NADIA URBINATI SULLA RIFORMA DEL SENATO: UNA SVOLTA AUTORITARIA?

di Gianni Saporetti - UNA CITTÀ n. 214 / 2014 - 08/09/2014
Nadia Urbinati insegna Teoria politica alla Columbia University di New York. Collabora a varie ri-viste di teoria e filosofia politica. Recentemente ha pubblicato Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e verità, Università Bocconi, 2014

Si di­scu­te mol­to se sia in at­to una svol­ta au­to­ri­ta­ria. Tu co­sa ne pen­si?
Al­lo­ra, qui stia­mo par­lan­do di cam­bia­re la no­stra Co­sti­tu­zio­ne in ma­nie­ra so­stan­zia­le. Chi pro­po­ne con de­ter­mi­na­zio­ne (e l’u­so di mol­to po­te­re) que­sto cam­bia­men­to lo fa sen­za spie­ga­re con la ne­ces­sa­ria e do­vu­ta pre­ci­sio­ne per­ché è ne­ces­sa­rio; lo fa co­me se cam­bia­re la Co­sti­tu­zio­ne fos­se un fat­to or­di­na­rio e che, so­prat­tut­to, ap­par­tie­ne agli elet­ti, non a tut­ti i cit­ta­di­ni (ver­rà cer­ta­men­te pro­mos­so un re­fe­ren­dum, ma la for­za del­le opi­nio­ni è im­pa­ri e quin­di il re­fe­ren­dum può es­se­re un ple­bi­sci­to, che è quan­to vuo­le chi pro­muo­ve que­sta ri­for­ma).
Non ap­par­tie­ne ai cit­ta­di­ni nel mo­men­to del­l’e­la­bo­ra­zio­ne del pro­get­to di ri­for­ma. Per esem­pio, il Par­ti­to de­mo­cra­ti­co non ha nem­me­no aper­to una di­scus­sio­ne al pro­prio in­ter­no per spie­ga­re, far ca­pi­re e rac­co­glie­re le opi­nio­ni. A me­tà lu­glio ho par­te­ci­pa­to a un in­con­tro al­la fe­sta del Par­ti­to de­mo­cra­ti­co a Ri­mi­ni sul­le for­me tra­di­zio­na­li e spe­ri­men­ta­li di de­mo­cra­zia par­te­ci­pa­ta, de­mo­cra­zia dal bas­so co­me si di­ce, ma nul­la è sta­to det­to sui cam­bia­men­ti in at­to del­la più im­por­tan­te leg­ge del­la no­stra vi­ta col­let­ti­va. Si par­la in astrat­to di par­te­ci­pa­zio­ne e non si fa nul­la di con­cre­to per ren­de­re al­me­no co­lo­ro che so­no vi­ci­ni al Pd par­te­ci­pi di que­sto mu­ta­men­to epo­ca­le. In pas­sa­to, quan­do i par­ti­ti met­te­va­no in pie­di gros­se po­li­ti­che, era pras­si in­di­re riu­nio­ni, mol­te e ri­pe­tu­te; era for­se un ri­tua­li­smo per­ché co­mun­que l’og­get­to su cui si di­scu­te­va era già sta­to in mol­ta par­te de­ci­so, tut­ta­via vi era l’i­dea che non si po­tes­se pre­scin­de­re dal­la re­la­zio­ne con i cit­ta­di­ni; era con­vin­zio­ne an­che del­le éli­te che le po­li­ti­che do­ve­va­no es­se­re ma­ci­na­te met­ten­do an­che in con­to che, ma­ci­nan­do­le, for­se qual­co­sa po­te­va an­che es­se­re cam­bia­to. Ora, in­ve­ce, non c’è più nem­me­no que­sto ten­ta­ti­vo di coin­vol­gi­men­to e nel no­me del­la li­be­ra­zio­ne dal­le ri­tua­li­tà di par­ti­to si è ap­pro­da­ti a un ve­ro e pro­prio de­ci­sio­ni­smo dei di­ri­gen­ti, an­zi del ca­po. Noi, ov­ve­ro tut­ti i cit­ta­di­ni in ge­ne­ra­le, vi­ci­ni o non al Pd, sia­mo fuo­ri dal­la po­li­ti­ca e fuo­ri dai cir­cui­ti de­li­be­ra­ti­vi uf­fi­cia­li,co­me se quel che suc­ce­de a Ro­ma non ci ri­guar­das­se più, co­me se noi fos­si­mo es­sen­zial­men­te so­lo spet­ta­to­ri di un fa­re che suc­ce­de da­van­ti ai no­stri oc­chi, sui me­dia, ma sen­za di noi. La po­li­ti­ca è un af­fa­re lo­ro. Noi sia­mo so­lo pub­bli­co. E la Co­sti­tu­zio­ne se­gue que­sto de­sti­no. Nes­su­no ci ha spie­ga­to con ra­gio­ni ra­gio­na­te per­ché il bi­ca­me­ra­li­smo che ab­bia­mo ora non fun­zio­na, per­ché ave­re un Se­na­to no­mi­na­to sia me­glio che aver­ne uno elet­to. Gli ar­go­men­ti ad­dot­ti dal Pre­si­den­te del Con­si­glio so­no sem­pli­ce­men­te ir­ri­le­van­ti: per­ché il Se­na­to co­sta trop­po e per­ché fa per­de­re tem­po a chi de­ve de­ci­de­re. Co­sì la ri­for­ma è pas­sa­ta sen­za che qua­si ce ne ac­cor­ges­si­mo e co­me se tut­ti i pro­ble­mi che bloc­ca­no il pae­se sia­no al fon­do ri­du­ci­bi­li a uno so­lo: l’a­ve­re or­ga­ni­smi elet­ti­vi. La de­mo­cra­zia, par di ca­pi­re, cau­sa pro­ble­ma. Se i se­na­to­ri non fos­se­ro elet­ti i pro­ble­mi sa­reb­be­ro mi­no­ri. La lo­gi­ca si è già af­fer­ma­ta con le Pro­vin­ce: non si è tol­ta la strut­tu­ra or­ga­niz­za­ti­va e bu­ro­cra­ti­ca del­le Pro­vin­ce ma i Con­si­gli pro­vin­cia­li elet­ti. C’è da giu­ra­re che as­si­ste­re­mo pre­sto al­la co­stru­zio­ne di al­tri car­roz­zo­ni per la "go­ver­nan­ce” del­le aree me­tro­po­li­ta­ne, dei con­sor­zi di co­mu­ni, ec­ce­te­ra. L’im­por­tan­te è che non ci sia più il rap­por­to di­ret­to coi cittadini.​Sembra che tut­to quel­lo che de­ve es­se­re ri­for­ma­to per­ten­ga al rap­por­to di­ret­to coi cit­ta­di­ni, cioè agli or­ga­ni­smi elet­ti­vi. In­som­ma, si vo­glio­no sfol­ti­re i po­te­ri di­ret­ti dei cit­ta­di­ni.
Quan­do que­sta ri­for­ma del Se­na­to sa­rà ope­ra­ti­va noi eleg­ge­re­mo so­lo tre or­ga­ni­smi: il Con­si­glio co­mu­na­le, quel­lo re­gio­na­le e la Ca­me­ra dei de­pu­ta­ti. E in tut­ti e tre, guar­da ca­so, il me­to­do elet­to­ra­le fa­rà sì che ven­ga pre­mia­ta pri­ma di tut­to la mag­gio­ran­za, non pre­oc­cu­pan­do­si del fat­to che tut­te le com­po­nen­ti del­la cit­ta­di­nan­za deb­ba­no ave­re una rap­pre­sen­tan­za pro­por­zio­na­le al­la lo­ro gran­dez­za: la mag­gio­ran­za avrà più po­te­re e la mi­no­ran­za nu­me­ri­ca ne avrà me­no, pro­prio co­me è ac­ca­du­to con i Con­si­gli co­mu­na­li, che han­no per que­sto vi­sto in­de­bo­li­re mol­to il lo­ro ruo­lo a tut­to van­tag­gio del­l’e­se­cu­ti­vo, ov­ve­ro del Sin­da­co e del­la sua giun­ta ("sua” nel ve­ro sen­so del­la pa­ro­la per­ché è lui che ne sce­glie i com­po­nen­ti). Il Con­si­glio co­mu­na­le è or­ga­niz­za­to e pen­sa­to per es­se­re un pu­ro sup­por­to del Sin­da­co: que­sto è il mo­del­lo che si sta ri­pro­du­cen­do a li­vel­lo na­zio­na­le, con una Ca­me­ra so­la che svol­ge una fun­zio­ne si­mi­le a un Con­si­glio co­mu­na­le, e in cui una for­te mag­gio­ran­za avrà il ruo­lo di so­ste­gno del Go­ver­no, di ra­ti­fi­ca, e la mi­no­ran­za non avrà po­te­re suf­fi­cien­te di fer­mo e po­trà usa­re sol­tan­to me­to­di ostru­zio­ni­sti­ci. A quel pun­to la de­mo­cra­zia sa­rà sbi­lan­cia­ta ver­so il po­te­re de­le­ga­to mas­si­mo che è il po­te­re ese­cu­ti­vo e la fun­zio­ne del­la rap­pre­sen­tan­za si ri­dur­rà a quel­la di eleg­ge­re una mag­gio­ran­za.
Pur­trop­po que­sto pro­ces­so sem­bra inar­re­sta­bi­le, ol­tre­tut­to per­ché do­po tan­ti an­ni di mal­go­ver­no i cit­ta­di­ni so­no pro­ba­bil­men­te stan­chi di ris­se e pos­so­no pen­sa­re che sia ve­nu­to il mo­men­to di crea­re con­cor­dia, e la­scia­re che chi go­ver­na go­ver­ni sen­za trop­pi osta­co­li. Si di­ce in­fat­ti che l’o­biet­ti­vo di un buon si­ste­ma elet­to­ra­le sia di dir­ci la se­ra stes­sa del­la chiu­su­ra del­le ur­ne chi ci go­ver­ne­rà -vo­ta­re co­me as­si­ste­re a una lot­te­ria sul cui ri­sul­ta­to tut­ti pun­ta­no. Vo­ta­re co­me vin­ce­re. La rap­pre­sen­tan­za non è un obiet­ti­vo. Di­ce Mat­teo Ren­zi: dob­bia­mo ave­re su­bi­to la si­cu­rez­za di chi ci go­ver­na. E la mac­chi­na de­ve es­se­re olia­ta in vi­sta di que­sto sco­po: de­ve es­se­re una strut­tu­ra fun­zio­na­le al­la co­stru­zio­ne di una mag­gio­ran­za, pun­to e ba­sta. È una de­mo­cra­zia mag­gio­ri­ta­ri­sta, con un ele­men­to au­to­ri­ta­rio in sen­so tec­ni­co, ov­ve­ro per­ché l’in­te­ro si­ste­ma fa per­no sul­l’e­se­cu­ti­vo.
Io che so­no una buo­na li­be­ra­le non mi fi­do, le due Ca­me­re da­va­no più si­cu­rez­za. Io, co­me de­mo­cra­ti­ca, non mi fi­do, per­ché so che nel di­rit­to di vo­to ci so­no due di­rit­ti: quel­lo di for­ma­re una mag­gio­ran­za e quel­lo di ave­re rap­pre­sen­tan­za, ov­ve­ro man­da­re in Par­la­men­to le no­stre idee.
Que­sta in­si­sten­za os­ses­si­va sul fat­to che il gior­no do­po si de­ve sa­pe­re chi ha vin­to... In Ger­ma­nia ha vin­to la Mer­kel, poi so­no an­da­ti a fa­re i con­ti dei seg­gi e han­no do­vu­to fa­re la gran­de coa­li­zio­ne e ci han­no mes­so pu­re dei me­si per tro­va­re un ac­cor­do… Ma an­che a pre­scin­de­re dal con­te­nu­to del­la ri­for­ma non è in­quie­tan­te an­che il me­to­do adot­ta­to?
Que­sta è una ri­for­ma co­sti­tu­zio­na­le fat­ta dal­l’e­se­cu­ti­vo. Io tro­vo che que­sto sia un fat­to gra­vis­si­mo di per sé, a pre­scin­de­re dal con­te­nu­to, qua­le che sia, fos­se an­che per ra­gio­ni buo­ne.
Sul fat­to del Se­na­to "no­mi­na­to” la di­scus­sio­ne pe­rò è aper­ta, per­ché in Eu­ro­pa i Se­na­ti so­no qua­si tut­ti no­mi­na­ti.
Sì, in Fran­cia, in Ger­ma­nia e al­tri pae­si che pe­rò ven­go­no da una tra­di­zio­ne con­so­li­da­ta, non han­no sman­tel­la­to un si­ste­ma fon­da­to sul­l’e­le­zio­ne di­ret­ta, ma han­no adat­ta­to al si­ste­ma de­mo­cra­ti­co l’e­le­zio­ne in­di­ret­ta. Nel no­stro ca­so si trat­ta di un pas­sag­gio da un si­ste­ma che era più de­mo­cra­ti­co a uno che sa­rà me­no de­mo­cra­ti­co.
Co­min­cia­mo dal­l’os­ser­va­re che, vo­len­do ri­for­ma­re la Co­sti­tu­zio­ne, sa­reb­be op­por­tu­no por­si la se­guen­te do­man­da: "Per­ché ci pro­po­nia­mo di at­tua­re que­sta ri­for­ma? Da qua­le esi­gen­za sia­mo mos­si e per ot­te­ne­re che co­sa?”. Que­sto li­vel­lo pre­li­mi­na­re di chia­rez­za sul­le in­ten­zio­ni è im­por­tan­te per­ché con­sen­te di af­fron­ta­re in ma­nie­ra non ap­pros­si­ma­ti­va il pro­ble­ma, ov­ve­ro dar­gli or­ga­ni­ci­tà e coe­ren­za. In­dub­bia­men­te, so­no due le esi­gen­ze che giu­sti­fi­ca­no una ri­for­ma del­la leg­ge fon­da­men­ta­le del­la no­stra Re­pub­bli­ca: ren­de­re il si­ste­ma po­li­ti­co più tra­spa­ren­te e ac­coun­ta­ble (ri­spon­den­za), e ren­der­lo più fun­zio­na­le. La pri­ma esi­gen­za det­ta la le­git­ti­mi­tà del­le re­go­le e pro­ce­du­re de­mo­cra­ti­che nel­l’e­ra del co­sti­tu­zio­na­li­smo: neu­tra­liz­za­re e im­pe­di­re l’ar­bi­trio (an­che del­la mag­gio­ran­za elet­ta), e per que­sto ren­de­re il po­te­re del­lo Sta­to più ef­fi­ca­ce­men­te espo­sto al con­trol­lo e sa­pien­te­men­te bi­lan­cia­to nei po­te­ri che lo com­pon­go­no, in mo­do che non ci sia ac­cu­mu­lo in nes­su­no di es­si. Se que­sta è l’e­si­gen­za, l’e­le­zio­ne in­di­ret­ta (la no­mi­na da par­te de­gli or­ga­ni­smi di go­ver­no co­mu­na­le e re­gio­na­le) del Se­na­to del­la Re­pub­bli­ca va nel­la di­re­zio­ne con­tra­ria. Per­ché l’e­le­zio­ne in­di­ret­ta dei com­po­nen­ti di un or­ga­no de­li­be­ra­ti­vo (o che par­te­ci­pa co­mun­que al­le de­ci­sio­ni na­zio­na­li, seb­be­ne non a tut­te) è opa­ca ri­spet­to al­l’e­le­zio­ne per suf­fra­gio dei cit­ta­di­ni. Al con­tra­rio, at­tri­bui­sce un enor­me po­te­re di­scre­zio­na­le ad al­cu­ni gran­di elet­to­ri (elet­ti sì per suf­fra­gio uni­ver­sa­le, ma per svol­ge­re fun­zio­ni di go­ver­no ter­ri­to­ria­le), che in que­sto mo­do ac­qui­ste­reb­be­ro un po­te­re su­pe­rio­re a quel­lo di tut­ti gli al­tri cit­ta­di­ni, in vio­la­zio­ne al prin­ci­pio di egua­glian­za po­li­ti­ca. Si ri­sol­ve que­sto vul­nus to­glien­do al Se­na­to il po­te­re di da­re e to­glie­re fi­du­cia al Go­ver­no, ov­ve­ro gli si as­se­gna un po­te­re mez­zo-so­vra­no. In que­sto mo­do, si di­ce, non si to­glie nul­la al po­te­re dei cit­ta­di­ni e del suf­fra­gio. Ve­ro, ma si crea un po­te­re de­le­ga­to nuo­vo e mol­to am­pio. Il pa­ra­dos­so di que­sto Se­na­to no­mi­na­to è che avrà trop­pi po­te­ri per es­se­re com­po­sto di no­mi­na­ti e trop­po po­chi po­te­ri per riu­sci­re a con­trol­la­re gli elet­ti. In­tro­du­ce in­fi­ne un ar­re­tra­men­to pa­le­se ri­spet­to al suf­fra­gio di­ret­to, con un ri­tor­no al XIX se­co­lo, quan­do il vo­to in­di­ret­to ven­ne teo­riz­za­to e usa­to co­me ar­gi­ne al­la de­mo­cra­zia e al­l’in­cal­zan­te espan­sio­ne del suf­fra­gio di­ret­to e se­gre­to. Og­gi lo si ri­spol­ve­ra per ri­spar­mia­re e ve­lo­ciz­za­re le de­ci­sio­ni.
L’e­vo­lu­zio­ne del­la sto­ria po­li­ti­ca oc­ci­den­ta­le è an­da­ta in una di­re­zio­ne con­tra­ria a quel­la del vo­to in­di­ret­to; an­che per­ché è di­ven­ta­to in po­co tem­po un fat­to pro­va­to che que­sto me­to­do di no­mi­na ser­vi­va a ge­ne­ra­re e pro­teg­ge­re un’o­li­gar­chia so­cial-po­li­ti­ca, una clas­se di no­ta­bi­li sen­si­bi­li agli in­te­res­si lo­ca­li o di chi li no­mi­na­va. A ri­pro­va di ciò po­treb­be es­se­re uti­le ri­cor­da­re che il Se­na­to de­gli Sta­ti Uni­ti d’A­me­ri­ca fu nel­la pri­ma fa­se del­la sto­ria del­la fe­de­ra­zio­ne ame­ri­ca­na com­po­sto da no­mi­na­ti da­gli Sta­ti e di­ven­tò un isti­tu­to co­sì cor­rot­to e pie­ga­to agli in­te­res­si non con­trol­la­bi­li dei po­ten­ta­ti lo­ca­li e dei no­ta­bi­li che con­trol­la­va­no le no­mi­ne da in­dur­re il le­gi­sla­to­re a ri­for­mar­lo isti­tuen­do l’e­le­zio­ne di­ret­ta dei suoi mem­bri. Quin­di la stra­da sem­pli­fi­ca­tri­ce e di ri­spar­mio che il Par­ti­to de­mo­cra­ti­co pro­met­te ri­schia di pro­dur­re nuo­ve sac­che di cor­ru­zio­ne e di pri­vi­le­gio. Un po­te­re in ma­no ai gran­di elet­to­ri lo­ca­li, an­che se pa­ga­to con rim­bor­si, sa­rà un’oc­ca­sio­ne di po­te­re ap­pe­ti­bi­le an­che per­ché fuo­ri del con­trol­lo di­ret­to dei cit­ta­di­ni e quin­di me­no scal­fi­bi­le. Pre­ve­di­bil­men­te si au­men­te­rà la fun­zio­ne re­pres­si­va e ai ma­gi­stra­ti ver­rà da­to un nuo­vo set­to­re di con­trol­lo.
Un se­con­do ar­go­men­to che si usa per giu­sti­fi­ca­re que­sta ri­for­ma è che dob­bia­mo se­gui­re mo­del­li riu­sci­ti al­tro­ve, per esem­pio quel­lo te­de­sco. Ma que­sto ar­go­men­to è sba­glia­to e cap­zio­so. La Ger­ma­nia è una fe­de­ra­zio­ne com­piu­ta. Ha una Ca­me­ra di­ret­ta­men­te elet­ta dai cit­ta­di­ni te­de­schi e una Ca­me­ra dei Länder (Bun­de­srat). Que­st’ul­ti­ma è com­po­sta di mem­bri non elet­ti a suf­fra­gio uni­ver­sa­le di­ret­to, ma di espo­nen­ti dei go­ver­ni dei va­ri Länder. Il fat­to mol­to di­ver­so che la fe­de­ra­zio­ne con­sen­te è che que­sta Ca­me­ra di no­mi­na­ti è per dav­ve­ro espres­sio­ne de­gli in­te­res­si dei Länder, e in­fat­ti i suoi mem­bri so­no vin­co­la­ti al man­da­to ri­ce­vu­to dai lo­ro go­ver­ni lo­ca­li per fa­re gli in­te­res­si di ciò di cui so­no i rap­pre­sen­tan­ti (i lo­ro ter­ri­to­ri), in vio­la­zio­ne del ge­ne­ra­le prin­ci­pio del di­vie­to di man­da­to im­pe­ra­ti­vo.L’I­ta­lia an­nac­que­reb­be il mo­del­lo te­de­sco per­ché non da­reb­be man­da­to im­pe­ra­ti­vo ai rap­pre­sen­tan­ti dei ter­ri­to­ri -ma si po­treb­be obiet­ta­re che in que­sto mo­do da­reb­be an­che me­no con­trol­lo e mol­ta me­no ac­coun­ta­bi­li­ty. Se si vuo­le dav­ve­ro fa­re un Se­na­to del­le re­gio­ni e dei ter­ri­to­ri oc­cor­re­reb­be ave­re il co­rag­gio di ap­pro­da­re a un com­piu­to fe­de­ra­li­smo, ap­pun­to co­me in Ger­ma­nia. Di­ver­sa­men­te, il li­be­ro man­da­to a mem­bri di un Se­na­to no­mi­na­to dai ter­ri­to­ri fi­ni­rà per ascri­ve­re lo­ro un po­te­re trop­po gran­de, po­co o nul­la ri­spon­den­te al­l’in­te­res­se dei ter­ri­to­ri e trop­po fuo­ri con­trol­lo. Que­sto è il pa­ra­dos­so di un fe­de­ra­li­smo a me­tà e di un mo­del­lo te­de­sco an­nac­qua­to. In­fi­ne, non si tie­ne con­to del fat­to che la Ger­ma­nia ha man­te­nu­to que­sta sua tra­di­zio­ne dal­l’Ot­to­cen­to, non è re­tro­ces­sa dal vo­to di­ret­to a quel­lo in­di­ret­to, co­me in­ve­ce fa­rem­mo noi. La que­stio­ne è an­che di ra­gio­ne­vo­lez­za e pru­den­za po­li­ti­ca: do­po an­ni di con­dan­ne del­la ca­sta ora si le­git­ti­ma la ca­sta e si chie­de agli ita­lia­ni di de­vol­ve­re il lo­ro po­te­re di ele­zio­ne a fun­zio­na­ri ed elet­ti lo­ca­li, pic­co­li po­ten­ti che le cro­na­che quo­ti­dia­ne ci re­sti­tui­sco­no co­me at­to­ri di una cor­ru­zio­ne ca­pil­la­re ed espan­sa. È il ri­spar­mio una ra­gio­ne suf­fi­cien­te per ri­spol­ve­ra­re il vo­to in­di­ret­to o non si trat­te­rà in­ve­ce di una pro­mes­sa im­pli­ci­ta a una nuo­va ge­ne­ra­zio­ne lo­ca­le di pren­der­si ve­lo­ce­men­te una fet­ta di po­te­re di­scre­zio­na­le? Un Se­na­to che non ri­spon­de agli elet­to­ri per­ché non de­ve co­mun­que sfi­du­cia­re il Go­ver­no ha co­mun­que trop­po po­te­re per non ge­ne­ra­re una nuo­va oli­gar­chia, una nuo­va ca­sta.
La co­sa che pre­oc­cu­pa è an­che che la ri­nun­cia al bi­ca­me­ra­li­smo si le­ga a una leg­ge elet­to­ra­le spic­ca­ta­men­te mag­gio­ri­ta­ria. Nel pas­sa­to il di­bat­ti­to sul mo­no­ca­me­ra­li­smo av­ve­ni­va in un con­te­sto "pro­por­zio­na­le”.
In­fat­ti. Con la ri­for­ma elet­to­ra­le co­sì in­car­di­na­ta al si­ste­ma del­lo Sta­to, il po­te­re del­la mag­gio­ran­za di­ven­ta de­bor­dan­te. Ov­via­men­te, la ge­stio­ne del po­te­re di no­mi­na nel­le Re­gio­ni sa­rà in ma­no, pre­va­len­te­men­te, ai par­ti­ti del­la mag­gio­ran­za e quin­di, fra Re­gio­ni, Se­na­to e Ca­me­ra, avre­mo un si­ste­ma dav­ve­ro mol­to omo­ge­neo di no­mi­na­ti dai par­ti­ti e pre­va­len­te­men­te di quel­li che han­no la mag­gio­ran­za. L’al­li­nea­men­to dal­la pe­ri­fe­ria al cen­tro sa­rà mol­to pro­ba­bi­le con un in­cre­men­to di omo­ge­nei­tà evi­den­te. Te­nia­mo inol­tre pre­sen­te che una Ca­me­ra e un Se­na­to sif­fat­ti eleg­ge­ran­no il Pre­si­den­te del­la Re­pub­bli­ca e di­ret­ta­men­te un ter­zo del­la Cor­te co­sti­tu­zio­na­le e che il Pre­si­den­te ne con­ti­nue­rà a no­mi­na­re, co­me ora, un al­tro ter­zo. Que­sto vuol di­re che la mag­gio­ran­za no­mi­ne­rà la mag­gio­ran­za dei mem­bri del­la Cor­te, ov­ve­ro di chi do­vreb­be con­trol­lar­la. In­som­ma, la mag­gio­ran­za per­mee­rà tut­te le isti­tu­zio­ni. Se si vo­le­va un si­ste­ma mo­no­ca­me­ra­le, bi­so­gna­va ri­ca­li­bra­re dav­ve­ro tut­ta la strut­tu­ra dei po­te­ri del­lo Sta­to.
Al­la fi­ne, per­ché le­ga­re la leg­ge elet­to­ra­le al­la tra­sfor­ma­zio­ne del­la Co­sti­tu­zio­ne, nel­la qua­le la leg­ge elet­to­ra­le non è men­zio­na­ta? Evi­den­te­men­te per­ché co­sì si co­sti­tui­sce un si­ste­ma in­te­gra­to dal qua­le non si esce più, per­ché se un do­ma­ni ci si por­rà il pro­ble­ma di cam­bia­re la leg­ge elet­to­ra­le sa­rà più dif­fi­ci­le per­ché oc­cor­re­rà cam­bia­re tut­to. Que­sta è una stra­te­gia per ren­de­re la mag­gio­ran­za qua­si as­so­lu­ta.
S’è an­che crea­ta una de­ma­go­gia per cui se tu espri­mi una cri­ti­ca sei quel­lo che non vuo­le cam­bia­re nien­te, sei que­sto, que­st’al­tro…
Tu cer­chi di di­scu­te­re, chie­di: "Per­ché lo vuoi fa­re?”, e le ri­spo­ste so­no pe­no­se: "Ah, per i co­sti del­la po­li­ti­ca”; ma al­lo­ra po­trem­mo ces­sa­re di an­da­re a vo­ta­re, per­ché in que­sto mo­do ri­spar­mie­rem­mo mol­to di più! "Per la ve­lo­ci­tà”; ma ve­lo­ci­tà per an­da­re do­ve? E poi, non è for­se ve­ro che in que­sti de­cen­ni di bi­ca­me­ra­li­smo per­fet­to ab­bia­mo pro­dot­to una quan­ti­tà im­pres­sio­nan­te di leg­gi? Non è for­se ve­ro che il Lo­do Al­fa­no è pas­sa­to in 24 ore? Ma ne fa­ces­se­ro di me­no di leg­gi! Quin­di non dan­no ri­spo­ste se­rie su cui po­ter di­scu­te­re. E poi si de­ve re­gi­stra­re una cor­po­sa igno­ran­za isti­tu­zio­na­liz­za­ta, co­me quan­do la mi­ni­stra Ma­ria Ele­na Bo­schi di­ce che nel­le de­mo­cra­zie mo­der­ne non esi­ste l’o­stru­zio­ni­smo! E chi cri­ti­ca è un "gu­fo”. Nien­te di­scus­sio­ne dun­que, ma di­chia­ra­zio­ni, epi­te­ti per­so­na­li, pre­sun­zio­ne di co­no­scen­za, ec­ce­te­ra, ec­ce­te­ra.
E poi vi è la sco­per­ta di De Ga­spe­ri che vo­le­va il bi­ca­me­ra­li­smo! Una sco­per­ta del pif­fe­ro, una gu­fa­ta.
S’è an­che det­to che sen­za in­den­ni­tà a fa­re il se­na­to­re non ci sa­reb­be vo­lu­to an­da­re nes­su­no. Ades­so ci sa­rà chi ci vor­rà an­da­re per l’im­mu­ni­tà, che è peg­gio…
Mol­to peg­gio. Ma è inu­ti­le, s’è crea­to un cli­ma in cui tut­ti stan­no zit­ti, che è pro­prio la peg­gio­re si­tua­zio­ne che una de­mo­cra­zia può ge­ne­ra­re.
Il ca­po­po­po­lo è co­lui che ha in ma­no il lin­guag­gio, lo sti­le, gli ar­go­men­ti, gli obiet­ti­vi. Non è pos­si­bi­le con­te­star­lo su nien­te sen­za es­se­re apo­stro­fa­ti di gu­fi e di­sfat­ti­sti. Eu­ge­nio Scal­fa­ri chia­ma que­sta una de­mo­cra­zia "per­so­na­le”, ma me­glio usa­re le pa­ro­le clas­si­che che in­ven­tar­ne del­le nuo­ve per in­gol­la­re me­glio un ci­bo in­di­ge­sto: si trat­ta di de­mo­cra­zia ple­bi­sci­ta­ria. E che il ca­po go­da del con­sen­so del po­po­lo non ci ren­de me­no a ri­schio di au­to­ri­ta­ri­smo.
Sem­bra di es­se­re di fron­te a un si­ste­ma gia­co­bi­no, di de­stra o di si­ni­stra po­co im­por­ta.
Ec­co, an­dia­mo un po’ in­die­tro. La di­scus­sio­ne se una o due Ca­me­re vie­ne da lon­ta­no…
An­che qui si fa una gran con­fu­sio­ne. Con­tro il bi­ca­me­ra­li­smo non era­no so­lo i gia­co­bi­ni, ma an­che i gi­ron­di­ni, i qua­li era­no con­tro la Ca­me­ra dei Lord, per­ché era quel­la, al­lo­ra, nel Set­te­cen­to, la se­con­da Ca­me­ra. La Ca­me­ra del ter­zo sta­to era una so­la. Pe­rò che co­sa pro­po­se­ro i gi­ron­di­ni con gran­de odio dei gia­co­bi­ni? Il Mar­che­se di Con­dor­cet, nel­la sua pro­po­sta di ri­for­ma co­sti­tu­zio­na­le che scris­se tra il ’92 e il ’93, di­se­gnò una mo­no­ca­me­ra ma strut­tu­ra­ta se­con­do tan­te com­mis­sio­ni, a se­con­da del­le pro­po­ste da di­scu­te­re; non so­lo: i pas­sag­gi dal­le va­rie com­mis­sio­ni avreb­be­ro do­vu­to es­se­re due al­me­no, pro­prio per fer­ma­re la fret­ta; la tem­po­ra­li­tà vie­ne al­lun­ga­ta con un’in­ter­ru­zio­ne di de­ci­sio­ne per far ri­flet­te­re. Con que­ste pau­se di ri­fles­sio­ne e i di­ver­si pas­sag­gi al va­glio del­le com­mis­sio­ni in­ter­ne, era co­me se la mo­no­ca­me­ra aves­se due-tre Ca­me­re al suo in­ter­no. Era un mo­do per­ché la de­mo­cra­zia li­mi­tas­se se stes­sa da se stes­sa, per­ché evi­tas­se di es­se­re "im­me­dia­to” ver­det­to del­la mag­gio­ran­za, sen­za ri­cor­re­re a un po­te­re non de­mo­cra­ti­co co­me quel­lo dei Lord, cioè di mem­bri d’uf­fi­cio. So­lo l’e­le­zio­ne va­le­va a le­git­ti­ma­re il cor­po le­gi­sla­ti­vo. Quin­di c’è mo­no­ca­me­ra­li­smo e mo­no­ca­me­ra­li­smo.
I gia­co­bi­ni rea­gi­ro­no con­tro il po­ve­ro Con­dor­cet, che ven­ne tro­va­to mor­to do­po po­chi me­si di fu­ghe ro­cam­bo­le­sche, e do­po che la sua pro­po­sta di co­sti­tu­zio­ne ven­ne ce­sti­na­ta con l’ac­cu­sa, il pec­ca­to mor­ta­le, di pro­muo­ve­re la fe­de­ra­liz­za­zio­ne del­la Fran­cia.
Con­dor­cet, in­fat­ti, ol­tre a im­ma­gi­na­re una Ca­me­ra co­sì com­ples­sa, co­sì strut­tu­ra­ta nei tem­pi e nel­le com­mis­sio­ni, con­ce­de­va mol­to po­te­re al­le as­sem­blee pri­ma­rie di cui il ter­ri­to­rio na­zio­na­le era dis­se­mi­na­to, le qua­li po­te­va­no chie­de­re al­l’As­sem­blea na­zio­na­le di cam­bia­re una leg­ge o di ave­re una nuo­va leg­ge. As­sem­blee pri­ma­rie che riu­ni­va­no non più di 900 cit­ta­di­ni iscrit­ti.
Co­me si ve­de, il mo­no­ca­me­ra­li­smo gi­ron­di­no era mol­to ar­ti­co­la­to: dal bas­so al­l’al­to era un gran­de pro­ces­so oriz­zon­ta­le. E in­fi­ne il go­ver­no cen­tra­le era to­tal­men­te ace­fa­lo, non ave­va il ca­po, ma il Go­ver­no do­ve­va es­se­re un or­ga­no col­let­ti­vo. Que­sto per non ave­re mo­nar­chi o ri­schi ple­bi­sci­ta­ri. L’i­dea di Con­dor­cet era dun­que di con­fu­ta­re Mon­te­squieu sen­za ri­nun­cia­re al­la di­vi­sio­ne del­le fun­zio­ni ma met­ten­do­la den­tro la de­mo­cra­zia: crean­do li­mi­ti da den­tro, men­tre i tra­di­zio­na­li­sti vo­le­va­no due Ca­me­re, una del­le qua­li non elet­ta, per­ché non si fi­da­va­no trop­po del­l’au­to­li­mi­te del Go­ver­no del­la mag­gio­ran­za. E for­se ave­va­no ra­gio­ne: non ti puoi fi­da­re, an­che per­ché non hai sem­pre a di­spo­si­zio­ne un Con­dor­cet. I re­pub­bli­ca­ni e i li­be­ra­li pen­sa­va­no quin­di al­le due Ca­me­re sul mo­del­lo ro­ma­no e poi in­gle­se. E vin­se que­sta ipo­te­si, so­prat­tut­to do­po il fal­li­men­to del­la ri­vo­lu­zio­ne del 1848, che fi­nì con l’in­co­ro­na­men­to mo­noas­sem­blea­re di un ca­po il qua­le poi vol­le com­ple­ta­re l’o­pe­ra fa­cen­do un col­po di sta­to nel di­cem­bre del ’51: que­sto fe­ce Na­po­leo­ne III, che pri­ma eb­be un’in­co­ro­na­zio­ne ple­bi­sci­ta­ria dal­la mo­no­ca­me­ra fran­ce­se. E il li­be­ral-de­mo­cra­ti­co John Stuart Mill scris­se pa­ro­le esem­pla­ri su quel­la brut­ta so­lu­zio­ne; se­con­do lui,era ne­ces­sa­rio es­se­re mol­to pru­den­ti con il Go­ver­no del­la mag­gio­ran­za mo­no­ca­me­ra­le per­ché bi­so­gna­va te­ner pre­sen­te che ci può an­che es­se­re una dit­ta­tu­ra del­la mag­gio­ran­za (ben­ché fab­bri­ca­ta da una mi­no­ran­za ov­ve­ro da al­cu­ni lea­der).
Quin­di il mo­no­ca­me­ra­li­smo cad­de de­fi­ni­ti­va­men­te con Na­po­leo­ne III e la se­con­da Ca­me­ra di­ven­ne uni­ver­sal­men­te uno de­gli stru­men­ti usa­ti per con­te­ne­re il po­te­re del­la mag­gio­ran­za. I de­mo­cra­ti­ci stes­si si fe­ce­ro li­be­ra­li e ac­cet­ta­ro­no di ve­de­re il pe­ri­co­lo in­ter­no al lo­ro si­ste­ma e a pre­ve­nir­lo.
In­ve­ce og­gi, e non so­lo in Ita­lia, le isti­tu­zio­ni de­mo­cra­ti­che, con tut­te le lo­ro re­go­le, ven­go­no con­si­de­ra­te qua­si una pal­la al pie­de dei go­ver­ni…
La po­li­ti­ca or­di­na­ria di­ven­ta tut­to. Quan­do la po­li­ti­ca or­di­na­ria, che è il pre­sen­te, cioè gli in­te­res­si, le or­ga­niz­za­zio­ni, ec­ce­te­ra, si in­fil­tra nel­la Co­sti­tu­zio­ne e la mo­del­la se­con­do le pro­prie esi­gen­ze, quan­do det­ta le nor­me al­la po­li­ti­ca co­sti­tu­zio­na­le, beh, que­sto è quel che si de­ve in­ten­de­re per po­te­re ti­ran­ni­co del­la mag­gio­ran­za. Co­s’al­tro è? Si ma­ni­fe­sta in ma­nie­re di­ver­se ma sem­pre in mo­men­ti di cri­si del par­la­men­ta­ri­smo e di gra­vi cri­si eco­no­mi­che.
Per cui chia­mar­la "de­mo­cra­zia per­so­na­le” è un eu­fe­mi­smo. Non esi­sto­no de­mo­cra­zie per­so­na­li. La de­mo­cra­zia per­so­na­le è ple­bi­sci­ta­ri­smo, col lea­der che pren­de in ma­no un Par­la­men­to or­mai di­ven­ta­to una za­vor­ra di par­ti­ti e co­strui­sce un di­ret­to rap­por­to con le mas­se, che chia­ma a ri­spon­de­re a sé di­ret­ta­men­te, dan­do in que­sto mo­do una fru­sta­ta al si­ste­ma che tor­na a fun­zio­na­re. Max We­ber, che pri­ma e me­glio di tut­ti stu­diò il ple­bi­sci­ta­ri­smo de­mo­cra­ti­co, dis­se che era fon­da­men­ta­le che il Par­la­men­to ci fos­se, che re­stas­se au­to­no­mo dal lea­der per po­ter­lo con­trol­la­re, poi­ché il lea­der ave­va cer­to il po­te­re di da­re ener­gia al­la po­li­ti­ca ma non la ca­pa­ci­tà di li­mi­ta­re se stes­so, una ca­pa­ci­tà che do­ve­va po­ter man­te­ne­re il Par­la­men­to. Per cui an­che quan­do si guar­da con fa­vo­re al lea­der ca­ri­sma­ti­co, al­la de­mo­cra­zia ple­bi­sci­ta­ria, si do­vreb­be pen­sa­re co­mun­que che, al di là del va­lo­re del lea­der, oc­cor­ra pro­teg­ge­re il si­ste­ma sal­va­guar­dan­do il Par­la­men­to, la cui pri­ma fun­zio­ne è di con­trol­lo ol­tre che di le­gi­fe­ra­zio­ne. Se in­ve­ce ren­dia­mo il Par­la­men­to omo­lo­ga­to al lea­der, ov­ve­ro al­la sua mag­gio­ran­za, con una ri­for­ma elet­to­ra­le co­me quel­la che avre­mo, lo de­bi­li­tia­mo pro­prio nel­la fun­zio­ne di con­trol­lo. Que­sto è mol­to di più che un sem­pli­ce ple­bi­sci­ta­ri­smo al­la We­ber, che in fon­do può ap­pa­ri­re in qual­che ca­so uti­le.
Qui il par­ti­to non c’è più.
Il­vo Dia­man­ti scri­ve che è ve­ro che que­sto è il par­ti­to di Ren­zi, pe­rò Ren­zi sen­za par­ti­to non ci sa­reb­be, quin­di c’è an­che il Par­ti­to de­mo­cra­ti­co ol­tre al par­ti­to di Ren­zi. Ma è pro­prio co­sì? Che par­ti­to è que­sto se non quel­lo che Ren­zi vuo­le che sia? È il suo co­mi­ta­to elet­to­ra­le, an­che per­ché le strut­tu­re lo­ca­li non ci so­no più. Cor­re il pa­ra­go­ne con Ber­lu­sco­ni. Cer­te co­se so­no le stes­se: la vec­chia po­li­ti­ca, i ne­mi­ci che im­pe­di­sco­no di fa­re, il pre­mier co­me am­mi­ni­stra­to­re de­le­ga­to… La si­mi­li­tu­di­ne non è pe­re­gri­na, è l’in­sof­fe­ren­za ver­so chi met­te osta­co­li e ver­so lac­ci e lac­ciuo­li. So­lo che Ber­lu­sco­ni ave­va un’op­po­si­zio­ne, Ren­zi non ce l’ha.
Ma mol­to più pre­oc­cu­pan­te è un’al­tra co­sa, la­scia­me­la di­re. Ber­lu­sco­ni ave­va un gran­de han­di­cap (per no­stra for­tu­na): i suoi in­te­res­si eco­no­mi­ci. In­fat­ti che leg­gi ha fat­to? Qua­si so­lo quel­le che do­ve­va­no me­glio tu­te­la­re i pro­pri in­te­res­si. L’in­te­res­se, da buo­ni li­be­ra­li lo sap­pia­mo, è un gran­de fer­mo a tut­ti i po­te­ri: un ti­ran­no non può es­se­re un ve­ro ti­ran­no se ha mol­ti in­te­res­si eco­no­mi­ci suoi. Cer­to sa­rà un oli­gar­ca, per­ché la sua ric­chez­za è il suo pri­mo be­ne; ma quel­la ric­chez­za gli im­pe­di­rà di fa­re tut­to quel che la sua am­bi­zio­ne po­li­ti­ca vor­reb­be; que­sto è il suo pun­to de­bo­le: fa­re so­lo quel che pro­muo­ve­rà la pro­pria ric­chez­za, non tut­to quel che vuo­le. In­fat­ti, com’è suc­ces­so che Ber­lu­sco­ni s’è ri­ti­ra­to sen­za col­po fe­ri­re, in po­che ore? Per­ché al­l’im­prov­vi­so Me­dia­set è crol­la­ta in Bor­sa. Quel­lo è sta­to un fer­mo straor­di­na­rio che ha mes­so in evi­den­za co­me egli fos­se per dav­ve­ro un uo­mo pri­va­to.
Ma Ren­zi non ha nul­la che lo li­mi­ti. Non ha un in­te­res­se pri­va­to, è li­be­ro da tut­ti gli in­te­res­si. Egli è pu­ro po­li­ti­co, so­lo po­li­ti­co, po­li­ti­co to­ta­le. E que­sto, pa­ra­dos­sal­men­te, lo ren­de più pe­ri­co­lo­so se gli uni­ci li­mi­ti che gli pos­so­no es­se­re po­sti, quel­li del­le isti­tu­zio­ni, si in­de­bo­li­sco­no. Non aven­do una ric­chez­za da pro­teg­ge­re che li­mi­ta il suo po­te­re, qua­li al­tri li­mi­ti può ave­re se non quel­li sta­bi­li­ti dal­la Co­sti­tu­zio­ne? Egli ha quin­di da­van­ti a sé un fu­tu­ro ful­gi­do. Di mo­nar­ca che il Par­la­men­to in­co­ro­na e so­stie­ne.
(a cu­ra di Gian­ni Sa­po­ret­ti)

13 aprile 2019

La reazione a catena del caso Assange

Barbara Spinelli - Il fatto Quotidiano
19 marzo 2019

Lettera aperta al segretario generale del PD Nicola Zingaretti

Massimo Villone, Alfiero Grandi, Silvia Manderino, Domenico Gallo