Non intendo dare un giudizio politico; molti, anche della nostra più stretta cerchia di amici, sono affranti per la formazione del governo Conte con Savona Salvini e Di Maio, e non voglio contraddirli; dico solo perché non credo che il fallimento sarebbe stata una soluzione migliore. Non lo credo per la ragione per cui abbiamo lottato per tutta la vita, e a volte fatto anche scelte difficili e dolorose, e perfino laceranti nella nostra comunità ecclesiale; e la ragione è che quando la democrazia giunge a un blocco per la quale non può più proseguire, bisogna fare le scelte anche più ardue perché non venga meno il principio potente che è alla base di tutto, che è quello dei numeri, che è il governo dei più, non dei più forti; perché è vero che la democrazia non sta solo nei numeri (perciò ci sono le Costituzioni) ma senza i numeri non c’è affatto democrazia; e la democrazia non sta in natura, è un prodotto della ragione, può finire. E la seconda ragione per cui un fallimento sarebbe stato distruttivo non solo della democrazia ma della stessa politica, è che non si può dare per acquisito che le forme e le regole del capitalismo - anche costituzionalizzato e tradotto in regime come lo è purtroppo nei Trattati europei - non si possono cambiare e addirittura nemmeno discutere.
L’analisi che di
questa drammatica esperienza è ora utile e necessario fare, al di là di
quelle di partito, è un’analisi di antropologia politica. Perché quello
che colpisce è quanto, contro la stessa lezione di Machiavelli, i
diversi soggetti abbiano operato in questa vicenda, quasi spinti da un
fato, a favore non di se stessi ma dei propri “nemici” e in modo da far
accadere precisamente ciò contro cui più strenuamente combattevano; si
potrebbe dire, in termini colti, che si è assistito a una gigantesca
eterogenesi dei fini.
Per primo è capitato al presidente
Mattarella, che giustamente voleva tutelare l’euro, la pace sociale e i
risparmi degli italiani.
Ma proclamando ufficialmente dalla città sul monte del Quirinale che il diniego a Savona era motivato dal fatto che il suo insediamento all’Economia avrebbe potuto essere visto come tale da “provocare probabilmente o addirittura inevitabilmente la fuoruscita dell’Italia dall’euro”, mentre assicurava che quel governo non ci sarebbe stato, certificava nello stesso tempo che in Italia c’era già in atto, e non solo in ipotesi nel futuro, una maggioranza dell’elettorato e di seggi parlamentari pronti a buttare a mare l’euro e a tornare alla lira. Di qui il panico dei mercati, la febbre delle cancellerie, il salto in alto dello spread, i miliardi bruciati nelle borse di mezzo mondo.
Il secondo a farsi del male è stato Di Maio che precipitandosi nel baratro della richiesta di impeachment dimostrava
l’immaturità politica del movimento, distruggeva la credibilità
istituzionale acquisita nella sua lunga marcia da forza anti-sistema a
ortodosso innovatore del sistema, e lanciava un’inopinata ciambella di
salvataggio al suo maggior nemico, il partito democratico, che poteva
tornare sulla scena issando lo stendardo del Quirinale e proponendosi
come albergo di una santa alleanza a difesa del santo Graal monetario e
del reddito di sussistenza degli italiani a rischio di miseria.
Terzo è stato Salvini, che nella sua scaltrezza disinnescava la mina dell’impeachment,
ma perdeva il valore aggiunto di chiave di volta di una maggioranza
parlamentare e, risucchiato nell’alleanza di destra, rimetteva in corsa
il cavaliere che era il suo vero antagonista e che si affrettava a
candidarsi lui stesso al governo per salvare la patria.
Quarto
Renzi, che perorava l’immediato abbandono della nave ammutinatasi il 4
marzo e voleva nuove elezioni già il 29 luglio, per lucrare il
dividendo del disastro e recuperare qualcosa dei consensi perduti,
destinati invece in tal modo a perdersi sempre più.
Quinto, Romano
Prodi, che a difesa di tutta la politica interna ed estera seguita
dall'Italia dal dopoguerra ad oggi (in cui egli stesso ha avuto gran
parte dall’IRI all’euro, da Roma a Bruxelles) ha chiesto di fare delle
prossime elezioni un referendum sullo stare o fuoruscire dall’euro,
ormai identificato con l’Europa, chiamando alla lotta un ampio
schieramento di forze politiche e sociali.
Il paradosso sta nel fatto
che il referendum sull’euro, illegittimo per la Costituzione, è stato
finora ragione di veemente accusa contro coloro che lo volevano
promuovere; e se ora è il ceto istituzionale stesso che lo vuole indire
sotto le mentite spoglie delle elezioni politiche, se lo si perde, come
Renzi ha perso il suo, non c’è più Mattarella che tenga e l’euro se ne
va in frantumi. Prova questa che la politica, quando è schiacciata sul
paradigma del denaro, diventa ciò che del denaro è la massima sfida: un
gioco d’azzardo.
Sesto, il coro del circuito mediatico e televisivo
che a forza di manipolare l’informazione rischia di non poter informare
più. Ne è stato esempio la falsa e devastante notizia diffusa dall’Huffington Post
sull’uscita dall’euro e dal debito che sarebbe stata contenuta nella
prima bozza del famoso “contratto”, quando invece era un “draft”
proposto all’inizio da uno dei partecipanti alla trattativa; con la
conseguenza che qualunque altro negoziato futuro dovrà avvenire in
segreto senza informazione alcuna, secondo l’antica saggezza del
Conclave che stacca ogni comunicazione col mondo e si fa vivo solo con
segnali di fumo.
L’unico a uscire indenne da questo generale autolesionismo è stato il povero Conte, dileggiato come il Signor Nessuno, l’Uomo Qualunque o il Cavaliere inesistente, uscito di scena con dignità e poi silenziosamente riapparso “nei pressi di Montecitorio” nel giorno peggiore della crisi, dando occasione alla TV che ne ha colto al volo l’immagine di riaffacciare quell’ipotesi di governo che poi si è realizzata. E altrettanto bene Cottarelli, che ha lasciato il Quirinale affermando che la soluzione di un governo politico era di gran lunga migliore di quella “tecnica” da lui stesso tentata, e ponendo fine alla febbre delle elezioni da rifare.
Questo è stato l’angoscioso scenario della crisi, fino a quando un ravvedimento operoso ha mostrato che a decidere può non essere il fato, o un’altra astrazione idolatrica simile a lui, ma può essere la politica, cioè l’intelligenza e il cuore delle persone. Così Mattarella ha fatto finta di non ricordarsi che Di Maio gli voleva scatenare l’impeachment; Di Maio ha avuto l’umiltà di riconoscere il suo errore e di chiederne scusa; Salvini ha mostrato che il governo davvero lo voleva fare e non, come tutti lo accusavano, di voler approfittare a spese del Paese del vento in poppa elettorale; Savona ha accettato di passare come un ministro senza portafoglio da tenere sotto sorveglianza; di Conte e Cottarelli abbiamo detto.
Ora che il governo c’è, ognuno torni al suo ruolo, di maggioranza o di opposizione, di appoggio o di critica. Per quanto ci riguarda il criterio supremo sul quale giudicarlo è quello della salvaguardia e dell’onore offerti allo straniero, perché “ricordatevi che anche voi siete stati stranieri in Egitto”. E non sta questo alla base della famosa tradizione giudeo.cristiana rivendicata nei comizi giurando sulla Costituzione e sul Vangelo e con il rosario in mano, con la promessa che “gli ultimi diventeranno i primi”?
Raniero La Valle