Paul Mason è un giornalista inglese noto al pubblico internazionale per il suo lavoro di editor nel programma Newsnight della Bbc e per Channel 4. Più volte premiato come miglior giornalista economico, ha lavorato a lungo in contesti di crisi, coprendo realtà tanto distinte come Silicon Valley e la Florida dell’uragano Katrina; il movimento Occupy e la primavera araba, Gaza e i movimenti sudamericani.
Da qualche mese Paul Mason si trova spesso in Grecia, dove racconta le trasformazioni rapidissime che stanno investendo il paese (qui il suo profilo twitter). Abbiamo approfittato della conferenza internazionale Democracy Rising appena conclusasi ad Atene per parlare della situazione in Grecia e del suo ultimo libro, Post-capitalism – a guide to our future, in uscita in questi giorni per Allen Lane-Penguin e in corso di traduzione per il Saggiatore.
Tu sei stato una delle poche voci internazionali a seguire la Grecia sin dall’inizio e molto da vicino, come definiresti la situazione in Grecia, ora?
Direi «benvenuti a Stalingrado». È stato indubbiamente un grande arretramento quello che la Grecia è stata costretta a fare e non c’è dubbio che la Grecia sia stata costretta a farlo con una pistola puntata alla tempia, una pistola finanziaria. Ma non c’è dubbio anche, avendo visto la situazione in Inghilterra dopo lo sciopero dei minatori, che qui i movimenti sociali non sono stati sconfitti. Qui anzi c’è stata una radicalizzazione di massa prima e dopo il referendum, una radicalizzazione che è stata fortemente sottostimata sia dai media, che fanno fatica a capire ciò che avviene anche a soli duecento metri da Piazza Syntagma, ma anche da Syriza, un partito che comprende bene tutto ciò che avviene al proprio interno ma non all’esterno, nella società più ampia. E secondo me in termini di psicologia collettiva ciò che può avvenire adesso è imprevedibile. Potremmo cominciare a capirlo solamente nel momento in cui diventa chiaro ciò che Syriza farà, se rimane al potere e se stabilizza il proprio messaggio lasciando aperta la possibilità di un cambiamento radicale.
Rimaniamo sul tema della psiche collettiva. Qualche settimana fa tu sei stato tra i pochi a evocare il rischio di guerra civile in Grecia. L’altro giorno al contrario hai detto che ciò che è stato sconfitto non sono i movimenti ma un’illusione, in un certo senso stai evocando due scenari contrapposti.
È così. Chiariamo cos’è l’illusione. Credo che tutti qui abbiamo dovuto cambiare la nostra opinione su ciò che è possibile e ciò che non è possibile in Europa. A meno che non vi sia un cambiamento radicale nelle politiche europee circa la ristrutturazione del debito, con buona probabilità questo accordo non potrà funzionare. Dobbiamo essere cauti nelle nostre valutazioni in questi giorni perché sebbene questo sia il più grande furto di sovranità mai perpetrato in Europa, c’è sempre la possibilità che l’Europa consenta il Quantitative Easing e torni sui suoi passi per quanto riguarda la ristrutturazione del debito. Questo è uno scenario auspicabile, ma se questo non dovesse avvenire è evidente che questo memorandum collasserà più rapidamente dei due precedenti. Dunque ciò che Syriza sta dicendo in questi giorni è che il governo ha fatto tutto il possibile. Ciò che non dice apertamente, ma che dobbiamo leggere tra le righe, è che l’unica cosa che rimane è la resistenza della popolazione.
In questi giorni sembra che l’unica opzione politica credibile sia quella della Piattaforma di Sinistra e dunque la possibilità di Grexit. Cosa ne pensi?
Pensavo e ancora penso che il governo greco abbia fatto bene a cercare una soluzione dentro l’Europa. Banalmente perché non avremmo avuto una riprova, non avremmo saputo come stavano le cose. In questi giorni il dibattito è stato dominato dai concetti di arretramento e capitolazione ma quello che dobbiamo capire è che questi concetti sono un’espressione del fatto che la Grecia ha lottato e ha lottato contro il sistema finanziario globale. La prima cosa che la Grecia ha mostrato è che l’Europa è un costrutto tedesco dominato dalla Germania e dai suoi alleati. La Slovacchia, la Finlandia e i paesi baltici hanno una lunga tradizione di cultura politica antidemocratica e ovviamente erano alleati dell’Asse nella Seconda Guerra Mondiale — questa di per sé è già una rivelazione forte. In queste settimane è stato scioccante vedere questa specie di scenario di guerra manifestarsi durante le negoziazioni con l’Eurogruppo.
La mente umana si adatta facilmente e da questo punto di vista i greci adesso comprendono molto chiaramente che questo accordo non ha nulla a che vedere con l’accordo che avevano sottoscritto. Ma dobbiamo tenere a mente un’altra cosa, perché senza dubbio è possibile pensare a un’uscita dall’Eurozona che minimizzi le perdite e il trauma per la popolazione greca. Ma questo non risolve il problema.
Come si risolve allora?
Il problema è che l’Europa non tollera la democrazia. È oramai chiaro che ogni tentativo di implementare riforme che si pongono come obiettivo una minima giustizia sociale in Europa viene strozzato. Dunque dobbiamo essere concreti sino in fondo. Oggi ogni partito che includa nella sua agenda obiettivi di democrazia sociale e che creda di poterli raggiungere all’interno d’Europa deve da un lato prevedere un progetto transnazionale di riforma dell’Europa e al contempo deve tenere aperta la possibilità di uscirne. Ciò che è successo la scorsa settimana non ha distrutto esclusivamente la sovranità greca, ha distrutto implicitamente la sovranità di ogni paese. Perciò non è sufficiente che «Die Linke» in Germania, il «Sinn Féin» in Irlanda o anche il Movimento Cinque Stelle in Italia parlino di riforme all’interno del contesto nazionale, a meno che non sappiano dire anche che cosa intendono fare con Schäuble e Merkel oppure con la Bce. Ciò che è avvenuto durante le negoziazioni ci impone di arrivare presto a una proposta concreta di democratizzazione della Bce che includa l’imposizione di limiti legali al potere dell’Eurogruppo.
Poi, quando nei miei pensieri più cupi, nei miei momenti peggiori, mi rendo conto che siamo di fronte a una sorta di nuda manifestazione dell’aggressività del potere; quando temo che qualunque obiettivo di giustizia sociale potrebbe essere irrealizzabile, in quei momenti penso che sia necessario che tutti i partiti, inclusi quelli europeisti, tengano aperta la possibilità di exit.
Cosa ne pensi della posizione di Varoufakis durante i negoziati e delle sue dimissioni?
Penso che ogni successo tattico che Varoufakis ha ottenuto abbia solo posticipato il momento dell’arretramento. Potremmo tornare ancora alla metafora di Stalingrado. La sua negoziazione avveniva di fronte ad un potere molto più forte. Io non credo sia stato un problema di personalità ma un limite dovuto al rapporto di forze e alla durezza della politica europea. Alla fine, anche stando alle sue dichiarazioni di questi giorni e a quanto riportato dai media, lui aveva una politica più aggressiva nei confronti dei creditori di ciò che il governo intendeva portare avanti. Ma tutti noi eravamo ancora in preda a una grande illusione, l’illusione di non concepire la Grecia fuori dall’Europa. E anche la politica di Syriza come partito, che secondo me è stata una delle più riuscite combinazioni tra gerarchia interna e reti sociali, è rimasta imbrigliata all’interno di questa illusione.
Nel tuo nuovo libro — «Post-capitalism — a guide to our future» — riprendi concetti cari allla discussione teorica italiana, in particolare riprendi il «Frammento sulle Macchine» di Karl Marx e l’idea che l’intelletto generale sarà la nemesi del capitale. Parli anche di una sorta di «moneta del post-capitalismo», una moneta capace di «validare» altri valori, il tempo libero, la collaborazione e la gratuità.
Il dibattito italiano sul postfordismo mi ha influenzato molto, a partire dal lavoro di Paolo Virno. Ciò che ho tentato di fare qui è stato spostare questo dibattito nella situazione inglese e globale e radicarlo all’interno di possibilità concrete. Per me quanto è stato definito capitalismo cognitivo prefigura una sorta di «terzo capitalismo». Io volevo invece ragionare sulla transizione oltre il capitalismo. Quest’epoca esaspera contraddizioni insostenibili – la riduzione del lavoro retribuito porta a situazioni di privatizzazione e di monopolio. Nel contempo però apre alla sperimentazione di interazioni non mercantili.
Ho imparato molto dal movimento peer to peer. Quello che per me è frustrante del peer to peer è che talvolta queste esperienze si lasciano compiacere dai loro stessi successi locali. Mi pare necessario ragionare su come trasformare questi esperimenti di piccola scala in un progetto globale, come trasformare questi successi locali in un processo virale capace di nutrire, proteggere e promuovere queste esperienze su una scala più ampia sino a sopprimere ciò che sopprime loro, se posso dirlo così. In Grecia ci sono state centinaia di iniziative collettive in ogni settore, nell’educazione, gli asili, monete alternative, forme di baratto, eccetera. È necessario sopprimere le forze che sopprimono la collaborazione e la condivisione, e questo è un progetto ampio. Gli economisti fanno fatica a vedere tutto questo perché non si tratta meramente di un’evoluzione economica, si tratta più propriamente di un’evoluzione umana e questa è già in atto.
È questo che intendi con «project zero»?
Si, mi riferisco a un progetto capace di ridurre a zero l’ingerenza del mercato. Per me l’idea di un reddito di cittadinanza per esempio è ciò che consente di superare radicalmente l’economia di mercato portando le ore di lavoro il più vicino possibile allo zero. Si tratta poi di investire in fonti energetiche capaci di ridurre a zero le emissioni di carbonio. Nel libro non offro una mappa di questa transizione, si tratta tuttavia di spostare le energie in questa direzione, di costruire alternative all’interno del sistema in un modo radicale e distruttivo, di lavorare alla transizione.
Nel libro ti chiedi se sia utopico dire che siamo a vicini a un’evoluzione oltre il capitalismo. Che risposta dai, allora, è utopico o no?
Non è utopico. Già sappiamo tutte le cose problematiche che avvengono attorno a noi, ma dobbiamo tenere presente che viviamo in un’epoca di abbondanza, un’epoca in cui il problema della scarsità non esiste più come in passato. L’informazione a sua volta è abbondante, rapida e gratuita. L’abbondanza, la gratuità e la riduzione del tempo di lavoro sono esperienze concretamente possibili. In un certo senso oggi la società intera è diventata un laboratorio sociale. Questo è il segnale che tutto questo non è utopico, è possibile.