L’annuncio dello sciopero del 25 ottobre richiede di chiarire il significato dell’art. 18, su cui anche l’articolo di Gianni Ferrara, pur pregevole per la parte economica, lascia un «vuoto». Resta infatti inespresso il ruolo della magistratura, garante della continuità del diritto di lavorare, come responsabilità sociale fatta valere dal «terzo potere» dello Stato, contro il sistema delle imprese e il dispotismo padronale in fabbrica. Che si vuole ripristinare revisionando la Costituzione e i suoi valori sociali, proprio abolendo la centralità della magistratura, su cui si tace.
Il significato dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è nella natura ed origine della norma: le lotte operaie «liberando» la Costituzione da 20 anni di «blocco», imposto dai conservatori, permisero di attuarla, in tutti i campi (lavoro, sanità, Regioni, ecc.). Espressione, quindi, «di potere» e «di lotta».
Enfatizzarlo come espressione di «civiltà» o «diritti», impedisce ai lavoratori di prendere coscienza strettamente di classe, che l’articolo 18 – non a caso datato al 1970 — è stato introdotto per esprimere la convergenza dei principi sociali, su cui si fonda l’autonomia sindacale, col ruolo politico democratico del legislatore.
Volto a coniugare i principi sociali e politici che caratterizzano la Costituzione italiana con i suoi Principi Fondamentali. Sicché, è a causa della sua revisione che si tenta di rilegittimare anche formalmente il potere dispotico dell’impresa, superato dai valori costituzionali.
Infatti, in questa fase dominata dall’equivoco concetto di «globalizzazione» dell’economia, si vuol far perdere di vista alla classe operaia che l’impresa rimane comunque un istituto di potere a livello innanzitutto nazionale. Come dimostra (anche) la preoccupazione della stessa Confindustria e dei suoi alleati di abolire l’articolo 18.
E ciò proprio perché con tale articolo, il potere ordinatorio della magistratura di rimuovere i licenziamenti illegittimi, è lo strumento di prolungamento del potere sindacale al livello politico, mediante la connessione tra due poteri statali, come il potere legislativo (Legge 300 del ‘70, Statuto dei lavoratori) e il potere giurisdizionale di ordinare all’impresa il reintegro del lavoratore e di condannarla al risarcimento del danno illegittimamente da lui subito.
Come si vede, l’articolo 18 interferisce, in una prospettiva democratica oggi arrestatasi, sia con il diritto dell’impresa sia con il diritto del lavoro e sia con il diritto sindacale: cosa che sfugge anche ad Alleva, alla Cgil e alla stessa Fiom, impegnate in una difesa dei «diritti» dei lavoratori che è resa vana nel (e dal) misconoscere che l’articolo 18 coinvolge i poteri dello stato, del sindacato e dell’impresa, per piegare il mercato – a favore dei lavoratori come corpo sociale e nei diritti che ne derivano – mediante il riconoscimento istituzionale della forza di pressione congiunta dei poteri democratici dello Stato e del sindacato.
Occorre quindi che non solo i partiti ma anche il sindacato – e qui il pensiero va a quella parte di sindacato che mostra una maggiore criticità e volontà di lotta — ponga la massima attenzione al «rovesciamento» in corso della forma di governo parlamentare e ad una legge elettorale a favore del proporzionale integrale, se si vuole che la rappresentanza sindacale possa ancora e come all’epoca dell’emanazione dello Statuto dei lavoratori svolgere il ruolo assegnatole dall’articolo 39 della Costituzione.
* Movimento nazionale antifascista di difesa e rilancio della Costituzione