Il Consiglio di Stato ha posto la parola fine alla vicenda delle trascrizioni dei matrimoni contratti all’estero tra persone del medesimo sesso. La trascrizione non è consentita, perché la mancanza del requisito del sesso diverso rende quel matrimonio un atto giuridicamente nullo, ed anzi «inesistente». Ed è ovvio che una inesistenza non è trascrivibile.
È una sentenza ideologicamente orientata, perché tra le scelte interpretative possibili, sempre molteplici, sceglie quella indirizzata verso il diniego della trascrizione. La ragione traspare da una frase rivelatrice, per cui la diversità del sesso deve ritenersi indispensabile «in coerenza con la concezione del matrimonio afferente alla millenaria tradizione giuridica e culturale dell’istituto, oltre che all’ordine naturale costantemente inteso e tradotto nel diritto positivo come legittimante la sola unione coniugale tra un uomo e una donna».
Qualunque giurista, anche apprendista o in prova, sa che l’ordine naturale è concetto dal quale è bene tenersi lontani. Il diritto è sempre una realtà storicamente e territorialmente determinata, anche quando si autodefinisce in termini di perenne universalità. Ed è appena il caso di notare che la «millenaria tradizione», qualunque cosa se ne pensi in principio, è largamente venuta meno. Quasi tutti i paesi di «tradizione giuridica e culturale» affine o assimilabile alla nostra riconoscono giuridicamente il rapporto tra persone dello stesso sesso. E questo dimostra che non c’è alcun «ordine naturale», tanto meno «costantemente tradotto». Se ci fosse stato, non sarebbe accaduto. A meno di non voler ritenere che quei paesi si siano collettivamente consegnati al peccato e al demonio. E che spetti al nostro difendere fino in fondo le ragioni della purezza e della grazia.
La scelta della «inesistenza» è coerente con la premessa dell’«ordine naturale». Porta a conseguenze paradossali. Supponiamo che due persone del medesimo sesso abbiano doppia cittadinanza, in Italia e in uno stato estero che riconosce il matrimonio tra omosessuali. Si sposano in quello stato, e secondo gli articoli 27 e 28 della legge 31 maggio 1995, n.218, che disciplina la fattispecie, il matrimonio da loro contratto all’estero dovrebbe essere valido anche in Italia. Invece, è inesistente. Quindi, nel momento in cui scendono dall’aereo e pongono piede sul territorio italiano il loro status giuridico cambia da coniugati a single, in modo istantaneo e automatico. Niente figli, niente comunione di beni, niente diritti e obblighi reciproci. Semplici conoscenti occasionali. Quando risalgono sull’aereo, tutto si ristabilisce. Uno scenario insensato.
In Italia, i giudici hanno retto in larga misura il peso del cambiamento. È per la via giudiziale che il diritto a formare una comunione stabile di affetti e interessi, ad avere dei figli, ad educarli, è stato costruito come un diritto fondamentale e inviolabile di ogni persona. Un diritto che come tale prescinde dal sesso. E che essendo di ognuno non può essere compresso o negato dal legislatore in base a una definizione legislativa della coppia.
Lo dice la Corte costituzionale. Ad esempio nella sentenza 162/2014, sulla fecondazione eterologa. Ma va aggiunto che in buona parte il problema nasce con la stessa Corte. Con la sentenza 138/2010 lesse nel matrimonio di cui all’articolo 29 la disciplina del codice civile del 1942, che ovviamente conosceva soltanto la coppia formata da due persone di sesso diverso. Ben si poteva invece dare una lettura evolutiva, che tenesse conto del nuovo. Ma la Corte non lo fece. E solo parzialmente ha poi recuperato con la sent. 170/2014, sul cosiddetto divorzio automatico o imposto nel caso di cambio di sesso di uno dei coniugi. Ha affermato il diritto a una piena tutela giuridica della coppia del medesimo sesso, dichiarando la incostituzionalità. Ma ha rinviato al legislatore, rimanendo la distinzione posta nella sentenza 138 con la miope lettura della nozione costituzionale di matrimonio. Ha così caricato sui diritti fondamentali tutto il prezzo dell’inerzia legislativa. Ed è appunto quel che oggi accade.
Non era nemmeno necessario arrivare alla Corte di Strasburgo (Oliari e altri contro Italia, 21 luglio 2015) per sapere che il vuoto normativo sul tema era ed è inaccettabile. La nostra Costituzione avrebbe certamente retto una sentenza più coraggiosa, e una interpretazione evolutiva. In questa materia e in molte altre cose, è più avanzata non del paese, ma delle scelte politiche oggi espresse nelle istituzioni. Forse da questo punto la sentenza del Consiglio di Stato servirà a qualcosa, spingendo il disegno di legge Cirinnà-bis fuori dalle secche in cui è con ogni evidenza finito.
Il Consiglio di Stato non ha inteso leggere il cambiamento. Al contrario, la sentenza avrebbe potuto essere scritta tal quale venti o trenta anni fa. Una sentenza vintage, da antiquariato giurisprudenziale. Il relatore Deodato è accusato di integralismo per le posizioni adottate sui social networks e si difende dicendo che la pronuncia è collegiale. Lo sappiamo. Ma sappiamo anche che il relatore ha un peso decisivo sulla pronuncia, e che la relazione normalmente non si affida a chi è noto per le esternazioni già fatte in materia.
In ogni caso, una sentenza che non rende al giudice un buon servizio. In uno Stato laico, la giurisdizione è il tempio del diritto, non di una fede. Di nessuna fede.