Nel 2012 ci era stato detto dal governo Monti che con il
recesso da un contratto di prodotti derivati monetari, siglato in
passato con la banca d'affari americana JP Morgan, il problema dei
derivati per lo Stato centrale era stato finalmente risolto e non si
sarebbe incorsi in ulteriori perdite. Avviso ai naviganti, tutto il
"giochino" era costato una penale di 2,4 miliardi di euro.
Oggi la Corte dei Conti insiste che il rischio derivati in
pancia a Via XX Settembre esiste ancora, e può costare agli italiani
fino ad otto miliardi - quel che servirebbe per rimandare l'aumento
dell'IVA e smussare l'IMU sulla prima casa.
Di fronte a un tale dissidio inter-istituzionale - su cui
l'onnipresente Capo dello Stato questa volta tace - è semplicemente
vergognoso che alla Guardia di Finanza, corpo di polizia emanazione del
Ministero dell'Economia, non sia permesso di salire le scale dello
stesso ministero e visionare una volta per tutte i contratti derivati in
questione. Così non potremo mai sapere se gli 8 miliardi di possibile
buco nei conti pubblici siano collegati alle perdite stimate sui
contratti ancora in essere, oppure se siano le penalità da pagare per
rescindere gli odiosi contratti.
Dai piani alti del ministero dell'Economia rispondono che non è vero
ciò che la stampa denuncia, e che i contratti sono già stati rinegoziati
nel 2012. Ma perché, allora, non possiamo sapere quali siano le nuove
clausole e di quanto abbiano migliorato quelle sostituite? E poi, siamo
sicuri che il buon governo Monti abbia rinegoziato a nostro vantaggio e
non a vantaggio delle banche d'affari? Il Parlamento italiano
dovrebbe una volta per tutte istituire subito una commissione di
indagine parlamentare sui derivati sia a livello di Stato centrale che
di Enti Locali e acquisire tutti i contratti e la documentazione
necessaria.
Ma non solo. Dallo scoppio della crisi finanziaria, la
questione derivati emerge con regolarità nel nostro paese. È chiaro che,
come nel caso della Grecia, l'Italia ha stipulato questi contratti
negli anni '90 per limare i propri bilanci pubblici e avere il via
libera all'ingresso nell'Euro. Per fare ciò si è fatto il patto
con il diavolo e oggi ne paghiamo il conto. Liberarsi del demonio delle
banche di affari richiede più di un esorcismo. Seppure valeva la pena
prendere questo rischio pur di entrare nell'Euro - questione forse oggi
da rivisitare - viene da chiedersi perché colui che ha pensato e
orchestrato il piano in prima persona, ossia il Prof. Mario Draghi,
allora direttore generale del ministero del Tesoro e oggi al vertice
della Banca centrale europea, in qualità di luminare di politica
monetaria non abbia previsto che l'Euro sarebbe diventato una moneta
forte. Ma soprattutto che il costo del denaro sarebbe sceso fortemente
in tutta l'Eurozona e quindi gli swap monetari - ossia i contratti
derivati - avrebbero funzionato a svantaggio dello Stato. Perché questo
calcolo non è stato fatto e perché non si sono approntate altre
soluzioni? Tale materia richiederebbe un'audizione nel Parlamento
italiano di Mario Draghi in persona, e per una volta il deus ex machina
della finanza europea raccontasse la verità su questo scandalo, dalla
sua concezione al suo fallimento.
Infine, chiediamoci se è giusto pagare in toto questo taglieggiamento
che la finanza globale speculativa oggi impone a noi tutti contribuenti.
Perché almeno su tale questione lo Stato non può dire "non pago", e
rinegoziare in maniera trasparente la questione? Se poi era una truffa
quella che abbiamo orchestrato ai danni dell'Ue con i derivati in
oggetto, perché dovremmo pagare i complici che ci hanno lucrato più di
noi? Anche su questo magari si pronunciasse la Corte dei Conti, o la
Guardia di Finanza, in attesa di salire le scale di Via XX Settembre.