- Due modelli di reddito di base garantito. Quattro fondamenti
L’esplosione della disuguaglianza e la crescita della povertà e della disoccupazione stanno oggi minacciando, nei paesi poveri ma anche in quelli di economia avanzata, la sopravvivenza delle persone. Torna perciò a riproporsi, in maniera sempre più urgente e drammatica, la questione del diritto alla vita, sulla cui garanzia si basa, fin dal modello hobbesiano della modernità, la ragion d’essere dello Stato e delle pubbliche istituzioni.
E’ precisamente il diritto alla vita che richiede oggi, quale sua essenziale garanzia, l’introduzione di un reddito minimo di base. Di questa garanzia vitale di livelli minimi di sussistenza e perciò di uguaglianza sostanziale, idonei a garantire a tutti la sopravvivenza, esistono molte versioni, differenti quanto all’estensione dei beneficiari e quanto ai loro presupposti. Per tutti, o solo per i disoccupati, o per i soli disoccupati disposti a lavorare? Per tutti o solo per i più poveri? Per tutti o per determinate fasce d’età? Per l’individuo o per la famiglia? Per una durata illimitata o solo per periodi di tempo determinati? Sottoposto a controprestazioni – per esempio a qualche tipo di attività utile o all’accettazione di un qualsiasi lavoro – oppure incondizionato? Questo reddito di base, infine, deve essere una variabile indipendente o una variabile dipendente dall’economia? Dovrebbe essere comunque garantito – e in quale misura –, oppure la sua garanzia deve dipendere dalla sua fattibilità economica? E cosa deve intendersi per “fattibilità economica”?
Si possono quindi distinguere, schematicamente, due tipi di reddito minimo garantito: il reddito di base garantito ai soli bisognosi, previo accertamento della mancanza di un reddito sufficiente a sopravvivere e/o di altre condizioni, e quello invece conferito a tutti quale oggetto di un diritto fondamentale, e perciò universale, recuperato poi dalle persone abbienti con un adeguato prelievo fiscale.
La prima ipotesi è quella più largamente sperimentata in Europa. Con presupposti differenti, per importi diversi, talora sotto forma di integrazioni, essa è stata realizzata in Austria, in Belgio, nella Repubblica Ceca, in Germania, in Danimarca, nel Regno Unito, in Spagna, in Francia, in Finlandia, nel Lussemburgo, in Irlanda, in Olanda, in Portogallo, in Romania, in Slovenia, in Svezia e perfino, pur se in misura assai ridotta, in Slovacchia e in Polonia. Fanno eccezione la Grecia, la Bulgaria, l’Ungheria e l’Italia, dove sono previste, come si vedrà più oltre, solo misure frammentarie, regionali o limitate ad alcune categorie sociali[2].
La seconda ipotesi è quella ben più radicale e ambiziosa del reddito di base incondizionato. Essa comporta l’attribuzione del reddito minimo a tutti, dalla maggiore età in poi, finanziata mediante adeguate imposte sui redditi. Sganciato dal lavoro, il reddito base non sarebbe legato a condizioni o a controprestazioni, ma verrebbe corrisposto a tutti, a garanzia della dignità personale. Sarebbe un istituto che cambierebbe la natura della democrazia e anche del lavoro, garantendo, più d’ogni altra prestazione sociale, la riduzione delle disuguaglianze sostanziali.
Secondo un luogo comune diffuso in gran parte del mondo politico, una simile garanzia di carattere universale sarebbe un’utopia, un sogno, una proposta suggestiva ma irrealistica. Altri, invece, la propongono come possibile, ma accompagnano la sua proposta con l’accettazione dell’odierna flessibilità del lavoro, o peggio di una riduzione del welfare e delle garanzie degli altri diritti sociali. Si tratta invece, come cercherò di mostrare, di un istituto concretamente realizzabile, la cui funzione garantista della vita e della dignità personale è strettamente connessa, soprattutto nella sua forma universalistica e incondizionata, precisamente alla sua introduzione non certo in alternativa, bensì in aggiunta all’intero sistema delle garanzie dei diritti sociali e del lavoro, che come si è detto nei capitoli che precedono andrebbero restaurate e rafforzate, in particolare con il vincolo della gratuità delle prestazioni sanitarie e di quelle scolastiche. Non solo. Nelle condizioni di precarietà che come si è visto caratterizzano, in forme sempre più drammatiche, il lavoro e la vita di masse crescenti di persone e soprattutto di giovani, il reddito di base garantito a tutti, unitamente a riforme fiscali in senso realmente progressivo, è la sola misura in grado, realisticamente, di fronteggiare la crisi sociale ed economica in atto e la sola alternativa a un futuro di disuguaglianze crescenti, di crescente povertà e di tensioni e conflitti sociali insolubili e distruttivi.
Nelle pagine che seguono indicherò tre fondamenti o ragioni di questa garanzia vitale di un reddito di base: a) il fondamento etico-politico, b) il fondamento giuridico e costituzionale, c) il fondamento economico e sociale. Argomenterò poi le molte ragioni che fanno della sua forma universale e incondizionata un fattore non soltanto di effettiva garanzia dell’uguaglianza sostanziale e delle condizioni minime della sopravvivenza, ma anche di rifondazione della dignità del lavoro.
- A) Il fondamento etico-politico: il diritto alla vita
Qual è, innanzitutto, il fondamento assiologico, morale e filosofico-politico di questo nuovo diritto fondamentale che è il diritto a un reddito minimo vitale? La risposta a questa domanda è la medesima che fu data da Hobbes, alle origini della modernità giuridica, alla questione della ragion d’essere di quell’artificio che è lo Stato: questo fondamento è la garanzia della vita – del diritto fondamentale alla vita – contro la libertà selvaggia e violenta che è propria di quello specifico stato di natura che è oggi il mercato.
Si pone qui una questione teorica di fondo. Alle origini della modernità il diritto alla vita fu concepito come una libertà negativa, cioè come la semplice immunità da aggressioni altrui; mentre la sopravvivenza veniva concepita come un fatto naturale, affidato all’iniziativa individuale. Fu così che John Locke, nel suo Secondo trattato sul governo, poté fondare la sopravvivenza sull’autonomia dell’individuo: sul suo lavoro, e perciò sulla proprietà che del lavoro è il frutto, e quindi sulla sua libera e responsabile iniziativa; in breve, sulla volontà di lavorare. Giacché sarà sempre possibile purché lo si voglia, argomentava Locke, andare a coltivare nuove terre “senza pregiudicare nessuno, perché vi è terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio di abitanti”, se non altro emigrando “in qualche parte interna e deserta dell’America”[3]. Fu su questa base che il primo liberalismo poté teorizzare un nesso forte tra libertà, lavoro, proprietà e vita, alla cui mutua conservazione è finalizzato il contratto sociale; un nesso, peraltro, integrato dallo ius migrandi che già Francisco de Vitoria, come si vedrà nel prossimo capitolo, aveva teorizzato un secolo e mezzo prima come fondamento della conquista spagnola del nuovo mondo.
Oggi quel nesso tra autonomia, lavoro, proprietà e sussistenza, formulato da Locke come il fondamento etico-politico così dello Stato come del mercato capitalista, si è rotto, essendo radicalmente mutati i rapporti tra l’uomo e la natura e tra l’uomo e la società. Si è rotto, in primo luogo, il rapporto tra autonomia individuale e sopravvivenza, assicurato dallo scambio – ingiusto quanto si vuole, ma in via di principio accessibile a tutti – tra lavoro e sussistenza, essendo venuta meno la possibilità per tutti di trovare un lavoro. Si è rotto, in secondo luogo, il rapporto tra ius migrandi e lavoro quale condizione sia pure estrema di sopravvivenza, essendo stato quel diritto negato e trasformato nel suo contrario non appena i flussi migratori si sono invertiti: non più, come in passato, dai nostri paesi avanzati al resto del mondo, a fini di conquista e colonizzazione, ma dal resto del mondo impoverito ai nostri paesi. E si è rotto, in terzo luogo, il rapporto storico tra occupazione e produzione di beni: a seguito dello sviluppo tecnologico, e in particolare delle tecnologie informatiche ed elettroniche, la tendenza odierna, non reversibile ma anzi destinata a crescere, è infatti quella all’aumento della produzione simultaneo alla diminuzione dell’occupazione e alla crescente svalutazione del lavoro.
Non basta più, perciò, la volontà di lavorare, e neppure quella di emigrare per trovare un’occupazione. Non è più vero che il lavoro è accessibile a tutti, purché lo si cerchi e lo si voglia cercare. Il lavoro umano è sempre più fungibile, e non ci sono più campagne cui fare ritorno né nuovi mondi nei quali emigrare. Oggi è perciò diventato impossibile ciò che in passato era possibile: l’accesso al lavoro e più ancora l’emigrazione. Può darsi che questi presupposti elementari della legittimazione del capitalismo siano sempre stati, di fatto, largamente illusori e ideologici. Ciò che è certo è che essi, oggi, hanno sicuramente cessato di esistere, e che la tradizionale legittimazione dell’ordine esistente – sia del diritto che del potere politico – sulla base della sua funzione di tutela della vita è duramente smentita dalla realtà.
Del resto, quanto più cresce il processo di integrazione sociale, tanto più l’uomo si allontana dalle risorse e dalle condizioni naturali di vita e tanto maggiore diventa perciò la dipendenza dalla società della sua sopravvivenza. “L’uomo civilizzato”, scriveva già Tocqueville, “è infinitamente più esposto alle vicissitudini del destino dell’uomo selvaggio”[4]: più esposto, prima di tutto, alla mancanza dei mezzi di sussistenza e degli apporti del lavoro altrui. Giacché il progresso e più in generale il processo di civilizzazione sono avvenuti simultaneamente all’allontanamento crescente dell’uomo dalla natura, allo sviluppo della divisione del lavoro e perciò alla perdita progressiva di autosufficienza delle persone e alla crescita della loro interdipendenza sociale.
A questa crescente interdipendenza sociale si è aggiunto oggi un processo parimenti crescente di espulsione del lavoro dai processi produttivi. Secondo il rapporto McKinsey del 2016, il 49% dei lavori attuali è destinato, nei prossimi dieci anni, ad essere sostituito dalle macchine e dalle tecniche digitali, che trasferiscono sugli acquirenti o sugli utenti gran parte del lavoro richiesto dalle prestazioni di beni e servizi. E’ insomma in atto una rivoluzione di enorme portata nelle forme e nei rapporti di produzione che renderà sempre più marginale il lavoro umano: una rivoluzione che sarà un fattore di progresso anziché di regresso, di liberazione e di crescita civile anziché di crescita della povertà e della precarietà di vita, soltanto se sarà accompagnata da ingenti riduzioni degli orari di lavoro, equa redistribuzione dell’occupazione, abbassamenti dei prezzi, ripensamento delle forme di lotta e di organizzazione sindacale, massima socializzazione della produzione della ricchezza e, soprattutto, forme di solidarietà sociale e sicure garanzie della sussistenza indipendenti dal lavoro.
La disoccupazione crescente e strutturale, che una pur doverosa politica del lavoro può contenere ma certo non eliminare, sta insomma ponendo in crisi la legittimità dell’intero sistema politico ed economico; il quale non può più limitarsi alla garanzia negativa della vita contro gli omicidi, ma richiede altresì le garanzie positive delle condizioni materiali e sociali della sopravvivenza. Dobbiamo finalmente prendere atto che nelle società odierne, caratterizzate da un alto grado di interdipendenza e di sviluppo tecnologico, anche la sopravvivenza, non meno della difesa della vita da indebite aggressioni, è sempre meno un fenomeno naturale ed è sempre più un fenomeno artificiale e sociale. Ben più che in passato, tutte le condizioni della sopravvivenza dell’uomo – dal lavoro all’emigrazione, dall’abitazione alla salute e all’alimentazione di base – sono affidate alla sua integrazione sociale, cioè a condizioni materiali e a circostanze giuridiche e sociali di vita che vanno ben al di là della sua libera iniziativa. Di qui la trasformazione del diritto a sopravvivere in un corollario del classico diritto alla vita, cioè a non essere uccisi: in un diritto fondamentale all’esistenza[5], che al pari della vecchia immunità da aggressioni esterne richiede, in presenza di quella che è ormai una disoccupazione strutturale, di essere garantito dalla sfera pubblica attraverso quella sola garanzia possibile che è precisamente il reddito di base.
- B) Il fondamento costituzionale
Il secondo fondamento del reddito di base è quello giuridico, e specificamente costituzionale, indebitamente leso in Italia, che come si è detto è tra i pochi paesi europei nei quali questa garanzia non esiste. Hanno infatti un fondamento costituzionale entrambe le due versioni del reddito di base: quella condizionata e quella incondizionata e universalistica.
Ha un esplicito fondamento costituzionale, innanzitutto, il reddito di base nella sua prima versione, quella che lo lega allo stato bisogno, e che tuttavia in Italia non esiste. Si tratta di due norme, disposte entrambe dall’articolo 38 della Costituzione, il quale nel 1° comma conferisce il “diritto al mantenimento e all’assistenza sociale” ad “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, e nel 2° comma stabilisce che “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita” non solo “in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia”, ma anche in caso di “disoccupazione involontaria”.
Ebbene, a parte qualche limitata esperienza locale come quella avviata nel Lazio con la legge regionale n. 3 del 3.11.2009[6], nessuna di queste due norme è stata in Italia seriamente attuata. Una modesta attuazione della prima è stata operata con la legge n. 114 del 16.4.1974, la quale ha introdotto la cosiddetta “pensione sociale” nella misura di 492 euro per chi abbia superato i 65 anni di età e sia al di sotto di una soglia minima di reddito, anche se non ha prestato attività lavorative e non ha perciò contribuito all’assicurazione obbligatoria.
Al presupposto della “disoccupazione involontaria” previsto dalla seconda delle norme suddette è invece riconducibile l’istituzione della Cassa integrazione guadagni – quella ordinaria istituita dal decreto legislativo n. 788 del 9.11. 1945 e quella straordinaria introdotta dalla legge n. 1115 del 5.11.1968 e riformata dalla legge n. 164 del 20.5.1975 – che comporta, per determinati periodi di tempo, un’indennità, decisa discrezionalmente dal governo, a favore dei lavoratori sospesi o a orario ridotto, a causa di crisi industriali o comunque non dipendenti dalla loro volontà.
E’ chiaro che nessuna di queste misure – i cosiddetti “ammortizzatori sociali” – integra il reddito minimo garantito previsto dell’articolo 38 sopra citato: nessun reddito di base è stato infatti introdotto né per i poverissimi che non abbiano raggiunto i 65 anni di età, né per i casi di “disoccupazione involontaria”, come quelli della disoccupazione giovanile, non conseguenti alla perdita del lavoro.
Neppure corrisponde alla garanzia voluta dall’articolo 38 della Costituzione il cosiddetto “reddito di inclusione”, introdotto da un decreto legislativo del 2017 e consistente – in sostituzione di altre due misure più o meno del medesimo importo, il Sostegno all’inclusione attiva (Sia) e l’Assegno sociale di disoccupazione (Asdi) – in un assegno mensile oscillante tra i 190 euro (per le persone singole) e i 485 euro (per le famiglie) e concesso, per un periodo massimo di 18 mesi, a chi abbia redditi inferiori a 6.000 euro l’anno e si impegni a svolgere determinate attività o servizi (in totale a circa 400 o 500 mila famiglie, non più di un quarto delle persone in condizioni di povertà assoluta). 190 o 485 euro, infatti, non bastano certo “al mantenimento” o ai “mezzi adeguati alle esigenze di vita” di cui parla l’articolo 38. Inoltre questo cosiddetto reddito di inclusione, a rigore, non è neppure un reddito, bensì un beneficio rateizzato in 18 mesi che può essere rinnovato, con le stesse complicazioni burocratiche, dopo che siano trascorsi almeno sei mesi dall’ultima erogazione. Continua quindi a persistere, come una vistosa e illegittima lacuna, la mancata attuazione di questo essenziale principio costituzionale.
C’è poi, nella Costituzione italiana, un altro fondamento del reddito di base in entrambe le sue versioni, quella universalistica e incondizionata e quella condizionata alla mancanza di lavoro o allo stato di bisogno. Esso fu identificato molti anni fa, da Massimo Severo Giannini, nell’articolo 42 della Costituzione, quello dedicato alla proprietà privata, che nel suo 2° comma stabilisce che la legge “determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti” della proprietà “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Dunque la legge deve rendere possibile a tutti l’accesso alla proprietà. Si tratta, scrisse Giannini, di una norma che può essere intesa non solo come un corollario del principio di uguaglianza formale in ordine alla capacità d’agire e ai diritti civili, ma anche, sulla base dell’associazione a “proprietà privata” del predicato “accessibile a tutti”, come un’enunciazione “interamente esplicativa del principio di costituzione materiale di uguaglianza sostanziale”[7]. Deve insomma risultare accessibile a tutti, secondo questa autorevole interpretazione, una qualche forma di proprietà: quanto meno dei beni elementari necessari alla sussistenza.
Ma è lo spirito stesso della Costituzione – dai principi di uguaglianza e dignità stabiliti dall’articolo 3 ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” previsti dall’articolo 2 – che impone una simile misura. Si aggiungano le norme del diritto sovrastatale: la Carta dei diritti dell’Unione Europea, il cui articolo 34 stabilisce che “ai fini di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti”; la Dichiarazione universale dei 1948, che nell’articolo 25 stabilisce che “ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia”; i Patti sui diritti economici del 1966 sul diritto di ciascuno, stabilito dall’articolo 11, “a un livello di vita adeguato per sé e per la sua famiglia, che includa alimentazione, vestiario ed alloggio”. Sono insomma tutte le carte dei diritti, nazionali e sovranazionali, che impongono questa elementare garanzia della sopravvivenza, sempre più essenziale e vitale in presenza dei mutamenti crescenti delle forme della produzione.
4. C) Il fondamento economico e sociale
Il terzo fondamento del diritto a un reddito minimo di base è quello di carattere economico e sociale. Non parlerò del fondamento sociale di tale diritto nella sua versione condizionata, che è il medesimo di tutti gli altri diritti sociali: la garanzia della sopravvivenza e la riduzione delle eccessive disuguaglianze, quali condizioni della coesione e della pace sociale. Parlerò invece del suo fondamento economico, essendo precisamente il costo economico la principale obiezione alla proposta della sua introduzione, tanto più se in forma universale e incondizionata.
Certamente questo diritto costa, come costano tutti i diritti sociali. Ma l’idea che il costo di tale diritto sia anti-economico è un luogo comune da sfatare. Costa molto di più, anche sul piano economico, lo stato di indigenza provocato dalla sua mancata garanzia. Come si disse in via generale nel § 3.4 del terzo capitolo a proposito del nesso tra sviluppo economico e garanzia dei diritti sociali, anche la garanzia di quel diritto vitale per antonomasia che è il diritto a un reddito di base rappresenta un investimento primario, essendo in grado non solo di assicurare la sopravvivenza e di aumentare il benessere delle persone, ma anche di accrescere le loro capacità produttive.
Sono cose sotto gli occhi di tutti. I paesi europei sono più ricchi rispetto agli altri paesi e al loro stesso passato perché, almeno fino a ieri, hanno garantito, sia pure imperfettamente, i minimi vitali. Al contrario, dove i diritti sociali non sono soddisfatti – dove mancano l’istruzione pubblica, la garanzia dell’assistenza sanitaria, le tutele del lavoro, l’organizzazione sindacale dei lavoratori e, soprattutto, le garanzie della sussistenza – non solo crescono la povertà e le disuguaglianze, ma vengono meno la produttività individuale e quella collettiva e con esse la produzione della ricchezza. Non a caso, in Italia, il boom economico nei primi decenni della Repubblica è avvenuto simultaneamente alla costruzione del diritto del lavoro, allo sviluppo dell’istruzione di massa e al rafforzamento della sanità pubblica. La crisi recessiva è iniziata quando sono stati tagliati i finanziamenti alla scuola, è stato aggredito il servizio sanitario nazionale universale e gratuito e il diritto del lavoro è stato distrutto. Precarietà del lavoro e assenza di garanzie di sussistenza generano solo insicurezza, panico sociale, angoscia, frustrazioni, sprechi di competenze e di saperi, cioè altrettanti fattori di recessione e di riduzione della ricchezza. E sono altresì all’origine di gran parte della delinquenza di strada e di sussistenza.
C’è poi un altro ordine di considerazioni, che riguarda specificamente la garanzia del reddito minimo di base. L’attuale crisi economica colpisce soprattutto le giovani generazioni, che sono le più penalizzate dalla precarizzazione di massa, dalla disoccupazione e dalla sottoccupazione. Essa mette in pericolo il futuro dei giovani, che equivale al futuro in generale, accentuando in maniera esponenziale le disuguaglianze. Oggi, in Italia, un giovane su due non trova lavoro e in 100.000 ogni anno sono costretti a emigrare. Sono quindi soprattutto i giovani che trarrebbero giovamento dal reddito minimo garantito. Anche per questo tale misura sarebbe un sicuro fattore di sviluppo e di riconciliazione della società con la democrazia: perché l’assenza di crescita o la bassissima crescita sono anche l’effetto dell’assenza di opportunità e di prospettive per i giovani, che equivale, ripeto, all’assenza di prospettive per il futuro di tutti. Di tutto questo i giovani, come attestano le loro rivolte in tutto il mondo, sono perfettamente consapevoli. I soli che non ne sono consapevoli o che comunque di tutto questo non si occupano né si preoccupano sono quanti hanno responsabilità di governo.
Luigi Ferrajoli
[1] Dal capitolo 6 di Luigi Ferrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, 2018 Laterza Bari
[2] Una rassegna dei diversi tipi di reddito di base presenti nei diversi paesi europei è contenuta in Bin Italia, Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile, Gruppo Abele, Torino 2012, cap. II, pp. 55-75, che contiene anche un’ampia bibliografia.
[3] J. Locke, Due trattati sul governo cit., cap.V, cap.V, § 36, pp. 267 e 266. Su questa tesi lockiana, che fa dello ius migrandi una condizione della legittimazione politica del capitalismo, tornerò più oltre, nel § 2 del prossimo capitolo.
[4] A. de Tocqueville, Mémoires sur le paupérisme (1838), in Id., Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1989, tome XVI, Mélanges.
[5] L’espressione è di G. Bronzini, Il reddito di cittadinanza. Una proposta per l’Italia e per l’Europa, Gruppo Abele, Torino 2011, p. 35. Sul reddito di base si vedano anche, dell’ormai vasta letteratura, A. Fumagalli, M. Lazzarato (a cura di), Tute bianche, disoccupazione di massa e reddito di cittadinanza, DeriveApprodi, Roma 1999; P. Van Parijs e Y. Vanderborght, Il reddito minimo universale, Bocconi Editore, Milano 2006; Basic Incom Network Italia, Reddito per tutti. Un’utopia concreta per l’era globale, Manifestolibri, Roma 2009; Bin Italia, Reddito minimo garantito cit.; Th. Casadei, Oltre i diritti sociali? Il basic income (e i suoi problemi), Firenze, University Press, Firenze 2012, con ampia bibliografia. Si vedano anche i sei Quaderni per il reddito del 2016, a cura di Bin Italia.
[6] Intitolata “Istituzione di un reddito minimo garantito”. Su queste limitate esperienze, cfr. G. Bronzini, Il reddito di cittadinanza cit., pp. 94-101; Bin Italia, Reddito minimo garantito cit., cap. III, pp. 103-135.
[7] M.S. Giannini, Basi costituzionali della proprietà privata, in “Politica del diritto”, II, 1971, p. 474. Analoga la disposizione dell’articolo 17 della Dichiarazione universale dei diritti umani: “Ogni individuo ha diritto ad avere una proprietà sua o in comune con altri”.