Forse era meglio un Parlamento deserto, come quello che lunedì doveva discutere del testamento biologico. Così almeno ieri non avremmo assistito allo spettacolo inverecondo del caso Lotti. Inverecondo non perché il Senato ha respinto, com’era scontato, la mozione di sfiducia al ministro renziano dello Sport. Ma per quello che è toccato ascoltare ai cittadini che hanno avuto la disgrazia di assistere al dibattito (inclusa una sventurata scolaresca di giovani leccesi): l’ennesima autoassoluzione di una classe politica marcia dalle fondamenta, all’insegna del “Lotti sei tutti noi e noi siamo tutti Lotti”. I pidini parlavano come i berlusconiani dei tempi d’oro (“gogna mediatica”, “processi sui giornali”). I berlusconiani davano loro il “benvenuto in Italia” e ne approfittavano per riabilitare il loro leader pregiudicato e la loro delegazione distaccata presso le patrie galere (compreso Cosentino che ieri ha collezionato altri 7 anni di carcere). Un tal Marcucci (Pd) spacciava l’ad di Consip Luigi Marroni, accusatore di Lotti, per un fedelissimo del governatore toscano Rossi appena uscito dal Pd, quando tutti sanno che, dopo aver lavorato con Rossi, Marroni fu piazzato in Consip da Renzi & C. perché renziano e lottiano fino al midollo. Lo stesso Marcucci invitava Luigi Di Maio a “farsi processare”, scordandosi di precisare per quale reato. Il pidino Zanda ricordava di aver presentato mozioni di sfiducia individuale a ministri, ma ora che c’è di mezzo Lotti ha scoperto che “le mozioni di sfiducia individuale sono incostituzionali”; poi affermava che Lotti non ha commesso reati perché lo dice lui (Lotti).
Vecchie lenze, muffe, pance e dentiere vedove inconsolabili della Prima Repubblica, già che c’erano, santificavano pure i ladri di Tangentopoli e Mafiopoli. Mancava solo il monumento equestre a Caino e il processo ad Abele, ma prima o poi ci si arriverà. Il sottotesto di quasi ogni intervento da destra al centro a sinistra era questo: la politica è una cosa sporca, tutti hanno “qualche peccatuccio” da farsi perdonare e, siccome rubano tutti perché è giusto così, nessuno si azzardi a parlare di legalità e moralità: i panni sporchi si lavano in famiglia, una mano lava l’altra e tutti contro i pm (anzi la Repubblica delle procure e delle torture) e la stampa libera. Eppure bastava applicare a Lotti il principio di responsabilità politico-morale, non penale, che Renzi & C. avevano ben chiaro sui ministri non renziani del governo Letta (e persino del governo Renzi), anche per scandali infinitamente più lievi del caso Consip: Idem, Cancellieri, Alfano, De Girolamo, Lupi e Guidi.
“Ci si dimette per questioni politiche ed etiche, non per gli avvisi di garanzia”, diceva Renzi sul Rolex e il contrattino al figlio di Lupi. E sul sequestro Shalabayeva: “Se Alfano sapeva, ha mentito e questo è un piccolo problema. Se non sapeva è anche peggio”. E sulle telefonate della Cancellieri ai (e per i) Ligresti: “L’idea che ci siamo fatti è che la legge non sia uguale per tutti e che se conosci qualcuno di importante te la cavi meglio. È la Repubblica degli amici degli amici: questo atteggiamento è insopportabile. Non è un problema giudiziario, dunque, è peggio: è un problema politico che ha minato l’autorevolezza istituzionale e l’imparzialità del ministro della Giustizia”. Tutte parole perfette anche per Lotti, se i renziani che appoggiavano le mozioni di sfiducia di M5S e Sel non se le fossero scordate.
Poi finalmente ha parlato Lotti. Ci attendevamo, finalmente, la sua ricostruzione dei fatti: perché raccomandò Carlo Russo, il faccendiere di papà Renzi, al governatore pugliese Emiliano; perché minacciò l’amico Filippo Vannoni, presidente di Publiacqua, venuto a raccontargli di averlo accusato davanti ai pm di Napoli (“Non ti do una testata solo per rispetto del luogo in cui siamo”); perché non ha denunciato per calunnia e non ha chiesto di destituire dai loro incarichi pubblici i due accusatori che, secondo lui, hanno mentito sul suo conto indicandolo come fonte della fuga di notizie che ha rovinato l’inchiesta sulle tangenti per truccare il più grande appalto d’Europa; e perché non si è dissociato dal collega Padoan per aver difeso alla Camera quel Marroni che lui si accingeva a bollare di calunniatore in Senato. Invece, nulla di tutto ciò. Ha semplicemente rivendicato la sua proverbiale “moralità”. Ha detto di non aver rivelato segreti su Consip. Ha accusato Marroni (ma non Vannoni, mai nominato) di aver “mentito per paura o altre ragioni” (ma guardandosi bene dal denunciarli per tutelare la sua proverbiale moralità). Ha chiesto perché, essendosi lui presentato ai pm il 27 dicembre, la mozione è arrivata solo ora, come se nel frattempo non fossero scattati gli arresti (di Romeo), le perquisizioni (di Russo), gli interrogatori (di Tiziano Renzi), con la discovery di molti atti dell’inchiesta che lo coinvolge per favoreggiamento e rivelazione di segreti. Ha respinto con orrore “l’equazione ‘avviso di garanzia uguale dimissioni’” (infatti fino all’altroieri i renziani applicavano ai non renziani l’equazione “niente avviso di garanzia uguale dimissioni”). Ha mandato un bel messaggio a Renzi: il bersaglio non è lui, ma – modestamente – ciò che “rappresento: la stagione riformatrice di questi anni”. Addirittura. Poi ha straparlato dei soliti 5Stelle, che si portano su tutto, ma purtroppo coi suoi guai giudiziari non c’entrano nulla perché tutti i protagonisti, accusatori e accusati, sono renziani. Se c’è un complotto, è un autocomplotto. Se c’è una gogna, è un’autogogna.
Ps. Lo stesso Pd che ieri straparlava di “garantismo” per i suoi ha appena proposto una legge per arrestare i parcheggiatori abusivi. Non è meraviglioso?