Così sono uscito di
casa e sono andato a cercarla, la rivolta, perché come diceva il
protagonista di un vecchio film, degli anni ’70, ambientato al
tempo della rivoluzione francese, «se ‘un si va, ‘un si vede…». Bene,
devo dirlo sinceramente: quello che ho visto, al primo colpo
d’occhio, non mi è sembrata una massa di fascisti. E nemmeno di
teppisti di qualche clan sportivo. E nemmeno di mafiosi o
camorristi, o di evasori impuniti.
La prima impressione,
superficiale, epidermica, fisiognomica – il colore e la foggia
dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di muoversi -, è stata
quella di una massa di poveri. Forse meglio: di “impoveriti”. Le tante
facce della povertà, oggi. Soprattutto di quella nuova. Potremmo dire
del ceto medio impoverito: gli indebitati, gli esodati, i falliti o
sull’orlo del fallimento, piccoli commercianti strangolati dalle
ingiunzioni a rientrare dallo scoperto, o già costretti alla
chiusura, artigiani con le cartelle di equitalia e il fido
tagliato, autotrasportatori, “padroncini”, con l’assicurazione in
scadenza e senza i soldi per pagarla, disoccupati di lungo o di breve
corso, ex muratori, ex manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex
titolari di partite iva divenute insostenibili, precari non
rinnovati per la riforma Fornero, lavoratori a termine senza più
termini, espulsi dai cantieri edili fermi, o dalle boîte chiuse.
Le
fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o
già cadute fuori, fino a un paio di anni fa ancora sottili, oggi in
rapida, forse vertiginosa espansione… Intorno, la piazza a cerchio,
con tutti i negozi chiusi, le serrande abbassate a fare un muro
grigio come quella folla. E la “gente”, chiusa nelle auto bloccate da
un filtro non asfissiante ma sufficiente a generare disagio,
anch’essa presa dai propri problemi, a guardarli – almeno in quella
prima fase – con un certo rispetto, mi è parso. Come quando ci si ferma
per un funerale. E si pensa «potrebbe toccare a me…». Loro alzavano
il pollice – non l’indice, il pollice – come a dire «ci siamo ancora»,
dalle macchine qualcuno rispondeva con lo stesso gesto, e un
sorriso mesto come a chiedere «fino a quando?».
Altra
comunicazione non c’era: la “piattaforma”, potremmo dire, il comun
denominatore che li univa era esilissimo, ridotto all’osso. L’unico
volantino che mostravano diceva «Siamo ITALIANI», a caratteri
cubitali, «Fermiamo l’ITALIA». E l’unica frase che ripetevano era:
«Non ce la facciamo più». Ecco, se un dato sociologico comunicavano
era questo: erano quelli che non ce la fanno più. Eterogenei in
tutto, folla solitaria per costituzione materiale, ma accomunati
da quell’unico, terminale stato di emergenza. E da una viscerale,
profonda, costitutiva, antropologica estraneità/ostilità alla
politica.
Non erano una scheggia di mondo politico
virulentizzata. Erano un pezzo di società disgregata. E sarebbe un
errore imperdonabile liquidare tutto questo come prodotto di una
destra golpista o di un populismo radicale. C’erano, tra loro
quelli di Forza nuova, certo che c’erano. Come c’erano gli ultras di
entrambe le squadre. E i cultori della violenza per vocazione, o per
frustrazione personale o sociale. C’era di tutto, perché quando un
contenitore sociale si rompe e lascia fuoriuscire il proprio
liquido infiammabile, gli incendiari vanno a nozze. Ma non è quella
la cifra che spiega il fenomeno. Non s’innesca così una
mobilitazione tanto ampia, diversificata, multiforme come quella
che si è vista Torino. La domanda vera è chiedersi perché proprio
qui si è materializzato questo “popolo” fino a ieri invisibile. E
una protesta altrove puntiforme e selettiva ha assunto carattere
di massa…
Perché Torino è stata la “capitale dei forconi”?
Intanto perché qui già esisteva un nucleo coeso – gli ambulanti di
Parta Palazzo, i cosiddetti “mercatali”, in agitazione da tempo –
che ha funzionato come principio organizzativo e detonatore
della protesta, in grado di ramificarla e promuoverla
capillarmente. Ma soprattutto perché Torino è la città più
impoverita del Nord. Quella in cui la discontinuità prodotta dalla
crisi è stata più violenta. Parlano le cifre.
Con i suoi quasi
4000 provvedimenti esecutivi nel 2012 (circa il 30% in più rispetto
all’anno precedente, uno ogni 360 abitanti come certifica il
Ministero), Torino è stata definita la “capitale degli sfratti”. Per
la maggior parte dovuti a “morosità incolpevole”, il caso cioè che
si verifica «quando, in seguito alla perdita del lavoro o alla
chiusura di un’attività, l’inquilino non può più permettersi di
pagare l’affitto». E altri 1000 si preannunciano, come ha denunciato
il vescovo Nosiglia, per gli inquilini delle case popolari che hanno
ricevuto l’intimazione a pagare almeno i 40 euro mensili imposti da
una recente legge regionale anche a chi è classificato
“incolpevole” e che non se lo possono permettere.
“Maglia
nera” anche per le attività commerciali: nei primi due mesi dell’anno
hanno chiuso 306 negozi (il 2% degli esistenti, 15 al giorno) in
città, e 626 in provincia (di cui 344 tra bar e ristoranti). E’
l’ultima statistica disponibile, ma si può presupporre che nei
mesi successivi il ritmo non sia rallentato. Altri quasi 1500 erano
“morti” l’anno prima. Mentre per le piccole imprese (la cui morìa ha
marciato nel 2012 al ritmo di 1000 chiusure al giorno in Italia)
Torino si contende con il Nord-est (altra area calda della rivolta dei
“forconi”) la testa della classifica, con le sue 16.000 imprese
scomparse nell’anno, cresciute ancora nel primo bimestre del 2013 del
6% rispetto al periodo equivalente dell’anno prima e del 38% rispetto
al 2011 quando furono portate al prefetto di Torino, come dono di
natale, le 5.251 chiavi delle imprese artigiane chiuse nella provincia.
E’,
letta attraverso la mappa dei grandi cicli socio-produttivi
succedutisi nella transizione all’oltre-novecento, tutta intera la
composizione sociale che la vecchia metropoli di produzione
fordista aveva generato nel suo passaggio al post-fordismo, con
l’estroflessione della grande fabbrica centralizzata e
meccanizzata nel territorio, la disseminazione nelle filiere
corte della subfornitura monoculturale, la moltiplicazione
delle ditte individuali messe al lavoro in ciò che restava del grande
ciclo produttivo automobilistico, le consulenze
esternalizzate, il piccolo commercio come surrogato del
welfare, insieme ai prepensionamenti, ai co.co.pro, ai lavori a
somministrazione e interinali di fascia bassa (non i “cognitari”
della creative class, ma manovalanza a basso costo… Composizione
fragile, che era sopravvissuta in sospensione dentro la “bolla” del
credito facile, delle carte revolving, del fido bancario
tollerante, del consumo coatto. E andata giù nel momento in cui la
stretta finanziaria ha allungato le mani sul collo dei marginali, e
poi sempre più forte, e sempre più in alto.
Non è bella a
vedere, questa seconda società riaffiorata alla superficie
all’insegna di un simbolo tremendamente obsoleto, pre-moderno, da
feudalità rurale e da jacquerie come il “forcone”, e insieme
portatrice di una ipermodernità implosa. Di un tentativo di una
transizione fallita. Ma è vera. Più vera dei riti vacui riproposti
in alto, nei gazebo delle primarie (che pure dicevano, in altro modo,
con bon ton, anch’essi che “non se ne può più”) o nei talk show
televisivi. E’ sporca, brutta e cattiva. Anzi, incattivita. Piena
di rancore, di rabbia e persino di odio. E d’altra parte la povertà
non è mai serena.
Niente a che vedere con la “bella società” (e
la “bella soggettività”) del ciclo industriale, con il linguaggio
del conflitto rude ma pulito. Qui la politica è bandita dall’ordine
del discorso. Troppo profondo è stato l’abisso scavato in questi anni
tra rappresentanti e rappresentati. Tra linguaggio che si parla
in alto e il vernacolo con cui si comunica in basso. Troppo volgare
è stato l’esodo della sinistra, di tutte le sinistre, dai luoghi
della vita. E forse, come nella Germania dei primi anni Trenta,
saranno solo i linguaggi gutturali di nuovi barbari a incontrare
l’ascolto di questa nuova plebe. Ma sarebbe una sciagura – peggio, un
delitto – regalare ai centurioni delle destre sociali il monopolio
della comunicazione con questo mondo e la possibilità di
quotarne i (cattivi) sentimenti alla propria borsa. Un ennesimo
errore. Forse l’ultimo.
Torino è stata l’epicentro della cosiddetta “rivolta dei forconi”, almeno fino o ieri. Torino è anche la mia città.