L’attuale ipotesi di riforma costituzionale proposta dal governo Renzi impatta, fra le altre cose, con problemi di procedura delle modifiche costituzionali che hanno una storia, che è utile richiamare. È un fatto che man mano che ci si allontanò dall’approvazione della Costituzione, le previsioni dell’articolo 138 Costituzione (che regolano appunto la procedura per le modifiche costituzionali) furono tradite dalle prassi e nei regolamenti parlamentari. Il problema giuridico si sentì meno nell’epoca del proporzionale, quando la convenzione costituzionale era quella di non procedere a revisione senza disporre preventivamente dei due terzi nella seconda deliberazione di ciascuna camera. Come dire che all’epoca c’era una attenzione al problema politico del consenso democratico e parlamentare alle modifiche costituzionali, che col tempo è andato smarrendosi.
Oggi — in un quadro in cui i sistemi disproporzionali in vigore producono strette maggioranze parlamentari che si ritengono autorizzate ad imporre alterazioni sostanziali all’equilibrio dei poteri immaginato dai padri Costituenti — appare assai opportuno riscoprire la ragione della procedura aggravata (cioè più complessa rispetto a quella delle leggi ordinarie) prevista dall’articolo 138. Secondo questo infatti, non si tratta di una mera ripetizione del voto di approvazione in blocco (con la maggioranza assoluta) di un testo già lavorato definitivamente con la procedura ordinaria. Una interpretazione testuale e logica porta infatti a concludere che la costituzione esclude le troppo sbrigative norme previste per la ordinaria navette; in particolare esclude quelle che ammettono la possibilità di modificare il testo in discussione solo nelle parti che non abbiano già avuto una approvazione eguale nelle due camere. Al contrario, essendosi davanti proprio alla necessità di quattro consecutive approvazioni dell’identico testo, persino distanziate nel tempo, la procedura ordinaria (la cui finalità è quella di una rapida approvazione) è intrinsecamente incongruente e lesiva dell’aggravamento previsto per le sole modifiche costituzionali, delle quali finisce per lo svuotare il significato normativo.
Nella terza legislatura venne invece introdotta, innovando nei
regolamenti dei due rami e calpestando la Costituzione, la
preclusione a qualunque attività emendativa sulle parti di un
testo costituzionale approvate in maniera conforme. Secondo le
giunte del regolamento delle due camere ciò non avrebbe comportato
«effetti irrimediabili»: se una camera ritiene di non potere
approvare il disegno di legge nel testo già adottato in prima
lettura, essa può sempre respingerlo. La navetta è diventata così
una camicia di Nesso per il Revisore costituzionale.
Il punto è che era progressivamente cambiata la qualità della
classe dirigente. Le forze politiche sentivano ormai il bisogno di
assicurarsi i due terzi non più preventivamente, facendo «nascere
bene» il testo nelle concertazioni interpartitiche, ma in corso
d’opera, negoziando direttamente coi parlamentari chiamati
a votare il testo (così da assicurarsi i due terzi necessari ad
evitare un divisivo referendum). Nel drammatico 1993, Spadolini
a giugno non esitò un istante a violare la navetta pur di
«riaggiustare» il testo sull’articolo 68, inviatogli dalla camera
nella parte oggetto di mera soppressione. Lo stesso Napolitano che
nel maggio aveva dichiarato inammissibile un emendamento
aggiuntivo di Gerardo Bianco, si trovò nel luglio a dichiarare
ammissibile l’aggiunta approvata dal senato.
Il testo attualmente in discussione contiene molte disposizioni eterogenee e tali da investire parti diverse della Costituzione. L’alternativa, che sarà la stessa dell’eventuale referendum confermativo, non può essere tra prendere e lasciare. Addirittura la via di fuga sarebbe un «dai» al posto di un «nei»: la cruna di un ago attraverso la quale può passare solo il cammello del governo. Tanto più che a reggere il gioco, c’è chi nel 2004 condivise la scelta della presidenza di ammettere al voto emendamenti del governo su testi identicamente approvati dalle due camere. Se la presidenza del senato vuole allontanare da sé il sospetto di parzialità a favore del governo riapra la navetta per tutti: se ne gioverà la qualità del testo, la sua sostenibilità politica e, probabilmente, anche quella referendaria. Perché il 138 — anche in questo — va letto nel suo verso giusto: il popolo è chiamato a condividere lo spirito costituente delle camere, non a consacrare l’appello plebiscitario di un capo.