Si gioca in Italia in questi giorni una doppia partita. La prima riguarda il consolidamento politico e di governo dell’operazione Renzi; la seconda il destino di una prospettiva riformatrice seria nel nostro paese, affidata finora, con alti e bassi di varia natura, e talvolta pericolosi cedimenti ed equivoci, — ma affidata comunque, — alle buone sorti del Pd. Se Renzi vince la prima, la seconda verrà sconfitta, per un periodo presumibilmente incalcolabile.
Quel che è uscito finora dal cappello di prestigiatore dell’attuale segretario Pd-presidente del consiglio è poco, confuso, contraddittorio, talvolta inconsistente, spesso inesistente, ma inequivocabilmente declamatorio e inconfondibilmente pubblicitario.
Alcuni punti fermi. L’Italicum fonda le sue fortune sull’asse con Silvio Berlusconi. Il che di per sé farebbe rabbrividire, ma non c’è solo questo. Ha attraversato per un pelo i voti della Camera dei deputati. Lo scontro sulle “quote rosa” ha rimanifestato di colpo l’esistenza sotterranea di un partito dei 101, più fedele a Renzi che al proprio partito e ai programmi elettorali sui quali questo si era conquistato bene o male una maggioranza nell’ultimo voto. Restano, con le “quote rosa”, questioni tutt’altro che irrilevanti come quelle delle preferenze, delle soglie di sbarramento, delle alleanze e del premio fuori misura allo stiracchiato vincitore. Allo stato attuale delle cose è lecito prevedere, in caso di approvazione, il rapido transito alla Corte costituzionale per un sospetto, appunto, d’incostituzionalità (Azzariti, Villone, ripetutamente su queste colonne; ma anche su altri giornali il discorso critico ha cominciato ad affacciarsi).
Dal punto di vista economico, abbiamo tutto e il contrario di tutto: i dieci milioni di sgravi fiscali per i lavoratori dipendenti più colpiti dalla crisi; e la precarizzazione illimitata e definitiva del mercato del lavoro (Alleva, il manifesto, 14 marzo). Ma soprattutto pende sulla manovra l’incertezza sulle sue fonti. Nessuno sa, né il presidente del consiglio finora lo ha detto, a quali voci attingere per rendere reale la sua mirabolante prospettiva (Fubini, la Repubblica 13 marzo; Pennacchi,l’Unità, 14 marzo).
Quel che Renzi offre al paese è un composto ibrido di posizioni, affermazioni, suggestioni e sollecitazioni, di cui non è più sufficiente dire che non è più né di destra né di sinistra, e neanche di centro, almeno nel senso tradizionale del termine, ma una nuova posizione politico-ideologica in cui può entrare di volta in volta tutto, purché confluisca a beneficiare il più possibile il prestigio e la fortuna del Capo (o Capetto che dir si voglia).
Aderire alla prospettiva di Renzi non significa dunque soltanto rinunciare a una prospettiva e a una politica di sinistra; significa rinunciare a una prospettiva “politica”, se per politica s’intende, e continua a intendersi, come si è sempre inteso nella tradizione politica occidentale (mica i Soviet, per intenderci) un corretto, limpido e dichiarato rapporto tra valori, prassi e obbiettivi da raggiungere (e, circolarmente, viceversa).
Così facendo, Renzi si affianca, con la maggior verve che la giovane età e una natura esuberante gli consentono, a quelli che, come ho avuto occasione di dire in un precedente articolo, non sono più i suoi avversari ma i suoi concorrenti. Il populismo gli è, persino più che negli altri due, impresso nella sua stessa matrice genetica. Renzi vola, dal comune di Firenze alla segreteria del Pd e di qui alla presidenza del consiglio, in virtù di un’investitura (le primarie dell’8 dicembre 2013) che non ha, mi verrebbe voglia di dire, nessuna legittimità costituzionale. Non è difficile ora arrivare alla previsione che, se fosse necessario, non solo nel campo delle riforme ma nel campo di tutto, sarebbe disponibile a fare, come ha già fatto, alleanze, esplicite o sotterranee, con tutti.
Se le cose stanno così, — mi rendo conto, naturalmente, che si potrebbe discutere a lungo di queste estremistiche premesse, — bisogna fermare Renzi prima che sia troppo tardi.
Non tanto per consentire la ripresa, anzi, la reviviscenza, di una prospettiva politica di sinistra nel nostro paese, la quale, se cova ancora fra noi, come io penso, verrà fuori a suo tempo; quanto per consentire la ripresa di un libero, effettivo gioco politico tra forze diverse, anche opposte, talvolta persino dialoganti e reciprocamente interconnettentisi, ma dotate ciascuna di un proprio registro identitario, con il quale, organizzativamente ed elettoralmente, identificarsi o distinguersi. Tutto ciò, mi rendo conto, non è facile. Soprattutto c’è poco, anzi quasi nessun tempo per farlo.
La prima scadenza possibile è il dibattito in Senato sulla legge elettorale. Bisogna rivoltare come un calzino il testo che arriva dalla Camera e, come dire, costituzionalizzarlo fino in fondo. Sui punti precedentemente elencati sono stati assunti impegni precisi (Bersani e altri). Vedremo cosa ne verrà fuori.
Ma non basta. Ha colpito, nei mesi che ci separano dall’insediamento di Renzi alla segreteria del Pd, e dalla sua pressoché totale conquista della direzione di quel partito, come frutto anch’esso automatico, delle primarie del dicembre 2013, la subalternità, anzi, in numerose occasioni, la supinità della cosiddetta minoranza interna del Pd, la quale rappresentava tuttavia ancora a quella data quasi la metà degli iscritti al Partito.
Torniamo alle premesse del mio discorso. Se questa subalternità, o supinità, continuano anche durante questa fase nella marcia di avvicinamento di Renzi ad una gestione ormai non più discutibile del potere, non ci saranno altre occasioni nel corso, approssimativamente, dei prossimi dieci anni. Bisognerebbe dunque agire subito, e costituire, tutti gli eletti Pd che intravvedono il rischio mortale contenuto in tale prospettiva, gruppi parlamentari autonomi, distinti da quelli renziani, — e potenzialmente più consistenti di questi, — per rovesciare, nella chiarezza della nuova situazione, lo svolgimento negativo, anzi catastrofico, delle premesse poste alla base del mio discorso. Per impedire a Renzi di conquistare una gestione illimitata del potere, si dovrebbero recuperare ora, subito e solidamente, e cioè con un preciso e indiscutibile atto formale, le condizioni di una prospettiva riformatrice seria nel nostro paese.
Non si tratta di una secessione. Anzi. Si tratta di ristabilire un giusto equilibrio fra l’espressione che c’è stata del voto elettorale e l’uso che ora ne vien fatto. Deputati e senatori del Pd sono stati eletti sulla base di un diverso programma politico, con obiettivi diversi, una diversa leadership, una diversa dinamica delle scelte da assumere. Devono semplicemente far riemergere quel che le primarie di partito del dicembre 2013 sembrerebbero aver innaturalmente seppellito. Se mai saranno gli altri a protestare e a tentare di farsi valere. Ma non dovrebbe prevalere l’opinione di un gruppo su quella di milioni di elettori.
Conseguenze possibili (possibili, ripeto, solo se l’andamento del processo viene rovesciato, e rovesciato ora): riconquistare, — e rifare, — questo partito. E cambiare la composizione partitica che sta attualmente alla base della maggioranza parlamentare che regge questo governo. Se questa composizione cambia, possono aprirsi scenari per ulteriori cambiamenti. Se queste possibilità vengono esperite fino in fondo, non è per niente detto che il governo, cioè l’Italia, — identificazione questa che viene continuamente ed enfaticamente ripetuta, ma che andrebbe quanto meno discussa, — vadano a carte quarantotto. Magari ne viene fuori lo stesso governo, ma diverso. Oppure un governo tutto diverso. E magari più forte. E più credibile, anche a livello europeo. Quel che è assolutamente certo è che restare immobili e indifesi dentro la manovra renziana, rappresenta la morte, non solo per il governo, non solo per il Pd, non solo per i gruppi parlamentari del Pd, ma anche e soprattutto, questa volta sì, per l’Italia.