La natura fa il suo corso. Amichevole, se le attività umane si
relazionano alla stessa rispettandone le leggi fondamentali;
devastante, se le attività umane la considerano variabile
dipendente dai profitti.
Genova, Parma, Alessandria, Maremma, Trieste sono le nuove stazioni
del calvario autunnale, che induce a modificare il vecchio detto
popolare «Piove, governo ladro» nel più attuale «Piove, governo ladro
e si salvi chi può».
Sul perché ogni volta che piove questo Paese vada sott’acqua e sul fatto che forse occorrerebbe che tutti facessero un corso di formazione sul cambiamento climatico, in modo da smettere di stupirsi su quanti metri cubi d’acqua in brevissimo tempi scarichino i temporali, molto si è gia scritto.
Ma nell’ennesimo, spesso rituale, dibattito che si scatena su tutti i mass media ogniqualvolta una parte del territorio finisca sott’acqua, devastando le vite di intere comunità, continua una strana afasia sulle reali cause di ciò che succede.
Non sono di quelli che pensano che la colpa vada immediatamente
addossata ai sindaci di turno, anche se questi ultimi non possono
bearsi ad ogni piè sospinto dei voti ricevuti in seguito a programmi
elettorali di cambiamento anche radicale e poi chiedere
comprensione per la propria impotenza tutte le volte che sono
chiamati a gestire l’ennesima tragedia. Ma sono di quelli che
pretende dai sindaci di turno parole di verità.
Prendiamo come esempio la vicenda di Genova, perché è quella che
esprime al meglio il paradosso. Se stiamo alle dichiarazioni dei vari
esponenti istituzionali, tutto è avvenuto secondo le regole
e nella piena legittimità delle procedure. Di conseguenza,
dovremmo dire agli abitanti di quella città che il buon
funzionamento delle istituzioni comporta necessariamente
un’alluvione almeno ogni tre anni, con quartieri sepolti dal fango
e vite umane perse. Cosa non torna? Dove sta l’afasia? Dove sta dunque
la vera colpa dei sindaci, «arancioni» compresi?
Ciò che si continua a non dire, a destra come a sinistra, è che il vero killer di quanto è successo in queste settimane è il patto di stabilità interno, al rispetto del quale tutti i sindaci continuano a immolare, in una sorta di nuova religione dei mercati, la cura del territorio e delle comunità che lo abitano.
Quanta spesa pubblica destinata alla manutenzione quotidiana del territorio è stata tagliata, bilancio dopo bilancio, da sindaci ogni volta fieri di aver rispettato i parametri, entusiasti di aver «risanato» il bilancio, in estasi per ogni riconoscimento sulla «stabilità» dei conti? È questa scientifica rimozione del problema che rende sacrosante tutte le proteste, per quanto confuse, di ogni cittadino coinvolto. E’ con questa cartina di tornasole che andrebbe misurata la necessità di dimissioni.
Oggi un sindaco che volesse interpretare sino in fondo il proprio ruolo dovrebbe chiamare a raccolta la comunità territoriale e spiegare come, senza una battaglia collettiva contro il patto di stabilità, nessun miglioramento nella sicurezza del territorio e nella qualità della vita sarà possibile.
Nel frattempo, c’è chi il nodo l’ha pienamente compreso e, grazie all’afasia dei sindaci, lo gioca ancora una volta a favore dei grandi interessi finanziari: la legge di stabilità, appena presentata dal premier Renzi, prevede infatti che i ricavi delle dismissioni delle società di servizi pubblici locali possano essere spesi dai sindaci fuori dal patto di stabilità. Questa volta, molto più di altre, si chiede ai sindaci di schierarsi contro i beni comuni dei cittadini. O si ribellano o non sappiamo che farcene.