Siamo un Paese ostile alla prevenzione. Solo quando l’emergenza ci mette con le spalle al muro affrontiamo la realtà, spesso pure con solidarietà e fantasia, ma appena passato il dolore acuto torniamo in uno stato di indifferente apatia di indolente fatalismo fino alla crisi successiva. E che con l’acqua di crisi ci sia da attendersene continuamente lo si sa almeno dall’epoca degli antichi egizi: siccità e alluvioni costellano le cronache di ogni civiltà. Solo che per millenni si è preso ciò che il cielo dispensava, subendolo e attribuendolo a castigo divino, mentre da un paio di secoli la scienza ha compreso le dinamiche idrologiche e con l’aiuto di meteorologia, climatologia, geomorfologia e idraulica oggi dispone di una capacità previsionale utile a prepararsi al futuro. Ammesso che questo sapere venga utilizzato e non messo in un cassetto, limitandosi a predare i beni comuni con improvvisazione, pigrizia, sovrasfruttamento. Ed è così che in Italia vuoi quando si contano i morti nel fango delle inondazioni, vuoi quando si cercano affannose soluzioni alla penuria d’acqua, il copione è sempre lo stesso: un po’ di cronaca vera “ha avuto paura?”, “rinuncerà all’idromassaggio?”, “mai successo a memoria d’uomo!”, seguita da banali polemiche, ricerca del responsabile diretto da additare alla magistratura (nel tentativo di trovare cause semplici a problemi complessi), e qualche analisi più vasta del problema. Tre giorni, poi tutto finisce e si torna al solito chiacchiericcio politico di fondo che spesso poco ha a che fare con le questioni davvero strategiche per il nostro futuro.
E invece è proprio sulle analisi più ampie dei problemi che tocca soffermarsi, approfondire, pianificare, legiferare, agire. Quando parliamo di acqua, risolta l’emergenza dei soccorsi, tutto si basa su un’accurata preparazione in tempo di pace: formazione della cittadinanza, che ignora completamente tanto i manuali di protezione civile quanto le basi del ciclo dell’acqua, più importante delle oscillazioni del Pil, e lavoro capillare sulle infrastrutture idriche. Sappiamo bene che gli acquedotti d’Italia fanno acqua da tutti i tubi: 38 per cento sono le perdite medie nazionali secondo Istat, ma a Milano sono il 16 per cento, a Roma il 43, a Bari il 50, a Potenza il 64 per cento. E copiare da chi fa meglio, no eh? Ci sono società di servizi idrici come quella di Torino che da anni si preoccupano dei cambiamenti climatici e investono in infrastrutture idrauliche di accumulo, ben sapendo che dovranno servirsene nei prossimi anni, via via che la temperatura e le siccità aumenteranno. Sono tutte cose scritte anche nella Strategia di Adattamento ai Cambiamenti Climatici del Ministero dell’Ambiente, abbiamo i dati, abbiamo le competenze, abbiamo anche esempi di eccellenza già funzionanti, dobbiamo solo applicarli in un quadro coerente e univoco su tutto il territorio nazionale. Invece ciò non avviene, anche perché molti servizi tecnici nazionali di antica data, che avevano doveri e capacità per armonizzare la gestione dell’acqua sono stati sistematicamente smantellati, riaperti sotto altro nome, richiusi, frammentati, a colpi di leggi e decreti sempre più ravvicinati che hanno generato una giungla burocratica, una polverizzazione di responsabilità e spesso una valanga di deresponsabilizzazione, nonché un’oggettiva difficoltà a mettere insieme monitoraggio e previsione meteoidrologica, pianificazione degli usi a scala di bacino, protezione civile, urbanistica e uso del suolo. Un terreno però fertilissimo per l’appalto e il subappalto esterno, che non viene più seguito direttamente dal tecnico governativo con una visione a lungo termine, ma delegato a un esecutore che non ha certo a cuore il futuro dell’umanità, bensì la massimizzazione del suo profitto immediato.
Abbiamo bisogno di tornare alla concretezza delle azioni e al buon senso della pianificazione di lungo periodo, visto che gli scenari climatici impongono una rivisitazione dell’esistente: manutenzione delle reti idriche, adeguamento degli invasi, che sono in gran parte vecchi di un secolo, costruzione di nuove dighe laddove sia possibile, uscendo dalla logica della grande opera colonizzatrice imposta dall’esterno ma entrando nel campo della negoziazione condivisa con il territorio, semplificazione burocratica, diffusione dei contratti di fiume, alfabetizzazione dei cittadini sull’uso prudente e parsimonioso dell’acqua, almeno nei periodi di scarsità. Non sono originale, lo so. Tutte cose già dette e scritte in mille occasioni. Ma forse un po’ di sete in capitale potrà essere utile per occuparsi con lungimiranza di quel bene liquido che tutti diamo per scontato ma che quando manca fa precipitare la qualità della vita a livelli intollerabili. Ci risentiamo in autunno, sicuramente pioverà, la siccità sarà un ricordo e commenteremo l’alluvione!