Si discute molto
se sia in atto una svolta autoritaria. Tu cosa ne pensi?
Allora, qui stiamo parlando di cambiare la nostra Costituzione in
maniera sostanziale. Chi propone con determinazione (e l’uso di
molto potere) questo cambiamento lo fa senza spiegare con la necessaria
e dovuta precisione perché è necessario; lo fa come se cambiare la
Costituzione fosse un fatto ordinario e che, soprattutto, appartiene
agli eletti, non a tutti i cittadini (verrà certamente promosso un
referendum, ma la forza delle opinioni è impari e quindi il referendum
può essere un plebiscito, che è quanto vuole chi promuove questa riforma).
Non appartiene ai cittadini nel momento dell’elaborazione del progetto
di riforma. Per esempio, il Partito democratico non ha nemmeno aperto
una discussione al proprio interno per spiegare, far capire e raccogliere
le opinioni. A metà luglio ho partecipato a un incontro alla festa
del Partito democratico a Rimini sulle forme tradizionali e sperimentali
di democrazia partecipata, democrazia dal basso come si dice, ma
nulla è stato detto sui cambiamenti in atto della più importante legge
della nostra vita collettiva. Si parla in astratto di partecipazione
e non si fa nulla di concreto per rendere almeno coloro che sono vicini
al Pd partecipi di questo mutamento epocale. In passato, quando i
partiti mettevano in piedi grosse politiche, era prassi indire riunioni,
molte e ripetute; era forse un ritualismo perché comunque l’oggetto
su cui si discuteva era già stato in molta parte deciso, tuttavia vi
era l’idea che non si potesse prescindere dalla relazione con i cittadini;
era convinzione anche delle élite che le politiche dovevano essere
macinate mettendo anche in conto che, macinandole, forse qualcosa
poteva anche essere cambiato. Ora, invece, non c’è più nemmeno questo
tentativo di coinvolgimento e nel nome della liberazione dalle ritualità
di partito si è approdati a un vero e proprio decisionismo dei dirigenti,
anzi del capo. Noi, ovvero tutti i cittadini in generale, vicini o
non al Pd, siamo fuori dalla politica e fuori dai circuiti deliberativi
ufficiali,come se quel che succede a Roma non ci riguardasse più, come
se noi fossimo essenzialmente solo spettatori di un fare che succede
davanti ai nostri occhi, sui media, ma senza di noi. La politica è un
affare loro. Noi siamo solo pubblico. E la Costituzione segue questo
destino. Nessuno ci ha spiegato con ragioni ragionate perché il bicameralismo
che abbiamo ora non funziona, perché avere un Senato nominato sia meglio
che averne uno eletto. Gli argomenti addotti dal Presidente del Consiglio
sono semplicemente irrilevanti: perché il Senato costa troppo e
perché fa perdere tempo a chi deve decidere. Così la riforma è passata
senza che quasi ce ne accorgessimo e come se tutti i problemi che
bloccano il paese siano al fondo riducibili a uno solo: l’avere organismi
elettivi. La democrazia, par di capire, causa problema. Se i senatori
non fossero eletti i problemi sarebbero minori. La logica si è già
affermata con le Province: non si è tolta la struttura organizzativa
e burocratica delle Province ma i Consigli provinciali eletti. C’è
da giurare che assisteremo presto alla costruzione di altri carrozzoni
per la "governance” delle aree metropolitane, dei consorzi di
comuni, eccetera. L’importante è che non ci sia più il rapporto diretto
coi cittadini.Sembra che tutto quello che deve essere riformato pertenga
al rapporto diretto coi cittadini, cioè agli organismi elettivi. Insomma,
si vogliono sfoltire i poteri diretti dei cittadini.
Quando questa riforma del Senato sarà operativa noi eleggeremo solo
tre organismi: il Consiglio comunale, quello regionale e la Camera
dei deputati. E in tutti e tre, guarda caso, il metodo elettorale farà
sì che venga premiata prima di tutto la maggioranza, non preoccupandosi
del fatto che tutte le componenti della cittadinanza debbano avere
una rappresentanza proporzionale alla loro grandezza: la maggioranza
avrà più potere e la minoranza numerica ne avrà meno, proprio come è
accaduto con i Consigli comunali, che hanno per questo visto indebolire
molto il loro ruolo a tutto vantaggio dell’esecutivo, ovvero del
Sindaco e della sua giunta ("sua” nel vero senso della parola perché
è lui che ne sceglie i componenti). Il Consiglio comunale è organizzato
e pensato per essere un puro supporto del Sindaco: questo è il modello
che si sta riproducendo a livello nazionale, con una Camera sola
che svolge una funzione simile a un Consiglio comunale, e in cui una
forte maggioranza avrà il ruolo di sostegno del Governo, di ratifica,
e la minoranza non avrà potere sufficiente di fermo e potrà usare
soltanto metodi ostruzionistici. A quel punto la democrazia sarà
sbilanciata verso il potere delegato massimo che è il potere esecutivo
e la funzione della rappresentanza si ridurrà a quella di eleggere
una maggioranza.
Purtroppo questo processo sembra inarrestabile, oltretutto perché
dopo tanti anni di malgoverno i cittadini sono probabilmente stanchi
di risse e possono pensare che sia venuto il momento di creare concordia,
e lasciare che chi governa governi senza troppi ostacoli. Si dice infatti
che l’obiettivo di un buon sistema elettorale sia di dirci la sera
stessa della chiusura delle urne chi ci governerà -votare come assistere
a una lotteria sul cui risultato tutti puntano. Votare come vincere.
La rappresentanza non è un obiettivo. Dice Matteo Renzi: dobbiamo
avere subito la sicurezza di chi ci governa. E la macchina deve essere
oliata in vista di questo scopo: deve essere una struttura funzionale
alla costruzione di una maggioranza, punto e basta. È una democrazia
maggioritarista, con un elemento autoritario in senso tecnico, ovvero
perché l’intero sistema fa perno sull’esecutivo.
Io che sono una buona liberale non mi fido, le due Camere davano più
sicurezza. Io, come democratica, non mi fido, perché so che nel diritto
di voto ci sono due diritti: quello di formare una maggioranza e quello
di avere rappresentanza, ovvero mandare in Parlamento le nostre
idee.
Questa insistenza ossessiva sul
fatto che il giorno dopo si deve sapere chi ha vinto... In Germania ha
vinto la Merkel, poi sono andati a fare i conti dei seggi e hanno dovuto
fare la grande coalizione e ci hanno messo pure dei mesi per trovare
un accordo… Ma anche a prescindere dal contenuto della riforma non
è inquietante anche il metodo adottato?
Questa è una riforma costituzionale fatta dall’esecutivo. Io trovo
che questo sia un fatto gravissimo di per sé, a prescindere dal contenuto,
quale che sia, fosse anche per ragioni buone.
Sul fatto del Senato "nominato”
la discussione però è aperta, perché in Europa i Senati sono quasi
tutti nominati.
Sì, in Francia, in Germania e altri paesi che però vengono da una tradizione
consolidata, non hanno smantellato un sistema fondato sull’elezione
diretta, ma hanno adattato al sistema democratico l’elezione indiretta.
Nel nostro caso si tratta di un passaggio da un sistema che era più democratico
a uno che sarà meno democratico.
Cominciamo dall’osservare che, volendo riformare la Costituzione,
sarebbe opportuno porsi la seguente domanda: "Perché ci proponiamo
di attuare questa riforma? Da quale esigenza siamo mossi e per ottenere
che cosa?”. Questo livello preliminare di chiarezza sulle intenzioni
è importante perché consente di affrontare in maniera non approssimativa
il problema, ovvero dargli organicità e coerenza. Indubbiamente,
sono due le esigenze che giustificano una riforma della legge fondamentale
della nostra Repubblica: rendere il sistema politico più trasparente
e accountable (rispondenza), e renderlo più funzionale. La prima
esigenza detta la legittimità delle regole e procedure democratiche
nell’era del costituzionalismo: neutralizzare e impedire l’arbitrio
(anche della maggioranza eletta), e per questo rendere il potere dello
Stato più efficacemente esposto al controllo e sapientemente bilanciato
nei poteri che lo compongono, in modo che non ci sia accumulo in nessuno
di essi. Se questa è l’esigenza, l’elezione indiretta (la nomina
da parte degli organismi di governo comunale e regionale) del Senato
della Repubblica va nella direzione contraria. Perché l’elezione
indiretta dei componenti di un organo deliberativo (o che partecipa
comunque alle decisioni nazionali, sebbene non a tutte) è opaca rispetto
all’elezione per suffragio dei cittadini. Al contrario, attribuisce
un enorme potere discrezionale ad alcuni grandi elettori (eletti
sì per suffragio universale, ma per svolgere funzioni di governo territoriale),
che in questo modo acquisterebbero un potere superiore a quello di
tutti gli altri cittadini, in violazione al principio di eguaglianza
politica. Si risolve questo vulnus togliendo al Senato il potere
di dare e togliere fiducia al Governo, ovvero gli si assegna un potere
mezzo-sovrano. In questo modo, si dice, non si toglie nulla al potere
dei cittadini e del suffragio. Vero, ma si crea un potere delegato
nuovo e molto ampio. Il paradosso di questo Senato nominato è che
avrà troppi poteri per essere composto di nominati e troppo pochi
poteri per riuscire a controllare gli eletti. Introduce infine un
arretramento palese rispetto al suffragio diretto, con un ritorno
al XIX secolo, quando il voto indiretto venne teorizzato e usato come
argine alla democrazia e all’incalzante espansione del suffragio
diretto e segreto. Oggi lo si rispolvera per risparmiare e velocizzare
le decisioni.
L’evoluzione della storia politica occidentale è andata in una
direzione contraria a quella del voto indiretto; anche perché è diventato
in poco tempo un fatto provato che questo metodo di nomina serviva
a generare e proteggere un’oligarchia social-politica, una classe
di notabili sensibili agli interessi locali o di chi li nominava.
A riprova di ciò potrebbe essere utile ricordare che il Senato degli
Stati Uniti d’America fu nella prima fase della storia della federazione
americana composto da nominati dagli Stati e diventò un istituto
così corrotto e piegato agli interessi non controllabili dei potentati
locali e dei notabili che controllavano le nomine da indurre il legislatore
a riformarlo istituendo l’elezione diretta dei suoi membri. Quindi
la strada semplificatrice e di risparmio che il Partito democratico
promette rischia di produrre nuove sacche di corruzione e di privilegio.
Un potere in mano ai grandi elettori locali, anche se pagato con rimborsi,
sarà un’occasione di potere appetibile anche perché fuori del controllo
diretto dei cittadini e quindi meno scalfibile. Prevedibilmente
si aumenterà la funzione repressiva e ai magistrati verrà dato un
nuovo settore di controllo.
Un secondo argomento che si usa per giustificare questa riforma è
che dobbiamo seguire modelli riusciti altrove, per esempio quello
tedesco. Ma questo argomento è sbagliato e capzioso. La Germania è
una federazione compiuta. Ha una Camera direttamente eletta dai
cittadini tedeschi e una Camera dei Länder (Bundesrat). Quest’ultima
è composta di membri non eletti a suffragio universale diretto, ma
di esponenti dei governi dei vari Länder. Il fatto molto diverso che
la federazione consente è che questa Camera di nominati è per davvero
espressione degli interessi dei Länder, e infatti i suoi membri sono
vincolati al mandato ricevuto dai loro governi locali per fare
gli interessi di ciò di cui sono i rappresentanti (i loro territori),
in violazione del generale principio del divieto di mandato imperativo.L’Italia
annacquerebbe il modello tedesco perché non darebbe mandato imperativo
ai rappresentanti dei territori -ma si potrebbe obiettare che in questo
modo darebbe anche meno controllo e molta meno accountability. Se
si vuole davvero fare un Senato delle regioni e dei territori occorrerebbe
avere il coraggio di approdare a un compiuto federalismo, appunto
come in Germania. Diversamente, il libero mandato a membri di un Senato
nominato dai territori finirà per ascrivere loro un potere troppo
grande, poco o nulla rispondente all’interesse dei territori e
troppo fuori controllo. Questo è il paradosso di un federalismo a
metà e di un modello tedesco annacquato. Infine, non si tiene conto
del fatto che la Germania ha mantenuto questa sua tradizione dall’Ottocento,
non è retrocessa dal voto diretto a quello indiretto, come invece
faremmo noi. La questione è anche di ragionevolezza e prudenza politica:
dopo anni di condanne della casta ora si legittima la casta e si chiede
agli italiani di devolvere il loro potere di elezione a funzionari
ed eletti locali, piccoli potenti che le cronache quotidiane ci restituiscono
come attori di una corruzione capillare ed espansa. È il risparmio
una ragione sufficiente per rispolverare il voto indiretto o non
si tratterà invece di una promessa implicita a una nuova generazione
locale di prendersi velocemente una fetta di potere discrezionale?
Un Senato che non risponde agli elettori perché non deve comunque sfiduciare
il Governo ha comunque troppo potere per non generare una nuova oligarchia,
una nuova casta.
La cosa che preoccupa è anche che
la rinuncia al bicameralismo si lega a una legge elettorale spiccatamente
maggioritaria. Nel passato il dibattito sul monocameralismo avveniva
in un contesto "proporzionale”.
Infatti. Con la riforma elettorale così incardinata al sistema
dello Stato, il potere della maggioranza diventa debordante. Ovviamente,
la gestione del potere di nomina nelle Regioni sarà in mano, prevalentemente,
ai partiti della maggioranza e quindi, fra Regioni, Senato e Camera,
avremo un sistema davvero molto omogeneo di nominati dai partiti e
prevalentemente di quelli che hanno la maggioranza. L’allineamento
dalla periferia al centro sarà molto probabile con un incremento
di omogeneità evidente. Teniamo inoltre presente che una Camera e
un Senato siffatti eleggeranno il Presidente della Repubblica e
direttamente un terzo della Corte costituzionale e che il Presidente
ne continuerà a nominare, come ora, un altro terzo. Questo vuol dire
che la maggioranza nominerà la maggioranza dei membri della Corte,
ovvero di chi dovrebbe controllarla. Insomma, la maggioranza permeerà
tutte le istituzioni. Se si voleva un sistema monocamerale, bisognava
ricalibrare davvero tutta la struttura dei poteri dello Stato.
Alla fine, perché legare la legge elettorale alla trasformazione
della Costituzione, nella quale la legge elettorale non è menzionata?
Evidentemente perché così si costituisce un sistema integrato dal
quale non si esce più, perché se un domani ci si porrà il problema di
cambiare la legge elettorale sarà più difficile perché occorrerà
cambiare tutto. Questa è una strategia per rendere la maggioranza
quasi assoluta.
S’è anche creata una demagogia per
cui se tu esprimi una critica sei quello che non vuole cambiare niente,
sei questo, quest’altro…
Tu cerchi di discutere, chiedi: "Perché lo vuoi fare?”, e le risposte
sono penose: "Ah, per i costi della politica”; ma allora potremmo
cessare di andare a votare, perché in questo modo risparmieremmo
molto di più! "Per la velocità”; ma velocità per andare dove? E
poi, non è forse vero che in questi decenni di bicameralismo perfetto
abbiamo prodotto una quantità impressionante di leggi? Non è forse
vero che il Lodo Alfano è passato in 24 ore? Ma ne facessero di meno
di leggi! Quindi non danno risposte serie su cui poter discutere. E
poi si deve registrare una corposa ignoranza istituzionalizzata,
come quando la ministra Maria Elena Boschi dice che nelle democrazie
moderne non esiste l’ostruzionismo! E chi critica è un "gufo”.
Niente discussione dunque, ma dichiarazioni, epiteti personali,
presunzione di conoscenza, eccetera, eccetera.
E poi vi è la scoperta di De Gasperi che voleva il bicameralismo!
Una scoperta del piffero, una gufata.
S’è anche detto che senza indennità
a fare il senatore non ci sarebbe voluto andare nessuno. Adesso ci
sarà chi ci vorrà andare per l’immunità, che è peggio…
Molto peggio. Ma è inutile, s’è creato un clima in cui tutti stanno zitti,
che è proprio la peggiore situazione che una democrazia può generare.
Il capopopolo è colui che ha in mano il linguaggio, lo stile, gli argomenti,
gli obiettivi. Non è possibile contestarlo su niente senza essere
apostrofati di gufi e disfattisti. Eugenio Scalfari chiama questa
una democrazia "personale”, ma meglio usare le parole classiche
che inventarne delle nuove per ingollare meglio un cibo indigesto:
si tratta di democrazia plebiscitaria. E che il capo goda del consenso
del popolo non ci rende meno a rischio di autoritarismo.
Sembra di essere di fronte a un sistema giacobino, di destra o di sinistra
poco importa.
Ecco, andiamo un po’ indietro. La
discussione se una o due Camere viene da lontano…
Anche qui si fa una gran confusione. Contro il bicameralismo non erano
solo i giacobini, ma anche i girondini, i quali erano contro la Camera
dei Lord, perché era quella, allora, nel Settecento, la seconda Camera.
La Camera del terzo stato era una sola. Però che cosa proposero i girondini
con grande odio dei giacobini? Il Marchese di Condorcet, nella sua proposta
di riforma costituzionale che scrisse tra il ’92 e il ’93, disegnò
una monocamera ma strutturata secondo tante commissioni, a seconda
delle proposte da discutere; non solo: i passaggi dalle varie commissioni
avrebbero dovuto essere due almeno, proprio per fermare la fretta;
la temporalità viene allungata con un’interruzione di decisione
per far riflettere. Con queste pause di riflessione e i diversi passaggi
al vaglio delle commissioni interne, era come se la monocamera avesse
due-tre Camere al suo interno. Era un modo perché la democrazia limitasse
se stessa da se stessa, perché evitasse di essere "immediato”
verdetto della maggioranza, senza ricorrere a un potere non democratico
come quello dei Lord, cioè di membri d’ufficio. Solo l’elezione valeva
a legittimare il corpo legislativo. Quindi c’è monocameralismo
e monocameralismo.
I giacobini reagirono contro il povero Condorcet, che venne trovato
morto dopo pochi mesi di fughe rocambolesche, e dopo che la sua proposta
di costituzione venne cestinata con l’accusa, il peccato mortale,
di promuovere la federalizzazione della Francia.
Condorcet, infatti, oltre a immaginare una Camera così complessa,
così strutturata nei tempi e nelle commissioni, concedeva molto potere
alle assemblee primarie di cui il territorio nazionale era disseminato,
le quali potevano chiedere all’Assemblea nazionale di cambiare
una legge o di avere una nuova legge. Assemblee primarie che riunivano
non più di 900 cittadini iscritti.
Come si vede, il monocameralismo girondino era molto articolato:
dal basso all’alto era un grande processo orizzontale. E infine il
governo centrale era totalmente acefalo, non aveva il capo, ma il Governo
doveva essere un organo collettivo. Questo per non avere monarchi
o rischi plebiscitari. L’idea di Condorcet era dunque di confutare
Montesquieu senza rinunciare alla divisione delle funzioni ma mettendola
dentro la democrazia: creando limiti da dentro, mentre i tradizionalisti
volevano due Camere, una delle quali non eletta, perché non si fidavano
troppo dell’autolimite del Governo della maggioranza. E forse avevano
ragione: non ti puoi fidare, anche perché non hai sempre a disposizione
un Condorcet. I repubblicani e i liberali pensavano quindi alle
due Camere sul modello romano e poi inglese. E vinse questa ipotesi,
soprattutto dopo il fallimento della rivoluzione del 1848, che finì
con l’incoronamento monoassembleare di un capo il quale poi volle
completare l’opera facendo un colpo di stato nel dicembre del ’51:
questo fece Napoleone III, che prima ebbe un’incoronazione plebiscitaria
dalla monocamera francese. E il liberal-democratico John Stuart
Mill scrisse parole esemplari su quella brutta soluzione; secondo
lui,era necessario essere molto prudenti con il Governo della maggioranza
monocamerale perché bisognava tener presente che ci può anche essere
una dittatura della maggioranza (benché fabbricata da una minoranza
ovvero da alcuni leader).
Quindi il monocameralismo cadde definitivamente con Napoleone
III e la seconda Camera divenne universalmente uno degli strumenti
usati per contenere il potere della maggioranza. I democratici
stessi si fecero liberali e accettarono di vedere il pericolo interno
al loro sistema e a prevenirlo.
Invece oggi, e non solo in Italia,
le istituzioni democratiche, con tutte le loro regole, vengono considerate
quasi una palla al piede dei governi…
La politica ordinaria diventa tutto. Quando la politica ordinaria,
che è il presente, cioè gli interessi, le organizzazioni, eccetera,
si infiltra nella Costituzione e la modella secondo le proprie esigenze,
quando detta le norme alla politica costituzionale, beh, questo è
quel che si deve intendere per potere tirannico della maggioranza.
Cos’altro è? Si manifesta in maniere diverse ma sempre in momenti
di crisi del parlamentarismo e di gravi crisi economiche.
Per cui chiamarla "democrazia personale” è un eufemismo. Non
esistono democrazie personali. La democrazia personale è plebiscitarismo,
col leader che prende in mano un Parlamento ormai diventato una zavorra
di partiti e costruisce un diretto rapporto con le masse, che chiama
a rispondere a sé direttamente, dando in questo modo una frustata
al sistema che torna a funzionare. Max Weber, che prima e meglio di
tutti studiò il plebiscitarismo democratico, disse che era fondamentale
che il Parlamento ci fosse, che restasse autonomo dal leader per poterlo
controllare, poiché il leader aveva certo il potere di dare energia
alla politica ma non la capacità di limitare se stesso, una capacità
che doveva poter mantenere il Parlamento. Per cui anche quando si
guarda con favore al leader carismatico, alla democrazia plebiscitaria,
si dovrebbe pensare comunque che, al di là del valore del leader, occorra
proteggere il sistema salvaguardando il Parlamento, la cui prima
funzione è di controllo oltre che di legiferazione. Se invece rendiamo
il Parlamento omologato al leader, ovvero alla sua maggioranza,
con una riforma elettorale come quella che avremo, lo debilitiamo
proprio nella funzione di controllo. Questo è molto di più che un semplice
plebiscitarismo alla Weber, che in fondo può apparire in qualche caso
utile.
Qui il partito non c’è più.
Ilvo Diamanti scrive che è vero che questo è il partito di Renzi, però
Renzi senza partito non ci sarebbe, quindi c’è anche il Partito democratico
oltre al partito di Renzi. Ma è proprio così? Che partito è questo se
non quello che Renzi vuole che sia? È il suo comitato elettorale, anche
perché le strutture locali non ci sono più. Corre il paragone con Berlusconi.
Certe cose sono le stesse: la vecchia politica, i nemici che impediscono
di fare, il premier come amministratore delegato… La similitudine
non è peregrina, è l’insofferenza verso chi mette ostacoli e verso
lacci e lacciuoli. Solo che Berlusconi aveva un’opposizione, Renzi
non ce l’ha.
Ma molto più preoccupante è un’altra cosa, lasciamela dire. Berlusconi
aveva un grande handicap (per nostra fortuna): i suoi interessi economici.
Infatti che leggi ha fatto? Quasi solo quelle che dovevano meglio tutelare
i propri interessi. L’interesse, da buoni liberali lo sappiamo, è
un grande fermo a tutti i poteri: un tiranno non può essere un vero
tiranno se ha molti interessi economici suoi. Certo sarà un oligarca,
perché la sua ricchezza è il suo primo bene; ma quella ricchezza gli impedirà
di fare tutto quel che la sua ambizione politica vorrebbe; questo è
il suo punto debole: fare solo quel che promuoverà la propria ricchezza,
non tutto quel che vuole. Infatti, com’è successo che Berlusconi s’è
ritirato senza colpo ferire, in poche ore? Perché all’improvviso
Mediaset è crollata in Borsa. Quello è stato un fermo straordinario
che ha messo in evidenza come egli fosse per davvero un uomo privato.
Ma Renzi non ha nulla che lo limiti. Non ha un interesse privato, è libero
da tutti gli interessi. Egli è puro politico, solo politico, politico
totale. E questo, paradossalmente, lo rende più pericoloso se gli
unici limiti che gli possono essere posti, quelli delle istituzioni,
si indeboliscono. Non avendo una ricchezza da proteggere che limita
il suo potere, quali altri limiti può avere se non quelli stabiliti
dalla Costituzione? Egli ha quindi davanti a sé un futuro fulgido.
Di monarca che il Parlamento incorona e sostiene.
(a cura di Gianni Saporetti)
Nadia Urbinati insegna Teoria politica alla Columbia University di New York. Collabora a varie ri-viste di teoria e filosofia politica. Recentemente ha pubblicato Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e verità, Università Bocconi, 2014