L’impotenza dimostrata finora dal Parlamento ad eleggere i tre
giudici costituzionali, prima ancora e invece che deprecata, andrebbe
spiegata. Ne risulterebbero le ragioni, se ne scoprirebbero le
responsabilità. Si dedurrebbe innanzitutto che questa elezione non ha
precedenti, non per il ritardo e la difficoltà di scegliere candidati
adeguati al tipo e al valore dei giudizi di costituzionalità, ma per la
posta che è in gioco. Una posta che va ben oltre la valutazione della
conformità a Costituzione di una legge o di un atto avente forza di
legge o l’esercizio di un’attribuzione ad uno o ad un altro potere dello
stato o tra Stato e Regioni o tra Regioni. È in gioco il ruolo stesso
della Corte, la sua funzione di garanzia effettiva della Costituzione.
È in gioco la forma di governo sancita in Costituzione. È in gioco la
fisionomia dell’ordinamento della Repubblica, la determinazione di suoi
principi fondanti, la sua identità.
È della democrazia italiana che si tratta, è la democrazia italiana ad
essere stata posta in gioco con le due operazioni di chirurgia
istituzionale compiute dal governo Renzi e dalla sua maggioranza con
l’Italicum e col cosiddetto «superamento» del bicameralismo. È di queste
due leggi, della loro costituzionalità che sarà chiamata a giudicare la
Corte costituzionale. Con buona pace degli assertori, ingenui
o ipocriti, della unitarietà e della neutralità della scienza giuridica,
le sentenze, specie se di costituzionalità, riproducono,
ineluttabilmente l’orientamento, la cultura, la sensibilità, lo
specifico canone interpretativo dei testi normativi che adotta il
giudice che le pronunzia e, se giudice collegiale, quella della
maggioranza dei membri del collegio. Ebbene, come mai finora così
decisamente, questi fattori interverranno a determinare il giudizio su
queste due leggi. L’ingresso di tre giudici, con i loro orientamenti, le
loro sensibilità, nel collegio giudicante si pone perciò come decisivo.
Decisivo, per ribadire lo spirito e la lettera della sentenza n. 1 del
2014 sulla incostituzionalità del porcellum e, di conseguenza, della
trascrizione delle sue disposizioni nell’Italicum. O, invece, per
discostarsi da tale sentenza e chissà in che misura. Decisiva
l’integrazione della Corte anche per il giudizio sul «superamento» del
bicameralismo e sugli effetti che, combinandosi con l’Italicum,
rispettino o violino il principio della separazione dei poteri, cardine
della democrazia costituzionale.
Il Costituente non era né un ingenuo, né un ipocrita. Era ben
consapevole della complessità delle esigenze da soddisfare con la scelta
del modo di composizione di un organo competente a giudicare gli atti
parlamentari per antonomasia, le leggi. Strutturò con molta saggezza
questo organo per far sì che in esso potessero confluire le culture
giuridiche derivanti dalle tre esperienze, quella giurisprudenziale,
quella dottrinale, quella forense. E, quanto a queste due ultime, affidò
al Parlamento il compito di provvedervi, ma gli impose il modo, quello
che avrebbe garantito il più esteso consenso delle forze politiche alla
scelta dei giudici. Ne derivò, mediante una convenzione rispettata per
più di 40 anni, l’effettiva presenza nella Corte delle diverse culture,
professionalità, sensibilità giuridiche e giuspolitiche. Diverse, non
compatte.
La devastazione costituzionale che Renzi sta compiendo ha incrinato
questa convenzione. Alla pluralità delle culture e delle sensibilità, al
rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento, Renzi vuole
sostituire l’approvazione del suo ordito istituzionale, la sicurezza che
i tre eletti sostengano la legittimazione… dell’illegittimità. Mira
quindi a ridurre anche la Corte costituzionale ad organo esecutivo per
la legittimazione delle decisioni del «capo del governo». Il che
equivale alla confessione di un delitto da parte del colpevole. I cui
effetti, per ora, sono stati bloccati in 28 sedute di Camera e Senato.
Come a dimostrare che, anche se di «nominati», un Parlamento può opporsi
all’arbitrio, come quello di una ulteriore manomissione della
Costituzione, proprio grazie al nome che porta. Per esserne degno.