Va meditato molto il discorso tenuto dal Presidente della Repubblica il 3 febbraio al Parlamento in seduta comune. Anche al di là del rispetto e della stima che si devono a Sergio Mattarella per la sua indiscutibile onestà morale e politica. Va contestualizzato, questo discorso, alla particolare congiuntura istituzionale che stiamo vivendo, aggravatasi con i fatti, gli atti, e le omissioni di atti, che hanno dato seguito alle elezioni politiche del 2013.
Congiuntura che merita particolare attenzione: E non soltanto da parte dei costituzionalisti e dei politologi. Gli eventi che si succedono sembrano cadenzati da anomalie specifiche della crisi trentennale che attanaglia insieme Costituzione, sistema politico, etica pubblica. Di questa crisi infatti quel discorso è, insieme, denunzia, giudizio, prova. Coglie esattamente i fattori della crisi, ne indica l’ampiezza allarmante, elenca le tante esigenze da soddisfare per superarla e lo spirito con cui andrebbe affrontata. Ma di questa crisi quel discorso è anche espressione, la rappresenta. Come? Come contraddizione o invece come rassegnazione alla deriva delle istituzioni che questa crisi determina ?
I meriti di quel discorso vanno riconosciuti. È encomiabile la
concretezza con cui il Presidente ha voluto dispiegare il valore
e la portata dei principi e dei diritti sanciti nella nostra
Costituzione e riaffermare l’obbligo di innestarli nel vissuto
quotidiano di ciascuno e di tutti. Il richiamo all’eguaglianza come
concepita e sancita dalla Costituzione quale compito della
Repubblica non poteva essere più netto e impegnativo. E non c’è da
dubitare della piena adesione a quei valori di Sergio Mattarella.
Ne è testimone il suo passato.
Pregevole e, a fronte dell’attuale declino, quanto mai opportuno è il
richiamo alla responsabilità ed alla essenza stessa della
rappresentanza politica. Dal che si dovrebbe dedurre la necessità
di non distorcerne natura e ruolo e di renderla credibile,
rafforzandola. Uguale giudizio va dato sulle aperture a forme
nuove di partecipazione popolare alla vita politica. Esplicita
e forte la necessità di restaurare l’efficacia delle norme
costituzionali in materia di rapporti Parlamento-Governo. Quanto
mai condivisibile è l’impegno a scorzare dalla figura del
Presidente della Repubblica le straripanti escrescenze che la
hanno deformato negli ultimi anni. Ne è seguita però l’affermazione che
«non spetti al Presidente della Repubblica di entrare nel merito
delle singole soluzioni che competono al Parlamento nella sua
sovranità … quanto alla ampia ed incisiva riforma della seconda parte
della Costituzione» e quanto alla nuova legge elettorale.
Questa affermazione suscita perplessità. La deontologia dei
costituzionalisti impone di diffidare del potere chiunque lo
eserciti, come ben sa il professor Mattarella. I termini usati con
quell’affermazione vanno quindi verificati. Ne conseguono alcune
precisazioni sui poteri-doveri del Presidente della Repubblica
secondo la Costituzione ancora vigente. Che il titolare di
quest’organo non debba intervenire nel corso del procedimento di
formazione delle leggi, sia che siano ordinarie sia che siano
costituzionali, è certo. Che rientri nell’esclusivo ambito dei
poteri parlamentari quello della determinazione degli oggetti
e dei fini dell’attività legislativa, attività che noi
costituzionalisti denominiamo indirizzo politico di
maggioranza, è altrettanto certo. Ma è anche certo che le leggi
devono essere promulgate ed è il Presidente della Repubblica che le
promulga. Se non deve influire sull’esercizio della funzione
legislativa, per esercitare il potere-dovere di promulgare le
leggi deve invece valutarle (come opportunamente sottolineava
Villone su questo giornale il 4 scorso). Valutarle sapendo di essere
titolare del potere-dovere di chiedere alle Camere una nuova
deliberazione della legge, ordinaria o costituzionale che sia,
se essa infrange uno dei principi fondamentali della Costituzione.
Principi che la Corte costituzionale (sent. 1146/1988) ha
dichiarato immodificabili. Quale altra funzione avrebbe
altrimenti il potere di rinvio delle leggi attribuito dall’articolo
74 della Costituzione? A che servirebbe altrimenti l’istituto della
promulgazione? L’astensione programmata dall’esercizio attivo di
questi due poteri sconvolgerebbe l’ordinamento. Renderebbe
assoluto il potere del Parlamento che assoluto non è. Perché
nessun potere è assoluto nelle democrazie costituzionali, fin
quando restano democrazie e fin quando sono fondate su una
costituzione che sia tale.
Ora, definire col termine «sovranità la funzione legislativa del
Parlamento da parte poi di un giurista quanto mai rigoroso allarma.
In via generale, perché supporrebbe la piena assunzione avvenuta
«di fatto» da parte del Parlamento della sovranità popolare. Nella
specie, perché il riferimento è «all’ampia e incisiva riforma della
seconda parte della Costituzione». Riforma che, nella formulazione
in discussione, specie se poi collegata a quella della legge
elettorale già approvata dal Senato, assemblando il legislativo ad
un esecutivo monocratico, si presenta «manifestamente» in
contrasto con il principio costituzionale della divisione dei
poteri. Principio immediatamente deducibile dall’articolo 1 della
Costituzione che definisce la sovranità popolare come potere da
esercitare «nelle forme e nei limiti della Costituzione». Potere non
trasferibile, non acquisibile, non disponibile.
È da sperare perciò che il termine «sovranità» sia stato usato enfaticamente per ribadire che, durante il «percorso» volto a riformare la seconda parte della Costituzione, la potestà parlamentare non subirà interferenze presidenziali. E che il garante assicurerà «la puntuale applicazione delle regole», tutte, quindi. E anche da sperare che sia allora un monito intestare al procedimento di riforma l’obiettivo di rendere «più adeguata la nostra democrazia». Più adeguata. Perciò non compressa, distorta, mutilata. Come risulterebbe sia dall’approvazione della riforma del Senato che vuole Renzi, sia dall’Italicum.