La sentenza della Corte Costituzionale ha ridato anche vigore ad alcuni fantasmi che continuano ad essere agitati nel dibattito economico, sociale e politico. Gli effetti perversi della riforma Fornero si rivelarono subito: con l’aumento improvviso fino a 6–7 anni dell’età di pensionamento — in un periodo di crescente crisi occupazionale, acuta tra i giovani e nell’età prossima al ritiro dal lavoro -, era inevitabile sia che aumentasse la disoccupazione giovanile (per il rallentamento del turn-over) sia che centinaia di migliaia di persone rimanessero senza lavoro e senza pensione.
Anche bloccare l’adeguamento all’inflazione di pensioni superiori a circa 1200 euro nette apparve subito come iniquo e costituzionalmente improprio; a distanza di oltre tre anni, la Corte Costituzionale ce lo conferma. E così come sta avvenendo per porre riparo (molto parzialmente) al prevedibilissimo problema degli “esodati” (siamo al settimo provvedimento di “salvaguardia” e solo i primi cinque implicano spese per circa 12 miliardi), anche per riparare al mancato adeguamento delle pensioni bisognerà rimettere mano ai bilanci pubblici. Per i quattro anni 2012–2015, i mancati versamenti ai pensionati ammontano ad una cifra tra i 16 e i 17 miliardi di euro e alla loro restituzione andrebbero aggiunti gli interessi. Poiché i tagli fatti dalla riforma Fornero avrebbero avuto effetti protratti e cumulati nel tempo, il loro rimborso deciso dalla Corte implica che dal 2016 la spesa aumenterà di quasi cinque miliardi l’anno.
Queste conseguenze della sentenza della Corte hanno suscitato reazioni che sono preoccupanti perché fanno breccia anche nell’opinione pubblica, complici la disinformazione e i limiti della politica.
La sentenza è stata criticata anche con la motivazione che la Corte Costituzionale non dovrebbe invadere la sfera decisionale del Governo cui spetta la responsabilità delle scelte economiche e dei loro effetti redistributivi. In questo caso, la preoccupazione è che rimborsare i pensionati implica sottrarre risorse già destinate ad altri impieghi, e immancabilmente sono stati richiamati conflitti generazionali a danno degli attivi e, in particolare, dei giovani.
La prima semplice considerazione suscitata da queste posizioni è che, per sua natura e funzione, la Costituzione è il perimetro entro cui vanno circoscritte tutte le leggi ordinarie e, dunque, anche le norme in materia economica. E con riferimento alla nostra costituzione, la Corte ritiene che con il blocco dell’adeguamento delle pensioni operato dalla riforma Fornero “siano stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità … con irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività”.
Quanto alla possibilità che i giudici costituzionali possano aver sbagliato nelle loro valutazioni di merito, conviene ricordare alcuni dati che sono confermati dal Rapporto sullo stato sociale 2015 fatto nella “Sapienza”, di prossima presentazione. All’inizio degli anni ’90, la quota del prodotto nazionale che veniva trasferito ai pensionati cresceva; per certi aspetti era normale poiché, a causa dell’invecchiamento demografico, stava aumentando la quota dei pensionati rispetto alla popolazione, e l’importo medio delle pensioni stava recuperando il forte divario rispetto alla retribuzione media. Ma questa tendenza rischiava di minare gli equilibri macroeconomici, specialmente perché stava iniziando il “declino” del nostro sistema produttivo (e non solo). Tuttavia, dopo le due riforme previdenziali del 1992 e 1995, già a metà degli anni ’90, la crescita della spesa pensionistica diventò simile a quella del Pil; dal 1998, il saldo tra le entrate contributive dell’intero sistema pubblico e le sue prestazioni previdenziali al netto delle ritenute fiscali diventò attivo in modo stabile e crescente, fino a superare il 2% del Pil nel 2008. Attualmente (gli ultimi dati sono del 2013) il saldo è pari a circa 21 miliardi di euro; dunque il sistema pensionistico, ogni anno, contribuisce positivamente, e in misura consistente, a migliorare il complessivo bilancio pubblico.
Nel frattempo, il rapporto tra la spesa pensionistica e il Pil è in discesa, dunque nel suo andamento non si profila nessuna delle “gobbe” previste in passato e utilizzate per giustificare gli ulteriori tagli fatti fino al 2011. Ma poiché la nostra demografia registra ancora aumenti del numero di anziani rispetto alla popolazione in età attiva, da tempo è in atto un allontanamento verso il basso della pensione media rispetto alla retribuzione media; attualmente il valore della prima è pari a circa il 45% della seconda e scenderà fino al 33% nel 2036. La preoccupazione dei giudici costituzionali prima riportata è dunque confortata dai numeri. Più in generale, la scelta di politica economica in atto da oltre due decenni è comprimere i complessivi redditi da lavoro – salari e pensioni – sostenendo che servirebbe a rilanciare la nostra competitività e la nostra crescita. Ma tale “strategia”, oltre a peggiorare vistosamente la distribuzione del reddito, ha spinto ulteriormente il nostro sistema produttivo lungo il declino. Cosicché anche i pochi giovani che ci sono, non riusciamo ad occuparli. Anzi, li formiamo con le scarse risorse del nostro sistema d’istruzione e poi li costringiamo ad emigrare all’estero dove, peraltro, si ricongiungono con i risparmi previdenziali che i nostri fondi pensione privati non riescono ad investire nel nostro paese (perché la “strategia” non riesce a trattenere nemmeno quelli). Dunque, ben altri “limiti di ragionevolezza” vengono valicati da quella “strategia”, a danno sia dei giovani sia degli anziani che, per di più, sono messi in conflitto d’interesse quando, invece, moltissimi di loro sono parimenti vittime di politiche che minano strumentalmente anche la coesione sociale pur di celare i loro fallimenti generali a vantaggio dei pochi che si arricchiscono anche con la crisi.