Lunedì sarà il battesimo: nell’aula dei gruppi parlamentari della Camera dei deputati si terrà il primo incontro dei Comitati del No alla riforma Boschi: “Proveremo a sensibilizzare i cittadini”, spiega Lorenza Carlassare, uno dei relatori dell’incontro. “Speravo – in un eccesso di ottimismo – che ci fosse un ripensamento in Parlamento su alcuni aspetti della riforma costituzionale. Ci preoccupiamo di chiedere il referendum in base all’idea che questa riforma venga approvata così com’è, con tutti i difetti che ha. Addirittura una modifica che saggiamente la Camera aveva eliminato (l’attribuzione al Senato del potere di eleggere da solo due dei cinque giudici costituzionali che ora vengono eletti dal Parlamento in seduta comune) è stata ripristinata dal Senato, e ormai l’approvazione della Camera sembra sicura. Evidentemente non c’è spazio per una riflessione critica. Non resta che mobilitare le persone in vista del futuro referendum, che il presidente del Consiglio va annunziando come un’iniziativa sua: lui sottoporrà la riforma al popolo perché la approvi; lui, in caso contrario, si dimetterà. Si arriva al punto di personalizzare persino il referendum costituzionale. Ma non è questo il senso del referendum costituzionale che non è previsto per ‘acclamare’, ma per opporsi a una riforma sgradita”.
L’equivoco non è nuovo: nel 2001 votammo per confermare la riforma del Titolo V della Costituzione. Governo di centrosinistra.
Si vede che è un’idea del Pd! Ma è sbagliata. E non si tratta
di una sfumatura. Il referendum serve a rafforzare la rigidità della
Costituzione impedendo alla maggioranza di cambiarla da sola. O la
riforma è approvata da entrambe le Camere con la maggioranza dei due
terzi – vale a dire con il concorso delle minoranze – oppure la legge,
pubblicata per conoscenza, è sottoposta a referendum qualora entro tre
mesi “ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o 500 mila
elettori o cinque Consigli regionali”. Se nessuno chiede il referendum,
trascorsi i tre mesi la legge costituzionale viene promulgata,
pubblicata ed entra in vigore; interessato a chiedere il referendum
dovrebbe essere chi è contrario ai contenuti della riforma, per
impedirne l’entrata in vigore. L’art. 138 non si presta a equivoci. Il
referendum quindi è una possibilità, quando la riforma non ha coinvolto
le minoranze, per consentire a chi non è d’accordo di provare a farla
fallire; può essere anche una minoranza esigua non essendo previsto un
quorum di partecipazione.
Che significato hanno le dichiarazioni con cui il premier ha legato il suo destino politico all’esito del referendum?
Insisto: il referendum costituzionale non è uno strumento nelle
mani del Presidente del Consiglio a fini di prestigio personale. In
molti hanno messo in luce l’intenzione di trasformare la consultazione
in un plebiscito pro o contro Renzi: ma qui è in ballo la sorte della
Costituzione, non la sua. Invece, pensando che – 5Stelle e Sinistra
Italiana a parte – non troverà oppositori sul suo cammino e il
referendum sarà un trionfo, intende servirsene per rafforzare il suo
potere personale, da esercitare senza controlli e contrappesi, senza che
nessuno lo contraddica.
Risponderete con un’informazione basata sui contenuti della
riforma: come pensate di farli passare? C’è il precedente del 2006 in
cui i cittadini bocciarono la riforma Berlusconi: ma era Berlusconi,
appunto.
Questo è il vero problema. Mentre nel 2006 il progetto di
modifica della forma di governo era chiara perché Berlusconi aveva
parlato esplicitamente di premierato, ora apparentemente la forma di
governo non viene modificata; ma nella sostanza – grazie al combinato
disposto di Italicum e riforma Boschi – l’effetto è proprio quello di
trasformare la forma di governo e persino la forma di Stato, vale a dire
la democrazia costituzionale.
Il leitmotiv è stato “abolire il bicameralismo perfetto”.
Su questo erano d’accordo tutti. Bastava fare una riforma circoscritta,
non c’era bisogno di sfigurare la Costituzione. Fra l’altro, una delle
ragioni della riforma del bicameralismo perfetto era la semplificazione
delle procedure: semplificazione che non c’è stata, semmai si è
complicato e confuso il procedimento legislativo. Per alcune leggi il
Senato interviene, per altre no. Per alcune il Senato vota, ma poi la
Camera con maggioranze diverse deve tornare sul testo del Senato. Tutto
irrazionale. Il vero dato è che la composizione del nuovo Senato – della
quale abbiamo già detto molto nei mesi scorsi – lo rende agevolmente
controllabile. Le riforme vanno tutte nella stessa direzione: pensi alla
Rai!
Cioè “chi vince piglia tutto”?
La legge elettorale che entra in vigore nel 2016 è una via
traversa per giungere di fatto all’elezione diretta del premier. Quando
si arriva al ballottaggio (per il quale non c’è quorum, e dunque le due
liste più votate partecipano a prescindere dal seguito elettorale che
hanno avuto), l’elettorato deve necessariamente schierarsi a favore di
uno dei contendenti e chi vince si prende tutto. È una forma
d’investitura popolare per chi guida il governo; un discorso non nuovo
che precede Renzi di molti anni: le elezioni come strumento non tanto
per eleggere il Parlamento, ma per scegliere e investire un governo e il
suo Capo. E senza che a una simile trasformazione si accompagnino i
contrappesi indispensabili in una democrazia costituzionale.