccedenze
di denaro che inondavano i mercati finanziari del «primo
mondo», i petrodollari
che i Paesi arabi produttori di petrolio avevano piazzato nelle
banche dei Paesi sviluppati. Queste liquidità provenivano dal rialzo
del prezzo del petrolio conseguente alla guerra dell’ottobre 1973,
poiché questi prezzi erano stati mantenuti a livelli elevati
dall’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEP). Fra
il 1975 e il 1980 i depositi presso le banche internazionali sono
passati da 82 miliardi di dollari a 440 miliardi (1226 miliardi di
dollari attuali).
Di fronte alla necessità di collocare
quantità di denaro tanto ingenti il Terzo Mondo ha suscitato
interesse. Così è cominciata, a partire dal 1975, la sfilata dei
banchieri internazionali desiderosi di piazzare ogni sorta di crediti
– ivi compresi quelli destinati a finanziare le spese correnti e
l’acquisto di armi da parte delle dittature militari che
governavano un gran numero di Stati. Questi zelanti banchieri, che
non si erano mai fatti vedere nel Subcontinente, neppure come
turisti, hanno anche portato grosse valigie di bustarelle e mazzette
ai funzionari, per fare loro accettare nuovi prestiti, con pretesti
qualsiasi. Allo stesso tempo gli organismi finanziari internazionali
e gli enti per lo sviluppo hanno continuato a vendere l’idea
secondo la quale la soluzione era l’indebitamento.
Un’ideologia
camuffata da scienza
L’indipendenza delle banche centrali,
che di fatto serve a garantire la continuità del sistema qualunque
sia il verdetto delle urne, all’inizio degli anni ’90è stata
imposta come una necessità «tecnica»,
giustificata da sedicenti studi empirici, che dimostravano come un
dispositivo di quel genere generasse migliori risultati
macroeconomici. Secondo quelle «ricerche»
le banche centrali indipendenti potevano agire in modo «tecnico»,
lungi da perniciose pressioni politiche. Sulle basi di
un’argomentazione tanto assurda bisognerebbe rendere ugualmente
autonomo il ministero delle Finanze, perché la politica di bilancio
dovrebbe anch’essa essere puramente «tecnica».
Come l’ha suggerito Ronald Coase, premio Nobel per l’economia, i
risultati di quegli studi si spiegavano così: si erano messi sotto
tortura i dati economici fino a fare dire loro ciò che da loro si
voleva sentire.
Nel periodo che ha preceduto la crisi le
banche centrali autonome si sono consacrate esclusivamente a
mantenere la stabilità monetaria, vale a dire a controllare
l’inflazione, nonostante avessero svolto un ruolo fondamentale
nello sviluppo di Paesi come il Giappone o la Corea del Sud. Fin agli
anni ’70 l’obiettivo fondamentale della Federal Reserve
era quello di favorire la creazione di posti di lavoro e la crescita
economica; soltanto con le pressioni inflazionistiche dell’inizio
degli anni ’70 è stato aggiunto il compito di promuovere la
stabilità dei prezzi.
La priorità attribuita alla
stabilizzazione dei prezzi significa ugualmente, in pratica,
l’abbandono delle politiche miranti a mantenere il pieno impiego
delle risorse nell’economia. Al punto che, invece di attenuare gli
episodi di recessione e di disoccupazione, la politica di bilancio,
comprimendo senza sosta le spese, li aggrava.
Le banche
centrali dette «indipendenti»,
che si preoccupano unicamente di stabilità monetaria, fanno parte
del problema, non della soluzione. Sono uno dei fattori che
impediscono all’Europa di uscire più rapidamente dalla
crisi.
Tuttavia le capacità europee rimangono intatte. Voi
disponete di tutto: il talento umano, le risorse produttive, la
tecnologia. Credo si debba trarne conclusioni forti: si tratta di un
problema di coordinamento sociale, cioè di politica economica della
domanda, o come si vorrà chiamarla. Al contrario, i rapporti di
potere all’interno dei vostri paesi e a livello internazionale sono
tutti favorevoli al capitale, in particolare a quello finanziario,
motivo per il quale le politiche applicate sono contrarie a ciò che
sarebbe socialmente auspicabile.
Randellati dalla sedicente
scienza economica e dalle burocrazie internazionali, un gran numero
di cittadini sono convinti che «non
vi sia alternativa». Essi
si sbagliano.
*Rafael Correa, Presidente della Repubblica dell’Ecuador, dottore in economia. Autore dell’opera « Equateur. De la république bananière à la non-république» (Ecuador. Dalla Repubblica delle banane alla non-repubblica), Utopia, Paris, 2013.