Dopo ben cinque mesi di negoziato tra il nuovo governo di Atene e l’Unione europea due cose sono ormai chiare.
La prima è che non si è trattato di un negoziato, ma di una guerra. Una guerra preventiva per il rafforzamento dell’egemonia tedesca in Europa.
La seconda, del tutto conseguente, è che il problema non è la Grecia ma la Germania.
Fino a che punto può essere sopportata da diversi partner
europei, in primo luogo la Francia, la politica di potenza che
Berlino sta conducendo all’interno dell’Unione? E fino a che punto
gli Stati Uniti potranno permettere alla Germania di portare
scompiglio in quel campo atlantico che pure qualche obbligo
comporta?
Il lungo braccio di ferro con Atene non interroga tanto la
compatibilità dell’economia greca con le regole dell’Unione, quanto
la compatibilità degli interessi tedeschi con la tenuta e la
sostenibilità di una comunità europea in generale. A Berlino, in
nome dell’Europa e della Nato, sta prendendo forma nelle torbide acque
della crisi greca, una politica antieuropea e tendenzialmente
antiatlantica.
Pochi lo nominano perché è un argomento di quelli che fanno rabbrividire. Ma la vicenda greca e l’evoluzione interna del quadro politico tedesco ci stanno mostrando sempre più chiaramente la rinascita di un nazionalismo germanico sempre più disinibito e tracotante. Nonché visibilmente tentato di spingersi ben oltre i confini dell’etica mercantilista nella cui ombra è andato fino ad oggi sviluppandosi.
Nella martellante campagna di stampa contro Atene, ma anche nelle prese di posizione e nel linguaggio dei principali esponenti politici della Repubblica federale (dagli ultraconservatori della bavarese Csu ai socialdemocratici) va ormai sedimentandosi una «cultura della superiorità tedesca» dai tratti sempre più marcati. Il successo economico (conseguito anche sfruttando, a suo tempo, la comunità europea al servizio di propri bisogni e ambizioni) viene esclusivamente attribuito al merito del Modell Deutschland e a un catalogo di «virtù nazionali» del popolo tedesco in netto contrasto con i «vizi nazionali» di altri popoli d’Europa. Tra cui, per esempio, l’«inaffidabilità greca», un argomento che, secondo logica, escluderebbe in via preventiva qualunque ipotesi di negoziato, essendo un certo grado di fiducia la condizione necessaria di ogni trattativa.
Qualcuno si è perfino paradossalmente spinto a giudicare il cedimento di Tsipras nei confronti del diktat europeo come una personale inclinazione del leader di Syriza al «tradimento». Quell’opinione pubblica che oggi farebbe da ostacolo a ogni forma di flessibilità nei confronti di Atene è stata metodicamente costruita entro questa prospettiva culturale. A partire dalla convinzione che mentre i debiti pubblici di alcuni stati sono e devono restare inestinguibili, il debito storico della Germania nei confronti dell’Europa e del mondo è ormai ampiamente estinto.
Il 70 per cento di consensi di cui godrebbe — secondo i sondaggi — il ministro delle finanze Schauble, non è tanto da attribuire alle convinzioni liberiste della maggioranza dei cittadini tedeschi quanto a quella «priorità dell’interesse nazionale» che è la formula con la quale il nazionalismo si presenta al giorno d’oggi in società, e di cui il «tecnico» Schauble è l’impeccabile interprete politico.
Ma l’aspetto più inquietante di questo ordine del discorso, come è andato configurandosi nel corso della crisi greca, è che esso rimette in gioco, come fattore di consenso politico e di supporto all’azione di governo, la figura del «parassita» e del «profittatore», di cui i disciplinati contribuenti tedeschi sarebbero le vittime. I loro soldi, generosamente prestati alla Grecia, verrebbero messi a rischio dalla furbizia levantina di una popolazione pienamente colpevole delle condizioni in cui versa.
Questo ridicolo schema infantile cancella in un sol colpo le spericolate operazioni delle banche, la spregiudicatezza delle politiche che si sono servite dell’indebitamento a sostegno dell’export, le speculazioni di borsa, gli affari conclusi con le «affidabili» oligarchie greche.
In breve: il mondo reale dell’economia finanziaria, sul quale i contribuenti tedeschi, come del resto quelli greci o di altri paesi, non esercitano alcun potere, e con il quale non intrattengono alcuna relazione controllabile.
Quello che è più grave è che questa versione degna degli Abderiti di Wieland (l’immaginario popolo della greca Abdera cui il grande illuminista tedesco faceva rappresentare la stupidità umana) non si limita a campeggiare nei titoli dei tabloid, ma fa da ossatura ai discorsi degli esponenti politici di primo piano.
I greci, insomma, non sarebbero stati vittima dei governi che li hanno governati nel passato e dei quali Berlino mostra una certa indecente nostalgia, e neanche di Syriza che governa solo da pochi mesi, ma del proprio, vizioso, stile di vita.
La colpa del governo di Alexis Tsipras è in fondo soprattutto quella di averli ascoltati e tentato di assecondarli: il referendum ha dato la parola ai reprobi. E questo deve essere pesantemente sanzionato.
La parte in commedia assegnata dalla propaganda mediatica tedesca al «parassita» Greco non è poi così distante, nella logica che la sottende, da quella una volta assegnata all’ebreo: naturalmente «infido», culturalmente «inquinante», moralmente riprovevole e collettivamente responsabile dei danni subiti individualmente da ogni cittadino germanico.
Siamo a pochi passi dal confine invalicabile della dottrina razziale. Del resto, la stampa tedesca più conservatrice si era già premurata di spiegarci che gli odierni greci nulla hanno a che vedere con l’età di Pericle, trattandosi di un miscuglio di slavi, turchi e albanesi.
I governanti di Berlino dovrebbero essere consapevoli di stare giocando col fuoco. In Germania qualsiasi giudizio sulla qualità morale di una popolazione dovrebbe essere soffocato sul nascere. Al contrario, nella partita giocata contro Atene, ma a ben vedere contro tutta l’Europa mediterranea, questo genere di argomenti sono stati invece ampiamente diffusi e amplificati.
L’opinione pubblica tedesca è diventata così un temibile bacino di sentimenti antieuropei, per non voler pensare al peggio. È in primo luogo dalle forze democratiche tedesche che ci aspettiamo una presa di coscienza della gravità di questa situazione, una reazione forte e chiara che faccia cadere la maschera «contabile» di una politica di potenza, incarnata dal «falco» Wolfgang Schauble.