Curiosa storia, la data del referendum sulla riforma
costituzionale. Renzi ha parlato di voto in ottobre. Ma rumors
insistenti dicono che a palazzo Chigi piacerebbe molto votare prima,
magari insieme alle amministrative. Tanto da incaricare un autorevole
emissario di saggiare l’orientamento della Corte di cassazione sul
punto.
A quanto pare, chi ha con arroganza scommesso tutto su un plebiscito
teme un voto sulla riforma solitario e lontano. E se gli italiani si
fermassero a pensare? Se non bastassero battute e tweet? È meno
rischioso forzare la mano, fare presto, e andare all’ammucchiata. Come
bruciare i tempi referendari? Dopo il prossimo voto della camera la
legge sarà pubblicata — senza promulgazione — nella Gazzetta Ufficiale.
Entro i successivi tre mesi – tempo massimo, non soglia minima — 500mila
elettori, cinque consigli regionali, o un quinto dei componenti di una
camera potranno avanzare richiesta di referendum. La Corte di cassazione
ne valuterà la (sola) legittimità. La disciplina è nella legge
352/1970.
Il trucco c’è. Il voto della camera verrà entro metà aprile. Dopo,
basteranno poche ore per pubblicare il testo in Gazzetta Ufficiale
e presentare in Cassazione la richiesta di referendum da parte dei
parlamentari, di maggioranza e di opposizione. Per l’articolo 12, comma
3, della legge 352, la Corte «decide, con ordinanza, sulla legittimità
della richiesta entro 30 giorni». Se anche la Cassazione decidesse
nell’ultimo giorno utile, non andremmo oltre metà maggio. Il decreto di
indizione del referendum potrebbe poi seguire nel giro di poche ore,
fissando per il voto una data «in una domenica compresa tra il 50° e il
70° giorno successivo all’emanazione del decreto». E saremmo all’inizio
di luglio, o anche prima se la Cassazione si pronunciasse velocemente.
Il gioco è fatto.
Che fine fanno i tre mesi per la richiesta di referendum previsti
dall’articolo 138? Ci vediamo già inondati dai tweet con cui
l’ineffabile premier spiega ai sudditi che il referendum l’ha già
chiesto lui attraverso i parlamentari di maggioranza, e che dunque non
c’è bisogno di aspettare che lo chiedano anche altri. È uno spreco di
tempo e di soldi pubblici. Dunque, una paterna sollecitudine dell’uomo
di palazzo Chigi? Ma solo giocando al finto tonto si potrebbe ignorare
il diverso messaggio politico e istituzionale dato dalla provenienza
della richiesta. Che è poi un diritto direttamente attribuito dalla
Costituzione a soggetti diversi, ciascuno dei quali ha titolo
a esercitarlo entro il termine prescritto. Il termine di tre mesi può di
fatto ridursi solo nel caso in cui tutti i soggetti titolari —
elettori, parlamentari, consigli regionali — esercitino il proprio
diritto in tempi più brevi.
Vale anche per la raccolta delle firme. Votare prima del decorso dei
tre mesi o del minore tempo eventualmente sufficiente per la raccolta
significherebbe azzerare il diritto di 500mila elettori di chiedere il
voto popolare. Lo ha sostenuto anche Giuliano Amato da presidente del
Consiglio nel 2001. E per il passato, si è preferito aspettare il
decorso del termine. Ma da questo governo — la cui frequentazione del
diritto costituzionale è labile e del tutto occasionale — non possiamo
certo attenderci attenzione per i precedenti. Dunque, prepariamoci.
Come? Le firme sono raccolte su richiesta di un comitato promotore.
Anche tale richiesta può essere subito presentata in Cassazione, per la
pronuncia sulla legittimità. L’eventuale successiva indizione del
referendum andrebbe a interrompere il subprocedimento — a quel punto già
aperto — di raccolta delle firme. Il diritto di richiedere il
referendum con la firma di 500mila elettori viene direttamente dalla
Costituzione. Si può dunque argomentare che la richiesta di raccogliere
le firme di per sé preclude una anticipata indizione del referendum.
Il comitato — secondo la Corte costituzionale — può sollevare conflitto
tra poteri dello stato davanti alla stessa Corte. E bene potrebbe farlo
per il decreto di indizione intempestivo. Se insistesse, il governo
andrebbe al voto essendo in corso un giudizio davanti alla Consulta.
E non dimentichiamo che l’indizione assume la forma di un decreto del
presidente della Repubblica. Nel gergo dei costituzionalisti, è atto
sostanzialmente governativo, e il governo ne decide i contenuti. Ma un
presidente della Repubblica minimamente arbitro dovrebbe pur avere
qualche remora a firmare un decreto che vanifica una raccolta di firme
in corso, predestinato a un giudizio per conflitto tra poteri.
Potrebbe essere anche chiesta la sospensiva del decreto di indizione.
Non è specificamente prevista per il conflitto tra poteri, ma non
mancano in dottrina voci autorevoli nel senso che sia consentita, e le
pronunce della Corte non chiudono la porta. In ogni caso conta che
basterebbero la richiesta del comitato promotore e il ricorso alla Corte
— che il governo non può impedire — a porre ostacoli al voto
referendario prima dell’estate, e comunque a disvelare il trucco di una
concomitanza apparentemente normale e fortuita con le amministrative.
Si voti a ottobre. L’agitazione disvela che la paura serpeggia nelle
stanze del potere. E se alla fine la vittoria non fosse sicura? Se il
popolo sovrano avesse un sussulto di orgoglio? Se Davide abbattesse
Golia? Comunque siano avvertiti, a palazzo Chigi. Le carte bollate sono
già pronte.