Ma Renzi lo conosce il Fiscal Compact?

di Thomas Fazi - sinistrainrete.info - 24/03/2014
E se la risposta è no, cosa ne avrà pensato Angela Merkel?

Cosa avrà detto ieri alla Merkel Matteo Renzi? Avrà senz’altro ammorbidito i toni rispetto a qualche anno fa – quando da sindaco si diceva pronto a violare il “patto di stupidità” –, e avrà ribadito che “nessuno si sogna di sforare il tetto” del famigerato 3% di rapporto deficit/Pil stabilito dal Trattato di Maastricht, come ha ripetuto in conferenza stampa. Chissà però se Renzi ha ripetuto quello che ha detto agli italiani e cioè che vorrà sfruttare il più possibile i “margini” che secondo lui offrirebbe il Patto. La logica renziana è quanto segue: poiché si prevede che nel 2014 l’Italia registrerà un rapporto deficit/Pil del 2.6% –  dunque al di sotto della soglia del 3% – l’Italia avrebbe “un margine ulteriore di 6 miliardi di euro” (0.4% del Pil) che potrebbe coprire una buona parte dell’annunciato taglio di 10 miliardi del cuneo fiscale. L’annuncio sarebbe senz’altro apprezzabile, se non fosse che esso si basa su una lettura molto semplicistica (e fondamentalmente sbagliata) del Fiscal Compact, cosa che sembra la Merkel gli abbia ricordato. Non sappiamo se nella sua immaginazione lo abbia messo dietro una lavagna con finte orecchie da asino, però Angela ci ha tenuto a precisare che quello che bisogna rispettare non è più tanto Maastricht, ma il nuovo Patto di stabilità, il  Fiscal Compact che entra in vigore quest’anno e le cui regole sono state stabilite con i pacchetti di regolamenti two-pack e six-pack. Non sappiamo se Renzi stia facendo il finto tonto oppure effettivamente non conosca bene le norme del Fiscal Compact. Sembra che i tedeschi si siano orientati su quest’ultima possibilità. A sentire Renzi, infatti, sembrerebbe che il problema del rispetto del Fiscal Compact riguardi unicamente il rispetto del vincolo del 3%. Il premier, però, ignora – o fa finta di ignorare – che il Fiscal Compact impone dei vincoli di bilancio molto più stringenti del 3%, già previsto dal Trattato di Maastricht (e successivamente rafforzato dal Patto di stabilità e crescita del 1999).

Come abbiamo spiegato in dettaglio nell’ultimo post, il Fiscal Compact non guarda tanto al deficit nominale (fermo restando l’inviolabilità assoluta del limite del 3%) quanto al cosiddetto “deficit strutturale”. Ma cosa si intende esattamente per bilancio o deficit strutturale? Quest’ultimo viene calcolato dalla Commissione in base a dei parametri del tutto arbitrari e fortemente ideologici (e fortemente contestati), e ufficialmente serve a stabilire quale sarebbe il deficit di uno stato membro se la sua economia stesse operando al “massimo potenziale”. Si tratta in sostanza di un indicatore che dovrebbe permettere alla Commissione di giudicare se il deficit di un paese sia dovuto alla congiuntura economica, nel qual caso potrebbe essere eliminato per mezzo della crescita; o se invece sia “strutturale”, ossia continuerebbe a sussisterebbe anche se il paese riprendesse a crescere e arrivasse ad operare al massimo potenziale. La premessa è che in condizioni “normali” un paese dovrebbe avere un bilancio nominale sostanzialmente in pareggio. Facendola semplice, il bilancio strutturale viene calcolato sottraendo al deficit nominale una percentuale imputabile, secondo la Commissione, alla congiuntura economica. Questa differenza viene chiamata “output gap”.

Il Fiscal Compact stabilisce che tutti i paesi devono convergere rapidamente verso il “pareggio di bilancio strutturale”, che varia da paese a paese (in base al loro rapporto debito/Pil e ad altri parametri) secondo una forchetta che va dal -1% del Pil al pareggio o avanzo di bilancio (sempre inteso in senso strutturale, non nominale). Nel caso dell’Italia l’obiettivo è un avanzo strutturale dello 0.2%, da raggiungere entro il 2016.

L’introduzione del concetto di bilancio strutturale nella normativa europea rappresenta molto più di un semplice dettaglio tecnico (peraltro poco compreso); esso stravolge radicalmente le regole di bilancio in vigore finora nell’Ue. La Commissione può infatti stabilire, in base a dei parametri del tutto arbitrari, che un paese ha un deficit strutturale – e deve dunque implementare ulteriori misure di austerità – anche se registra un deficit nominale (entrate meno uscite, al lordo degli interessi sul debito pubblico) inferiore al 3%, e dunque in linea con i parametri di Maastricht. In questo senso, non è esagerato affermare che il Fiscal Compact elimina definitivamente anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht e dal Patto di stabilità e crescita. Precisamente quel “margine” a cui Renzi sostiene (ingenuamente?) di voler ricorrere.

Il caso dell’Italia è illuminante. Come si può vedere nella seguente tabella, la Commissione prevede che nel 2014 il deficit nominale del paese scenderà dal 3 al 2.6%, portandoci ampiamente all’interno dei margini previsti da Maastricht.

Previsioni della Commissione Europea per l’Italia, febbraio 2014

  2012 2013 2014 2015
PIL -2.5 -1.9 0.6 1.2
Deficit nominale 3.0 3.0 2.6 2.2
Deficit strutturale 1.4 0.8 0.6 0.8
Saldo primario 2.5 2.3 2.7 3.1
Debito pubblico 127,0 132,7 133,7 132,4
Output gap -3.0 -4.3 -3.6 -2.4

Allo stesso tempo, però, la Commissione stima che l’Italia quest’anno registrerà un deficit strutturale dello 0.6% – quindi significativamente superiore all’obiettivo del +0.2% che l’Italia, in base al Fiscal Compact, dovrebbe centrare entro il 2016. Da cui si comprende perché la Commissione chiede all’Italia – le previsioni della Commissione vanno sempre intese più come indicazioni politiche che come semplici stime – di ridurre ulteriormente il suo deficit, portandolo al 2.2%, entro il 2015, facendo crescere il suo saldo primario (già uno dei più alti al mondo) dal 2.7 al 3.1% del Pil, per mezzo di un’ulteriore manovra di circa 5 miliardi. Alla faccia del “margine”.

C’è un dato che salta all’occhio nelle stime riguardanti il 2015 però: come si può notare, a fronte di una riduzione prevista (o meglio, attesa) del deficit nominale per l’anno prossimo, il deficit strutturale, invece di diminuire… aumenta (dallo 0.6 allo 0.8%). Perché? Come è possibile? Qui entra in gioco la “fantasiosa” metodologia con cui la Commissione calcola il deficit strutturale. Ricapitolando: il deficit strutturale rappresenta il deficit che un paese, secondo la Commissione, continuerebbe a registrare se il paese non fosse in recessione e operasse invece al suo “massimo potenziale”. La differenza tra produzione reale e produzione potenziale è rappresentata dal sopracitato output gap. Come si può vedere nella tabella, l’output gap dell’Italia – ovvero la percentuale del deficit imputabile alla congiuntura economica, secondo la Commissione – quest’anno sarà di -3.6%. Poiché l’influenza dell’output gap sul deficit nominale è all’incirca al 50%, esso ha un impatto sul deficit italiano del 2% (un po’ più della metà di 3.6%), risultando in un deficit strutturale dello 0.6%. Ossia: 2.6% (deficit nominale) meno 2% (effetto output gap) uguale 0.6% (deficit strutturale).

Nel 2015, però, la Commissione prevede che l’output gap scenderà a -2.4. La ragione è semplice: poiché la Commissione stima – col solito “ottimismo” che la contraddistingue da sempre (sull’attendibilità delle previsioni della Commissione torneremo a parlare presto) – che l’Italia l’anno prossimo tornerà a crescere a un tasso dell’1.2%, la percentuale del deficit imputabile alla congiuntura economica (l’abbuono della Commissione, in poche parole) si riduce. Questo ha l’effetto perverso di far aumentare il deficit strutturale anche a fronte di una riduzione prevista del deficit nominale (dal 2.6 al 2.2%), poiché la riduzione dell’output gap è maggiore della riduzione del deficit nominale. Più precisamente: 2.2% (deficit nominale) meno 1.2% (effetto output gap) uguale 0.8 (deficit strutturale). Questo costringerà l’Italia a effettuare una manovra ancora più pesante nel 2015 per centrare l’obiettivo – quasi impossibile – dell’avanzo di bilancio strutturale entro il 2016. Nonostante il fatto – lo ribadiamo per l’ennesima volta – che il paese registrerà un deficit ben all’interno del limiti previsti da Maastricht.

Il caso italiano dà bene l’idea di quanto cambino le regole di bilancio dell’Ue con l’introduzione del Fiscal Compact. Proprio perché non esiste alcuno strumento per misurare oggettivamente il bilancio strutturale di un paese – a differenza del bilancio nominale –, è la Commissione a decidere, secondo dei parametri del tutto arbitrari (e molto discutibili), quale sia il livello del suddetto bilancio, e a imporre le misure correttive necessarie. Ed è sempre la Commissione, tramite le sue previsioni, a stabilire se e quanto l’economia di un paese è destinata a crescere l’anno seguente, e a chiedere sulla base di quelle previsioni misure di austerità “preventive”, in vista della riduzione dell’output gap. In sostanza, più un paese cresce (o si prevede che cresca) e più deve tagliare! Per essere più specifici, se l’Italia dovesse miracolosamente arrivare a crescere al suo “tasso potenziale” – 3.6%, secondo la Commissione –, e il suo deficit pubblico rimanesse stabile intorno al 2%, l’output gap (ossia la differenza tra produzione reale e produzione potenziale) scenderebbe a 0, e di conseguenza il deficit strutturale arriverebbe a coincidere col deficit effettivo (2%). In questo caso, poiché l’obiettivo per l’Italia è un avanzo di bilancio strutturale, il paese dovrebbe avere anche un avanzo nominale. Considerando che l’Italia spende ogni anno circa il 5% del Pil per gli interessi sul debito, di fatto questo costringerebbe l’Italia a mantenere un avanzo primario superiore al 5%. Ovviamente è impensabile che l’Italia torni a crescere a quei ritmi nei prossimi anni, ma gli obiettivi di riduzione del debito previsti dal Fiscal Compact – in base a uno studio realizzato da Giorgio Gattei e Antonino Iero [1] – costringerebbero comunque l’Italia a mantenere (per quasi vent’anni!) un avanzo primario non inferiore al 4.5% (pari all’incirca a 50 miliardi di euro l’anno). Che è esattamente l’obiettivo di medio termine che Bruxelles si aspetta dall’Italia, secondo fonti interne alla Commissione.

Dunque, se la nostra interpretazione del Fiscal Compact è corretta, non si capisce bene quale sia il “margine” a cui fa riferimento Renzi. Il fatto stesso di porre il problema in termini di rispetto o meno del vincolo del 3% non ha senso, poiché nell’epoca del Fiscal Compact la questione non riguarda più lo sforamento o meno del tetto del 3% (che comunque il Patto vieta categoricamente), ma piuttosto il fatto che ormai è stato cancellato anche l’esiguo spazio di manovra previsto dal Trattato di Maastricht. Perché Renzi non lo dice? E anzi continua a parlare come se continuassimo a vivere nell’era pre-Patto? Dobbiamo veramente credere che egli non capisca come funziona il Fiscal Compact? Se dovesse toccare alla Merkel ricordare all’“alunno somaro” italiano come stanno veramente le cose, Renzi – e l’Italia – non ci farebbero una bella figura, e il paese perderebbe quel minimo di credibilità politica necessaria per negoziare con l’Europa. E infatti si vocifera che alla Commissione ci sia chi spinga per rimettere l’Italia in una Procedura per deficit eccessive (Pde), che costringerebbe il paese a intraprendere una politica di restrizione fiscale decisa da Bruxelles, a rendere conto delle sue decisioni in materia di spesa alla Commissione e al Consiglio e infine, eventualmente, a pagare una sanzione. Un commissariamento de facto. A cui Renzi, a cose ormai fatte, avrebbe poche argomentazioni per opporsi.

L’altra ipotesi – la più ottimistica – è che le dichiarazioni di Renzi vadano intese come facenti parte di una strategia intesa a rivedere il Fiscal Compact in sede europea, magari contando su una maggioranza socialdemocratica nel Parlamento dopo le elezioni di maggio (per apportare modifiche al two-pack e al six-pack basta il Parlamento europeo). Ma se fosse veramente così, Renzi dovrebbe dirlo apertamente, coinvolgendo attivamente la società civile italiana ed europea e facendosi promotore di una campagna europea per la ridiscussione del Patto nel suo complesso. Ma questo significherebbe innanzitutto dire agli italiani la verità sul Fiscal Compact. L’esatto opposto di quello che Renzi ha fatto finora.

[1] Giorgio Gattei e Antonino Iero, “L’insostenibile rimborso del debito”, Economia e Politica, 10 marzo 2014.
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