Ci voleva Matteo Renzi per smentire Giulio Andreotti. Il grande vecchio della prima (e perdurante) repubblica sibilava “il potere logora chi non ce l’ha”, Renzi ha mostrato che il potere logora chi ce l’ha: lui. Ma Renzi non è il solo a patire di questo gran rimescolamento di carte post-referendum, e non basta consolarsi pensando che è stato bocciato in diritto costituzionale dal voto popolare e ora anche dalla Consulta. Non stiamo forse rischiando di disperdere lo slancio ideale di chi ha votato No perché crede alle ragioni della Costituzione? Tutti lamentano la crisi della rappresentanza e l’allontanarsi dei cittadini dalla politica, ma come arrestare questo degrado? Come far risorgere dalle ceneri una democrazia costituzionale?
Nelle ultime settimane di una campagna referendaria tanto forsennata da trasformarsi in boomerang, Renzi (un professionista del bluff) minacciava l’apocalisse in caso di vittoria del No. Questa catastrofe non si è vista, ma in compenso ne emergono altre, nascoste sotto il tappeto in attesa del referendum e ora ereditate da Gentiloni: dalla crisi delle banche all’ennesimo crack Alitalia, dalla disoccupazione giovanile al crescente dissesto del territorio. Lasciando la presidenza del Consiglio ma non la segreteria del Pd, Renzi con le sue voglie di rivalsa è oggi il maggior fattore di instabilità, e la sua apocalisse privata rischia di tracimare sul governo.
Egli non pensava certo che il suo tentativo di inquinare la Costituzione finisse col rimetterla al centro del dibattito politico; ma il tracollo del suo “governo costituente” e l’esito del referendum non stanno dando i frutti che si potevano sperare. Rischia anzi di ripetersi la frustrante esperienza del post-referendum 2006, quando la riforma Berlusconi-Bossi fu solennemente bocciata nelle urne, ma la sinistra non seppe raccogliere i cittadini sotto la bandiera della Costituzione, per cui pure avevano votato, e nel 2008 Berlusconi vinse di nuovo le elezioni. Gli schieramenti referendari, com’era ovvio, si sono velocemente sbriciolati.
Sul fronte del Sì, scricchiola quotidianamente la misalliance fra le residue fedeltà al Pd di chi ha votato per disciplina di partito e il conformismo neoliberista degli anziani (fra cui va contato anche Renzi: il potere invecchia chi ce l’ha). Sul fronte del No, si allarga il baratro fra chi lo ha scelto per le ragioni della Costituzione e chi lo ha fatto strumentalmente; ed è morta la temporanea convergenza con un Brunetta, secondo cui – non dimentichiamolo – “ ‘l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro’ non significa assolutamente nulla di fronte a concetti fondamentali, come quelli del mercato, della concorrenza e del merito”.
Da compagni di strada come questo (o come Salvini), meglio guardarsi. Ma come evitare che si auto-attribuiscano la vittoria? E come distinguere fra le varie componenti di quella “accozzaglia” senza confondere il grano col loglio? Si può ridisegnare la mappa politica a partire dalle energie positive emerse nel dibattito referendario, o è già troppo tardi? Forse. Certo, se una parte consistente della sinistra, a cominciare dalla Cgil, avesse più fortemente scommesso sulla vittoria del No, potrebbe oggi intestarsi la vittoria; per non dire delle crisi di identità di quei parlamentari Pd che al referendum hanno respinto la riforma che avevano approvato in aula. Ma rispetto al post-referendum del 2006 ci sono oggi due varianti significative, il M5S e le numerose associazioni nate in risposta alla riforma Renzi-Boschi. Il paradosso è che, pur con queste forze in campo, il fronte “costituzionale” del No, è inutile negarlo, non ha un vero baricentro programmatico. Neppure nella Costituzione. A indicare chiari traguardi non giovano le cautele delle correnti interne al Pd, che con una mano giurano santa obbedienza al segretario Renzi e con l’altra cucinano la sua rovina, mentre chi va in rovina è il partito, con una emorragia di militanti senza precedenti e senza fine. Forse hanno dimenticato quel che Renzi prometteva alla vittoria del Sì : “Subito dopo, noi nel partito ci entreremo con il lanciafiamme”. Immagine coerente con la terminologia dell’Italicum, dove si parla di “capo della forza politica”, ma anche con una concezione del segretario Pd come capopopolo, prima che capopartito.
Renzi ha trapiantato nel Pd l’idea di un “partito del capo”, ma non l’ha certo inventata, e non ne ha il monopolio. Quello di Berlusconi è sempre stato un partito del capo, e così (pur cambiando leader) la Lega. Lo stesso è vero anche per il Movimento 5 Stelle, che proclama di non essere un partito, ma dove la leadership di Grillo resta indiscussa. Ma la resurrezione della democrazia in Italia non avverrà mai, se non si comincia dalla democrazia interna delle forze politiche (partiti o movimenti, poco importa; ma “partito” è il termine usato dalla Costituzione: art. 49). Se non si getta alle ortiche l’etica tribale imperniata sulla venerazione del capo e sulla sua dispotica elargizione di dettami o favori.
L’antica forma-partito, dal Pci alla Dc, era un luogo di pensiero, di riflessione, di (mutua) educazione, di studio e informazione sui fatti della società e della politica, sui dati, sulle prospettive (per esempio, di attuazione della Costituzione e degli ideali della Resistenza). Oggi e non domani sarebbe il momento di ripensare a fondo quel formato, non per rilanciarlo tal quale, ma anzi per radicalizzarlo davanti alla feroce crisi della democrazia che viviamo. Alla crisi della politica (con la p minuscola), al piccolo cabotaggio dei furbastri che gestiscono il potere, si risponde in un solo modo: con il rilancio della Politica (con la P maiuscola), l’arte dei cittadini di conversare fra loro nella comunità (nella polis) mirando al bene comune. Una parte significativa di chi ha votato No al referendum (ma anche una parte di chi ha votato Sì) reclama piú Politica, cioè una piú alta, forte e consapevole voce dei cittadini. È qui che dovremmo cercare il meccanismo-base della democrazia, il serbatoio delle idee per un’alternativa di governo. Se mai queste energie frammentarie e disperse riuscissero a convergere, sarebbe il caso non di sancire la morte della forma-partito, ma piuttosto di rigenerarne a fondo la natura con una forte democrazia interna, primo passo necessario per reagire alla crisi di rappresentanza che viviamo. Perché, al di là dei trucchi della politica (con la p minuscola), piú importante della stabilità è la democrazia. La Politica (con la P maiuscola).