Un paese che prende anche solo
lontanamente in considerazione l’idea che si debba «garantire
l’agibilità politica» a un condannato in via definitiva per una
«ciclopica frode fiscale» ai danni dello stato, è un paese che
vale poco. Un mondo politico che, fin dai suoi massimi vertici,
esprime comprensione per una tale esigenza, è un mondo che ha
smarrito il senso del confine tra normalità e indecenza. O che ha
fatto dell’indecenza la condizione della normalità.
Un sistema
dell’informazione che, salvo poche eccezioni, registra compiacente
tutto ciò senza un unanime moto di ripulsa anzi mettendoci del suo
(si leggano gli editoriali del Corriere della sera), è un sistema
che ha smarrito la propria elementare funzione di controllo
democratico (e anche il senso della dignità professionale). L’Italia
si avvia ad affrontare un passaggio per molti versi drammatico della
propria crisi economica e sociale logorata e paralizzata da una crisi
morale senza precedenti.
L’autunno presenterà conti salati: una
disoccupazione che, nonostante la ripresina nord-europea, continuerà
a peggiorare (con gli ammortizzatori sociali da rifinanziare). Una
fragilità del sistema bancario che continua a strozzare il credito
alle imprese e neutralizza anche i limitati vantaggi del tardivo e
parzialissimo pagamento della montagna di miliardi dovuti dallo stato
(che andranno nella stragrande maggioranza a ripianare i debiti
contratti nel frattempo per sopravvivere). L’incombente aumento
dell’Iva, che non ha ancora trovato voci alternative di copertura.
La necessità di reperire entro l’inizio del prossimo anno i 50
miliardi di euro della prima delle venti rate imposte dal famigerato
fiscal compact, vera e propria macina al collo di un paese che stenta
a restare a galla. Un livello delle remunerazioni nei settori
pubblico e privato bloccato da anni, su cifre ormai ai limiti
inferiori della graduatoria Ocse. Da un buco nero di queste
dimensioni non si esce senza una straordinaria quantità di energia
politica e sociale.
Senza uno scatto morale: o, se si preferisce,
un’impennata d’orgoglio. Senza il senso di una rottura di
continuità, che è cambio radicale di classe dirigente e di
personale politico, percezione della possibilità di un «nuovo
inizio», come è stato nei momenti cruciali della nostra storia,
dalla «crisi di fine secolo» alla «ricostruzione» nel secondo
dopoguerra. Invece ci tocca assistere allo spettacolo deprimente di
una continuità ossessivamente riaffermata contro ogni «natura delle
cose»: l’assemblaggio forzato dei vecchi protagonisti del disastro
in una comune maggioranza di governo, uniti nell’unico imperativo
di durare sopravvivendo ai propri vizi privati e alle proprie
inesistenti pubbliche virtù. Consegnati in ostaggio a uomo finito e
alla sua esigenza di prolungare la propria fine oltre ogni limite
fisiologico, giorno per giorno, pronto al ricatto a ogni passaggio –
l’ineleggibilità, la decadenza da senatore, l’applicazione della
sentenza e le misure alternative… – giocando sull’unico atout
che gli è rimasto: la golden share governativa. La minaccia del
«muoia Sansone con tutti i filistei».
Li possiamo già immaginare i
prossimi mesi, con il tormentone osceno del «grazia sì, grazia no»
(«La chiedo, non la chiedo»…). Delle macchine del fango al lavoro
e degli infiniti ricorsi fatti solo per guadagnare tempo. Degli
aeroplanini in volo sulle spiagge con «Forza Silvio» e degli
avversari politici trasformati in imbarazzati testimoni o omologhi
complici. Il fatto è che il pasticciaccio brutto di questa
primavera, la nascita del governo delle larghe intese, pesa come un
macigno. Sta su solo perché le due forze che lo compongono – oltre
a essere sostanzialmente omologhe nell’idea di società prodotta
dall’establishment economico-finanziario e dalle tecnocrazie
europee – sono entrambe fragilissime, sull’orlo di una simmetrica
dissoluzione. Lo è il Pdl, di fatto già dissolto nella ri-nascitura
Forza Italia, e identificato ormai senza residui nel destino politico
del suo capo-padrone. Ma lo è anche il Pd, lacerato tra una miriade
di cordate interne senza più alcun rapporto con le rispettive
culture politiche (che la leadership del partito verrà contesa tra
due ex democristiani, Letta e Renzi, in lotta tra loro, la dice
lunga).
Da due vuoti potenziali non può nascere un pieno d’azione
politica. Ci si può limitare alla manutenzione del disastro,
rinviando sine die i nodi da sciogliere, «guadagnando tempo»,
appunto. Ma con la manutenzione del disastro non si esce dal
disastro: lo si può dilazionare. Si possono inventare mille
bizantinismi, ma non si evita, prima o poi, la caduta di Bisanzio. È
questo il gigantesco non detto del dibattito in corso sul destino
della «sinistra» e in particolare del Pd (ma anche di Sel), a
cominciare dall’intervento di Goffredo Bettini: la gravità della
simmetrica crisi della «parte emersa» del nostro sistema politico
(quella su cui sono permanentemente accesi i riflettori
dell’informazione ufficiale). L’irrisolvibilità delle
contraddizioni accumulate nel corpo di quei due soggetti politici che
– ricordate? – nel famigerato passaggio veltroniano-berlusconiano
del 2007 e 2008 avrebbero dovuto dar vita a un sistema politico
Bipolare, Maggioritario ed Egemonico (si disse proprio così, nella
neolingua di allora), monopolizzando l’intero spazio pubblico e
bloccandolo rispetto a ogni idea alternativa di società. Quel
progetto giace ora in frantumi (che Enrico Letta cerca di nascondere
sotto il tappeto della propria azione di governo come la cattiva
casalinga fa con la polvere).
Ma non ho letto una sola riga di presa
d’atto. O di autocritica. Né una sola proposta all’altezza della
gravità, sul modo di uscire dall’impasse. E forse non per caso:
perché probabilmente a quella crisi non c’è soluzione, se si
rimane entro il cerchio magico dell’attuale classe politica, con
come unici ed esclusivi protagonisti i soggetti politici esistenti (e
potenzialmente falliti). Eugenio Scalfari, qualche giorno fa, su
Repubblica, ha evocato il 25 luglio del 1943 (Il 25 luglio è
arrivato, il Cavaliere si rassegni), quando appunto Benito Mussolini
fu liquidato dal suo stesso partito e finì ai «domiciliari» sul
Gran Sasso. Non ha ricordato, credo per scaramanzia, la breve
parentesi badogliana e soprattutto la data successiva, l’8
settembre, quando tutto andò giù ed esplose la più grave crisi
istituzionale del nostro paese.
Eppure val la pena rifletterci, su
quelle tormentate vicende. Non solo perché questi primi 100 giorni
del governo Letta un po’ ricordano (fatte le debite proporzioni in
termini di drammaticità) i «45 giorni di Badoglio», col suo «la
guerra continua» a fianco del vecchio alleato e la tendenza a
dilazionare la resa dei conti. Ma anche, e soprattutto perché l’8
settembre non è solo (o meglio, non è tanto) il momento della
«morte della patria», come è stato affrettatamente definito. È la
fine di «quella» patria indegna, e il punto d’origine di un’altra
Italia. Fu, nel naufragio della vecchia Italia, un punto di rinascita
e di selezione di una nuova classe dirigente, sulla base di una
«scelta morale» che si trasformò in risorsa politica. Quella data
ci dice che a volte, per ricominciare, bisogna finire. P.S. L’8
settembre è anche il giorno in cui Landini e Rodotà hanno convocato
quanti sono consapevoli della gravità della situazione e
dell’urgenza di una risposta (e proposta) credibile. Ci saremo in
molti, per cogliere questo segnale di speranza.
Un
paese che prende anche solo lontanamente in considerazione l’idea che
si debba «garantire l’agibilità politica» a un condannato in via
definitiva per una «ciclopica frode fiscale» ai danni dello stato, è un
paese che vale poco. Un mondo politico che, fin dai suoi massimi
vertici, esprime comprensione per una tale esigenza, è un mondo che ha
smarrito il senso del confine tra normalità e indecenza. O che ha fatto
dell’indecenza la condizione della normalità. Un sistema
dell’informazione che, salvo poche eccezioni, registra compiacente tutto
ciò senza un unanime moto di ripulsa anzi mettendoci del suo (si
leggano gli editoriali del Corriere della sera), è un sistema che ha
smarrito la propria elementare funzione di controllo democratico (e
anche il senso della dignità professionale).
L’Italia si avvia ad affrontare un passaggio per molti versi drammatico
della propria crisi economica e sociale logorata e paralizzata da una
crisi morale senza precedenti. L’autunno presenterà conti salati: una
disoccupazione che, nonostante la ripresina nord-europea, continuerà a
peggiorare (con gli ammortizzatori sociali da rifinanziare). Una
fragilità del sistema bancario che continua a strozzare il credito alle
imprese e neutralizza anche i limitati vantaggi del tardivo e
parzialissimo pagamento della montagna di miliardi dovuti dallo stato
(che andranno nella stragrande maggioranza a ripianare i debiti
contratti nel frattempo per sopravvivere). L’incombente aumento
dell’Iva, che non ha ancora trovato voci alternative di copertura. La
necessità di reperire entro l’inizio del prossimo anno i 50 miliardi di
euro della prima delle venti rate imposte dal famigerato fiscal compact,
vera e propria macina al collo di un paese che stenta a restare a
galla. Un livello delle remunerazioni nei settori pubblico e privato
bloccato da anni, su cifre ormai ai limiti inferiori della graduatoria
Ocse.
Da un buco nero di queste dimensioni non si esce senza una straordinaria
quantità di energia politica e sociale. Senza uno scatto morale: o, se
si preferisce, un’impennata d’orgoglio. Senza il senso di una rottura di
continuità, che è cambio radicale di classe dirigente e di personale
politico, percezione della possibilità di un «nuovo inizio», come è
stato nei momenti cruciali della nostra storia, dalla «crisi di fine
secolo» alla «ricostruzione» nel secondo dopoguerra.
Invece ci tocca assistere allo spettacolo deprimente di una continuità
ossessivamente riaffermata contro ogni «natura delle cose»:
l’assemblaggio forzato dei vecchi protagonisti del disastro in una
comune maggioranza di governo, uniti nell’unico imperativo di durare
sopravvivendo ai propri vizi privati e alle proprie inesistenti
pubbliche virtù. Consegnati in ostaggio a uomo finito e alla sua
esigenza di prolungare la propria fine oltre ogni limite fisiologico,
giorno per giorno, pronto al ricatto a ogni passaggio –
l’ineleggibilità, la decadenza da senatore, l’applicazione della
sentenza e le misure alternative… – giocando sull’unico atout che gli è
rimasto: la golden share governativa. La minaccia del «muoia Sansone con
tutti i filistei».
Li possiamo già immaginare i prossimi mesi, con il tormentone osceno del
«grazia sì, grazia no» («La chiedo, non la chiedo»…). Delle macchine
del fango al lavoro e degli infiniti ricorsi fatti solo per guadagnare
tempo. Degli aeroplanini in volo sulle spiagge con «Forza Silvio» e
degli avversari politici trasformati in imbarazzati testimoni o omologhi
complici.
Il fatto è che il pasticciaccio brutto di questa primavera, la nascita
del governo delle larghe intese, pesa come un macigno. Sta su solo
perché le due forze che lo compongono – oltre a essere sostanzialmente
omologhe nell’idea di società prodotta dall’establishment
economico-finanziario e dalle tecnocrazie europee – sono entrambe
fragilissime, sull’orlo di una simmetrica dissoluzione. Lo è il Pdl, di
fatto già dissolto nella ri-nascitura Forza Italia, e identificato ormai
senza residui nel destino politico del suo capo-padrone. Ma lo è anche
il Pd, lacerato tra una miriade di cordate interne senza più alcun
rapporto con le rispettive culture politiche (che la leadership del
partito verrà contesa tra due ex democristiani, Letta e Renzi, in lotta
tra loro, la dice lunga). Da due vuoti potenziali non può nascere un
pieno d’azione politica. Ci si può limitare alla manutenzione del
disastro, rinviando sine die i nodi da sciogliere, «guadagnando tempo»,
appunto. Ma con la manutenzione del disastro non si esce dal disastro:
lo si può dilazionare. Si possono inventare mille bizantinismi, ma non
si evita, prima o poi, la caduta di Bisanzio.
È questo il gigantesco non detto del dibattito in corso sul destino
della «sinistra» e in particolare del Pd (ma anche di Sel), a cominciare
dall’intervento di Goffredo Bettini: la gravità della simmetrica crisi
della «parte emersa» del nostro sistema politico (quella su cui sono
permanentemente accesi i riflettori dell’informazione ufficiale).
L’irrisolvibilità delle contraddizioni accumulate nel corpo di quei due
soggetti politici che – ricordate? – nel famigerato passaggio
veltroniano-berlusconiano del 2007 e 2008 avrebbero dovuto dar vita a un
sistema politico Bipolare, Maggioritario ed Egemonico (si disse proprio
così, nella neolingua di allora), monopolizzando l’intero spazio
pubblico e bloccandolo rispetto a ogni idea alternativa di società.
Quel progetto giace ora in frantumi (che Enrico Letta cerca di
nascondere sotto il tappeto della propria azione di governo come la
cattiva casalinga fa con la polvere). Ma non ho letto una sola riga di
presa d’atto. O di autocritica. Né una sola proposta all’altezza della
gravità, sul modo di uscire dall’impasse. E forse non per caso: perché
probabilmente a quella crisi non c’è soluzione, se si rimane entro il
cerchio magico dell’attuale classe politica, con come unici ed esclusivi
protagonisti i soggetti politici esistenti (e potenzialmente falliti).
Eugenio Scalfari, qualche giorno fa, su Repubblica, ha evocato il 25
luglio del 1943 (Il 25 luglio è arrivato, il Cavaliere si rassegni),
quando appunto Benito Mussolini fu liquidato dal suo stesso partito e
finì ai «domiciliari» sul Gran Sasso. Non ha ricordato, credo per
scaramanzia, la breve parentesi badogliana e soprattutto la data
successiva, l’8 settembre, quando tutto andò giù ed esplose la più grave
crisi istituzionale del nostro paese. Eppure val la pena rifletterci,
su quelle tormentate vicende. Non solo perché questi primi 100 giorni
del governo Letta un po’ ricordano (fatte le debite proporzioni in
termini di drammaticità) i «45 giorni di Badoglio», col suo «la guerra
continua» a fianco del vecchio alleato e la tendenza a dilazionare la
resa dei conti. Ma anche, e soprattutto perché l’8 settembre non è solo
(o meglio, non è tanto) il momento della «morte della patria», come è
stato affrettatamente definito. È la fine di «quella» patria indegna, e
il punto d’origine di un’altra Italia. Fu, nel naufragio della vecchia
Italia, un punto di rinascita e di selezione di una nuova classe
dirigente, sulla base di una «scelta morale» che si trasformò in risorsa
politica. Quella data ci dice che a volte, per ricominciare, bisogna
finire.
P.S. L’8 settembre è anche il giorno in cui Landini e Rodotà hanno
convocato quanti sono consapevoli della gravità della situazione e
dell’urgenza di una risposta (e proposta) credibile. Ci saremo in molti,
per cogliere questo segnale di speranza. - See more at:
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Un
paese che prende anche solo lontanamente in considerazione l’idea che
si debba «garantire l’agibilità politica» a un condannato in via
definitiva per una «ciclopica frode fiscale» ai danni dello stato, è un
paese che vale poco. Un mondo politico che, fin dai suoi massimi
vertici, esprime comprensione per una tale esigenza, è un mondo che ha
smarrito il senso del confine tra normalità e indecenza. O che ha fatto
dell’indecenza la condizione della normalità. Un sistema
dell’informazione che, salvo poche eccezioni, registra compiacente tutto
ciò senza un unanime moto di ripulsa anzi mettendoci del suo (si
leggano gli editoriali del Corriere della sera), è un sistema che ha
smarrito la propria elementare funzione di controllo democratico (e
anche il senso della dignità professionale). - See more at:
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Un paese
Un paese
Un
paese che prende anche solo lontanamente in considerazione l’idea che
si debba «garantire l’agibilità politica» a un condannato in via
definitiva per una «ciclopica frode fiscale» ai danni dello stato, è un
paese che vale poco. Un mondo politico che, fin dai suoi massimi
vertici, esprime comprensione per una tale esigenza, è un mondo che ha
smarrito il senso del confine tra normalità e indecenza. O che ha fatto
dell’indecenza la condizione della normalità. Un sistema
dell’informazione che, salvo poche eccezioni, registra compiacente tutto
ciò senza un unanime moto di ripulsa anzi mettendoci del suo (si
leggano gli editoriali del Corriere della sera), è un sistema che ha
smarrito la propria elementare funzione di controllo democratico (e
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Un
paese che prende anche solo lontanamente in considerazione l’idea che
si debba «garantire l’agibilità politica» a un condannato in via
definitiva per una «ciclopica frode fiscale» ai danni dello stato, è un
paese che vale poco. Un mondo politico che, fin dai suoi massimi
vertici, esprime comprensione per una tale esigenza, è un mondo che ha
smarrito il senso del confine tra normalità e indecenza. O che ha fatto
dell’indecenza la condizione della normalità. Un sistema
dell’informazione che, salvo poche eccezioni, registra compiacente tutto
ciò senza un unanime moto di ripulsa anzi mettendoci del suo (si
leggano gli editoriali del Corriere della sera), è un sistema che ha
smarrito la propria elementare funzione di controllo democratico (e
anche il senso della dignità professionale).
L’Italia si avvia ad affrontare un passaggio per molti versi drammatico
della propria crisi economica e sociale logorata e paralizzata da una
crisi morale senza precedenti. L’autunno presenterà conti salati: una
disoccupazione che, nonostante la ripresina nord-europea, continuerà a
peggiorare (con gli ammortizzatori sociali da rifinanziare). Una
fragilità del sistema bancario che continua a strozzare il credito alle
imprese e neutralizza anche i limitati vantaggi del tardivo e
parzialissimo pagamento della montagna di miliardi dovuti dallo stato
(che andranno nella stragrande maggioranza a ripianare i debiti
contratti nel frattempo per sopravvivere). L’incombente aumento
dell’Iva, che non ha ancora trovato voci alternative di copertura. La
necessità di reperire entro l’inizio del prossimo anno i 50 miliardi di
euro della prima delle venti rate imposte dal famigerato fiscal compact,
vera e propria macina al collo di un paese che stenta a restare a
galla. Un livello delle remunerazioni nei settori pubblico e privato
bloccato da anni, su cifre ormai ai limiti inferiori della graduatoria
Ocse.
Da un buco nero di queste dimensioni non si esce senza una straordinaria
quantità di energia politica e sociale. Senza uno scatto morale: o, se
si preferisce, un’impennata d’orgoglio. Senza il senso di una rottura di
continuità, che è cambio radicale di classe dirigente e di personale
politico, percezione della possibilità di un «nuovo inizio», come è
stato nei momenti cruciali della nostra storia, dalla «crisi di fine
secolo» alla «ricostruzione» nel secondo dopoguerra.
Invece ci tocca assistere allo spettacolo deprimente di una continuità
ossessivamente riaffermata contro ogni «natura delle cose»:
l’assemblaggio forzato dei vecchi protagonisti del disastro in una
comune maggioranza di governo, uniti nell’unico imperativo di durare
sopravvivendo ai propri vizi privati e alle proprie inesistenti
pubbliche virtù. Consegnati in ostaggio a uomo finito e alla sua
esigenza di prolungare la propria fine oltre ogni limite fisiologico,
giorno per giorno, pronto al ricatto a ogni passaggio –
l’ineleggibilità, la decadenza da senatore, l’applicazione della
sentenza e le misure alternative… – giocando sull’unico atout che gli è
rimasto: la golden share governativa. La minaccia del «muoia Sansone con
tutti i filistei».
Li possiamo già immaginare i prossimi mesi, con il tormentone osceno del
«grazia sì, grazia no» («La chiedo, non la chiedo»…). Delle macchine
del fango al lavoro e degli infiniti ricorsi fatti solo per guadagnare
tempo. Degli aeroplanini in volo sulle spiagge con «Forza Silvio» e
degli avversari politici trasformati in imbarazzati testimoni o omologhi
complici.
Il fatto è che il pasticciaccio brutto di questa primavera, la nascita
del governo delle larghe intese, pesa come un macigno. Sta su solo
perché le due forze che lo compongono – oltre a essere sostanzialmente
omologhe nell’idea di società prodotta dall’establishment
economico-finanziario e dalle tecnocrazie europee – sono entrambe
fragilissime, sull’orlo di una simmetrica dissoluzione. Lo è il Pdl, di
fatto già dissolto nella ri-nascitura Forza Italia, e identificato ormai
senza residui nel destino politico del suo capo-padrone. Ma lo è anche
il Pd, lacerato tra una miriade di cordate interne senza più alcun
rapporto con le rispettive culture politiche (che la leadership del
partito verrà contesa tra due ex democristiani, Letta e Renzi, in lotta
tra loro, la dice lunga). Da due vuoti potenziali non può nascere un
pieno d’azione politica. Ci si può limitare alla manutenzione del
disastro, rinviando sine die i nodi da sciogliere, «guadagnando tempo»,
appunto. Ma con la manutenzione del disastro non si esce dal disastro:
lo si può dilazionare. Si possono inventare mille bizantinismi, ma non
si evita, prima o poi, la caduta di Bisanzio.
È questo il gigantesco non detto del dibattito in corso sul destino
della «sinistra» e in particolare del Pd (ma anche di Sel), a cominciare
dall’intervento di Goffredo Bettini: la gravità della simmetrica crisi
della «parte emersa» del nostro sistema politico (quella su cui sono
permanentemente accesi i riflettori dell’informazione ufficiale).
L’irrisolvibilità delle contraddizioni accumulate nel corpo di quei due
soggetti politici che – ricordate? – nel famigerato passaggio
veltroniano-berlusconiano del 2007 e 2008 avrebbero dovuto dar vita a un
sistema politico Bipolare, Maggioritario ed Egemonico (si disse proprio
così, nella neolingua di allora), monopolizzando l’intero spazio
pubblico e bloccandolo rispetto a ogni idea alternativa di società.
Quel progetto giace ora in frantumi (che Enrico Letta cerca di
nascondere sotto il tappeto della propria azione di governo come la
cattiva casalinga fa con la polvere). Ma non ho letto una sola riga di
presa d’atto. O di autocritica. Né una sola proposta all’altezza della
gravità, sul modo di uscire dall’impasse. E forse non per caso: perché
probabilmente a quella crisi non c’è soluzione, se si rimane entro il
cerchio magico dell’attuale classe politica, con come unici ed esclusivi
protagonisti i soggetti politici esistenti (e potenzialmente falliti).
Eugenio Scalfari, qualche giorno fa, su Repubblica, ha evocato il 25
luglio del 1943 (Il 25 luglio è arrivato, il Cavaliere si rassegni),
quando appunto Benito Mussolini fu liquidato dal suo stesso partito e
finì ai «domiciliari» sul Gran Sasso. Non ha ricordato, credo per
scaramanzia, la breve parentesi badogliana e soprattutto la data
successiva, l’8 settembre, quando tutto andò giù ed esplose la più grave
crisi istituzionale del nostro paese. Eppure val la pena rifletterci,
su quelle tormentate vicende. Non solo perché questi primi 100 giorni
del governo Letta un po’ ricordano (fatte le debite proporzioni in
termini di drammaticità) i «45 giorni di Badoglio», col suo «la guerra
continua» a fianco del vecchio alleato e la tendenza a dilazionare la
resa dei conti. Ma anche, e soprattutto perché l’8 settembre non è solo
(o meglio, non è tanto) il momento della «morte della patria», come è
stato affrettatamente definito. È la fine di «quella» patria indegna, e
il punto d’origine di un’altra Italia. Fu, nel naufragio della vecchia
Italia, un punto di rinascita e di selezione di una nuova classe
dirigente, sulla base di una «scelta morale» che si trasformò in risorsa
politica. Quella data ci dice che a volte, per ricominciare, bisogna
finire.
P.S. L’8 settembre è anche il giorno in cui Landini e Rodotà hanno
convocato quanti sono consapevoli della gravità della situazione e
dell’urgenza di una risposta (e proposta) credibile. Ci saremo in molti,
per cogliere questo segnale di speranza. - See more at:
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Un
paese che prende anche solo lontanamente in considerazione l’idea che
si debba «garantire l’agibilità politica» a un condannato in via
definitiva per una «ciclopica frode fiscale» ai danni dello stato, è un
paese che vale poco. Un mondo politico che, fin dai suoi massimi
vertici, esprime comprensione per una tale esigenza, è un mondo che ha
smarrito il senso del confine tra normalità e indecenza. O che ha fatto
dell’indecenza la condizione della normalità. Un sistema
dell’informazione che, salvo poche eccezioni, registra compiacente tutto
ciò senza un unanime moto di ripulsa anzi mettendoci del suo (si
leggano gli editoriali del Corriere della sera), è un sistema che ha
smarrito la propria elementare funzione di controllo democratico (e
anche il senso della dignità professionale).
L’Italia si avvia ad affrontare un passaggio per molti versi drammatico
della propria crisi economica e sociale logorata e paralizzata da una
crisi morale senza precedenti. L’autunno presenterà conti salati: una
disoccupazione che, nonostante la ripresina nord-europea, continuerà a
peggiorare (con gli ammortizzatori sociali da rifinanziare). Una
fragilità del sistema bancario che continua a strozzare il credito alle
imprese e neutralizza anche i limitati vantaggi del tardivo e
parzialissimo pagamento della montagna di miliardi dovuti dallo stato
(che andranno nella stragrande maggioranza a ripianare i debiti
contratti nel frattempo per sopravvivere). L’incombente aumento
dell’Iva, che non ha ancora trovato voci alternative di copertura. La
necessità di reperire entro l’inizio del prossimo anno i 50 miliardi di
euro della prima delle venti rate imposte dal famigerato fiscal compact,
vera e propria macina al collo di un paese che stenta a restare a
galla. Un livello delle remunerazioni nei settori pubblico e privato
bloccato da anni, su cifre ormai ai limiti inferiori della graduatoria
Ocse.
Da un buco nero di queste dimensioni non si esce senza una straordinaria
quantità di energia politica e sociale. Senza uno scatto morale: o, se
si preferisce, un’impennata d’orgoglio. Senza il senso di una rottura di
continuità, che è cambio radicale di classe dirigente e di personale
politico, percezione della possibilità di un «nuovo inizio», come è
stato nei momenti cruciali della nostra storia, dalla «crisi di fine
secolo» alla «ricostruzione» nel secondo dopoguerra.
Invece ci tocca assistere allo spettacolo deprimente di una continuità
ossessivamente riaffermata contro ogni «natura delle cose»:
l’assemblaggio forzato dei vecchi protagonisti del disastro in una
comune maggioranza di governo, uniti nell’unico imperativo di durare
sopravvivendo ai propri vizi privati e alle proprie inesistenti
pubbliche virtù. Consegnati in ostaggio a uomo finito e alla sua
esigenza di prolungare la propria fine oltre ogni limite fisiologico,
giorno per giorno, pronto al ricatto a ogni passaggio –
l’ineleggibilità, la decadenza da senatore, l’applicazione della
sentenza e le misure alternative… – giocando sull’unico atout che gli è
rimasto: la golden share governativa. La minaccia del «muoia Sansone con
tutti i filistei».
Li possiamo già immaginare i prossimi mesi, con il tormentone osceno del
«grazia sì, grazia no» («La chiedo, non la chiedo»…). Delle macchine
del fango al lavoro e degli infiniti ricorsi fatti solo per guadagnare
tempo. Degli aeroplanini in volo sulle spiagge con «Forza Silvio» e
degli avversari politici trasformati in imbarazzati testimoni o omologhi
complici.
Il fatto è che il pasticciaccio brutto di questa primavera, la nascita
del governo delle larghe intese, pesa come un macigno. Sta su solo
perché le due forze che lo compongono – oltre a essere sostanzialmente
omologhe nell’idea di società prodotta dall’establishment
economico-finanziario e dalle tecnocrazie europee – sono entrambe
fragilissime, sull’orlo di una simmetrica dissoluzione. Lo è il Pdl, di
fatto già dissolto nella ri-nascitura Forza Italia, e identificato ormai
senza residui nel destino politico del suo capo-padrone. Ma lo è anche
il Pd, lacerato tra una miriade di cordate interne senza più alcun
rapporto con le rispettive culture politiche (che la leadership del
partito verrà contesa tra due ex democristiani, Letta e Renzi, in lotta
tra loro, la dice lunga). Da due vuoti potenziali non può nascere un
pieno d’azione politica. Ci si può limitare alla manutenzione del
disastro, rinviando sine die i nodi da sciogliere, «guadagnando tempo»,
appunto. Ma con la manutenzione del disastro non si esce dal disastro:
lo si può dilazionare. Si possono inventare mille bizantinismi, ma non
si evita, prima o poi, la caduta di Bisanzio.
È questo il gigantesco non detto del dibattito in corso sul destino
della «sinistra» e in particolare del Pd (ma anche di Sel), a cominciare
dall’intervento di Goffredo Bettini: la gravità della simmetrica crisi
della «parte emersa» del nostro sistema politico (quella su cui sono
permanentemente accesi i riflettori dell’informazione ufficiale).
L’irrisolvibilità delle contraddizioni accumulate nel corpo di quei due
soggetti politici che – ricordate? – nel famigerato passaggio
veltroniano-berlusconiano del 2007 e 2008 avrebbero dovuto dar vita a un
sistema politico Bipolare, Maggioritario ed Egemonico (si disse proprio
così, nella neolingua di allora), monopolizzando l’intero spazio
pubblico e bloccandolo rispetto a ogni idea alternativa di società.
Quel progetto giace ora in frantumi (che Enrico Letta cerca di
nascondere sotto il tappeto della propria azione di governo come la
cattiva casalinga fa con la polvere). Ma non ho letto una sola riga di
presa d’atto. O di autocritica. Né una sola proposta all’altezza della
gravità, sul modo di uscire dall’impasse. E forse non per caso: perché
probabilmente a quella crisi non c’è soluzione, se si rimane entro il
cerchio magico dell’attuale classe politica, con come unici ed esclusivi
protagonisti i soggetti politici esistenti (e potenzialmente falliti).
Eugenio Scalfari, qualche giorno fa, su Repubblica, ha evocato il 25
luglio del 1943 (Il 25 luglio è arrivato, il Cavaliere si rassegni),
quando appunto Benito Mussolini fu liquidato dal suo stesso partito e
finì ai «domiciliari» sul Gran Sasso. Non ha ricordato, credo per
scaramanzia, la breve parentesi badogliana e soprattutto la data
successiva, l’8 settembre, quando tutto andò giù ed esplose la più grave
crisi istituzionale del nostro paese. Eppure val la pena rifletterci,
su quelle tormentate vicende. Non solo perché questi primi 100 giorni
del governo Letta un po’ ricordano (fatte le debite proporzioni in
termini di drammaticità) i «45 giorni di Badoglio», col suo «la guerra
continua» a fianco del vecchio alleato e la tendenza a dilazionare la
resa dei conti. Ma anche, e soprattutto perché l’8 settembre non è solo
(o meglio, non è tanto) il momento della «morte della patria», come è
stato affrettatamente definito. È la fine di «quella» patria indegna, e
il punto d’origine di un’altra Italia. Fu, nel naufragio della vecchia
Italia, un punto di rinascita e di selezione di una nuova classe
dirigente, sulla base di una «scelta morale» che si trasformò in risorsa
politica. Quella data ci dice che a volte, per ricominciare, bisogna
finire.
P.S. L’8 settembre è anche il giorno in cui Landini e Rodotà hanno
convocato quanti sono consapevoli della gravità della situazione e
dell’urgenza di una risposta (e proposta) credibile. Ci saremo in molti,
per cogliere questo segnale di speranza. - See more at:
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Un
paese che prende anche solo lontanamente in considerazione l’idea che
si debba «garantire l’agibilità politica» a un condannato in via
definitiva per una «ciclopica frode fiscale» ai danni dello stato, è un
paese che vale poco. Un mondo politico che, fin dai suoi massimi
vertici, esprime comprensione per una tale esigenza, è un mondo che ha
smarrito il senso del confine tra normalità e indecenza. O che ha fatto
dell’indecenza la condizione della normalità. Un sistema
dell’informazione che, salvo poche eccezioni, registra compiacente tutto
ciò senza un unanime moto di ripulsa anzi mettendoci del suo (si
leggano gli editoriali del Corriere della sera), è un sistema che ha
smarrito la propria elementare funzione di controllo democratico (e
anche il senso della dignità professionale).
L’Italia si avvia ad affrontare un passaggio per molti versi drammatico
della propria crisi economica e sociale logorata e paralizzata da una
crisi morale senza precedenti. L’autunno presenterà conti salati: una
disoccupazione che, nonostante la ripresina nord-europea, continuerà a
peggiorare (con gli ammortizzatori sociali da rifinanziare). Una
fragilità del sistema bancario che continua a strozzare il credito alle
imprese e neutralizza anche i limitati vantaggi del tardivo e
parzialissimo pagamento della montagna di miliardi dovuti dallo stato
(che andranno nella stragrande maggioranza a ripianare i debiti
contratti nel frattempo per sopravvivere). L’incombente aumento
dell’Iva, che non ha ancora trovato voci alternative di copertura. La
necessità di reperire entro l’inizio del prossimo anno i 50 miliardi di
euro della prima delle venti rate imposte dal famigerato fiscal compact,
vera e propria macina al collo di un paese che stenta a restare a
galla. Un livello delle remunerazioni nei settori pubblico e privato
bloccato da anni, su cifre ormai ai limiti inferiori della graduatoria
Ocse.
Da un buco nero di queste dimensioni non si esce senza una straordinaria
quantità di energia politica e sociale. Senza uno scatto morale: o, se
si preferisce, un’impennata d’orgoglio. Senza il senso di una rottura di
continuità, che è cambio radicale di classe dirigente e di personale
politico, percezione della possibilità di un «nuovo inizio», come è
stato nei momenti cruciali della nostra storia, dalla «crisi di fine
secolo» alla «ricostruzione» nel secondo dopoguerra.
Invece ci tocca assistere allo spettacolo deprimente di una continuità
ossessivamente riaffermata contro ogni «natura delle cose»:
l’assemblaggio forzato dei vecchi protagonisti del disastro in una
comune maggioranza di governo, uniti nell’unico imperativo di durare
sopravvivendo ai propri vizi privati e alle proprie inesistenti
pubbliche virtù. Consegnati in ostaggio a uomo finito e alla sua
esigenza di prolungare la propria fine oltre ogni limite fisiologico,
giorno per giorno, pronto al ricatto a ogni passaggio –
l’ineleggibilità, la decadenza da senatore, l’applicazione della
sentenza e le misure alternative… – giocando sull’unico atout che gli è
rimasto: la golden share governativa. La minaccia del «muoia Sansone con
tutti i filistei».
Li possiamo già immaginare i prossimi mesi, con il tormentone osceno del
«grazia sì, grazia no» («La chiedo, non la chiedo»…). Delle macchine
del fango al lavoro e degli infiniti ricorsi fatti solo per guadagnare
tempo. Degli aeroplanini in volo sulle spiagge con «Forza Silvio» e
degli avversari politici trasformati in imbarazzati testimoni o omologhi
complici.
Il fatto è che il pasticciaccio brutto di questa primavera, la nascita
del governo delle larghe intese, pesa come un macigno. Sta su solo
perché le due forze che lo compongono – oltre a essere sostanzialmente
omologhe nell’idea di società prodotta dall’establishment
economico-finanziario e dalle tecnocrazie europee – sono entrambe
fragilissime, sull’orlo di una simmetrica dissoluzione. Lo è il Pdl, di
fatto già dissolto nella ri-nascitura Forza Italia, e identificato ormai
senza residui nel destino politico del suo capo-padrone. Ma lo è anche
il Pd, lacerato tra una miriade di cordate interne senza più alcun
rapporto con le rispettive culture politiche (che la leadership del
partito verrà contesa tra due ex democristiani, Letta e Renzi, in lotta
tra loro, la dice lunga). Da due vuoti potenziali non può nascere un
pieno d’azione politica. Ci si può limitare alla manutenzione del
disastro, rinviando sine die i nodi da sciogliere, «guadagnando tempo»,
appunto. Ma con la manutenzione del disastro non si esce dal disastro:
lo si può dilazionare. Si possono inventare mille bizantinismi, ma non
si evita, prima o poi, la caduta di Bisanzio.
È questo il gigantesco non detto del dibattito in corso sul destino
della «sinistra» e in particolare del Pd (ma anche di Sel), a cominciare
dall’intervento di Goffredo Bettini: la gravità della simmetrica crisi
della «parte emersa» del nostro sistema politico (quella su cui sono
permanentemente accesi i riflettori dell’informazione ufficiale).
L’irrisolvibilità delle contraddizioni accumulate nel corpo di quei due
soggetti politici che – ricordate? – nel famigerato passaggio
veltroniano-berlusconiano del 2007 e 2008 avrebbero dovuto dar vita a un
sistema politico Bipolare, Maggioritario ed Egemonico (si disse proprio
così, nella neolingua di allora), monopolizzando l’intero spazio
pubblico e bloccandolo rispetto a ogni idea alternativa di società.
Quel progetto giace ora in frantumi (che Enrico Letta cerca di
nascondere sotto il tappeto della propria azione di governo come la
cattiva casalinga fa con la polvere). Ma non ho letto una sola riga di
presa d’atto. O di autocritica. Né una sola proposta all’altezza della
gravità, sul modo di uscire dall’impasse. E forse non per caso: perché
probabilmente a quella crisi non c’è soluzione, se si rimane entro il
cerchio magico dell’attuale classe politica, con come unici ed esclusivi
protagonisti i soggetti politici esistenti (e potenzialmente falliti).
Eugenio Scalfari, qualche giorno fa, su Repubblica, ha evocato il 25
luglio del 1943 (Il 25 luglio è arrivato, il Cavaliere si rassegni),
quando appunto Benito Mussolini fu liquidato dal suo stesso partito e
finì ai «domiciliari» sul Gran Sasso. Non ha ricordato, credo per
scaramanzia, la breve parentesi badogliana e soprattutto la data
successiva, l’8 settembre, quando tutto andò giù ed esplose la più grave
crisi istituzionale del nostro paese. Eppure val la pena rifletterci,
su quelle tormentate vicende. Non solo perché questi primi 100 giorni
del governo Letta un po’ ricordano (fatte le debite proporzioni in
termini di drammaticità) i «45 giorni di Badoglio», col suo «la guerra
continua» a fianco del vecchio alleato e la tendenza a dilazionare la
resa dei conti. Ma anche, e soprattutto perché l’8 settembre non è solo
(o meglio, non è tanto) il momento della «morte della patria», come è
stato affrettatamente definito. È la fine di «quella» patria indegna, e
il punto d’origine di un’altra Italia. Fu, nel naufragio della vecchia
Italia, un punto di rinascita e di selezione di una nuova classe
dirigente, sulla base di una «scelta morale» che si trasformò in risorsa
politica. Quella data ci dice che a volte, per ricominciare, bisogna
finire.
P.S. L’8 settembre è anche il giorno in cui Landini e Rodotà hanno
convocato quanti sono consapevoli della gravità della situazione e
dell’urgenza di una risposta (e proposta) credibile. Ci saremo in molti,
per cogliere questo segnale di speranza. - See more at:
http://www.soggettopoliticonuovo.it/2013/08/17/otto-settembre-di-marco-revelli-il-manifesto/#sthash.W9IVX5bF.dpuf